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                                         De Bello Gallico

Il De bello Gallico narra le campagne condotte da Cesare in Gallia tra gli anni 58 e 52: sette libri per sette anni di guerra. La prima campagna ebbe lo scopo di arginare i movimenti migratori verso sud, prima degli Elvezi, poi dei Germani di Ariovisto (l. I).
Sconfitti Elvezi e Germani, la guerra diventa ben presto offensiva: dapprima contro i Belgi e i Nervi, popolazione della Gallia belgica (l. II), poi contro i Veneti e gli Aquitani, con la conquista di tutti i territori che dal nord scendono lungo la costa atlantica fino ai Pirenei (l. III).
Respinti i Téncteri e gli Usìpeti Cesare, giudicando completa la pacificazione della Gallia, compie una rapida puntata oltre il Reno e insegue le popolazioni germaniche che si rifugiano nelle foreste dell'interno; successivamente tenta anche uno sbarco in Britannia, con scarsi risultati (l. IV).
Migliori successi Cesare in Britannia li ottiene l'anno dopo; ma intanto ha inizio l'insurrezione gallica (l. V). La rivolta è favorita dai Tréviri, popolazione germanica stanziata tra il Reno e la Mosa; Cesare compie un'altra spedizione oltre il Reno, poi, tornato in Gallia, pone termine alla sollevazione degli Eburoni (l. VI). Mentre Cesare è in Italia per seguire più da vicino le pericolose vicende politiche che stanno svolgendosi a Roma, si svolge in Gallia la più rivolta antiromana, campeggiata da Vercingetoríge, re degli Arveni. Dopo duri scontri e alterne vicende, Cesare assedia infine l'avversario ad Alesia, lo sconfigge e lo fa prigioniero (l. VII). La conquista della Gallia transalpina è compiuta.
Gli avvenimenti degli ultimi due anni della guerra gallica (51 - 50) sono narrati nell'VIII libro, composto da Aulo Irzio, generale dell'esercito di Cesare: un'opera che collega gli avvenimenti della guerra gallica all'inizio della guerra civile.

                                       

                                       (Testo/Traduzione)

 

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Libro I

Libro II

Libro III

Libro IV

Libro V

Libro VI

Libro VII

Libro VIII

 

                               Libro V Traduzione

 


1



Sotto il consolato di L. Domizio e Ap. Claudio, Cesare, al momento di lasciare i quartieri
invernali per recarsi in Italia, come di consueto ogni anno, ordina ai legati preposti alle
legioni di costruire, durante l'inverno, il maggior numero possibile di navi e di riparare
le vecchie. Ne indica la struttura e la forma: per garantire rapide operazioni di imbarco e
per tirarle con facilità in secco, le costruisce lievemente più basse delle navi di solito
impiegate nel nostro mare e, tanto più perché aveva saputo che qui, per il frequente
alternarsi delle maree, le onde sono meno alte, allo scopo di facilitare il trasporto del
carico e dei giumenti, le rende un po' più larghe delle imbarcazioni che usiamo negli altri
mari. Ordina di costruirle tutte leggere, e a tale scopo contribuiscono molto i bordi
bassi. Comanda di far pervenire dalla Spagna tutto il necessario per equipaggiarle. Dal
canto suo, tenute le sessioni giudiziarie in Gallia cisalpina, parte per l'Illirico, perché
aveva sentito che i Pirusti, con scorrerie, stavano devastando le regioni di confine della
nostra provincia. Una volta sul posto, chiede alle popolazioni truppe in rinforzo e ordina
di concentrarle in un luogo stabilito. I Pirusti, appena lo sanno, inviano a Cesare
emissari: gli spiegano che tutto era accaduto senza una deliberazione ufficiale e si
dichiarano pronti a qualsiasi risarcimento dei danni. Dopo averli ascoltati, Cesare esige
ostaggi e fissa il giorno della consegna; in caso contrario, dichiara che avrebbe mosso
guerra. Secondo gli ordini, consegnano gli ostaggi il giorno stabilito ed egli, per
dirimere le controversie tra le città, nomina dei giudici incaricati di calcolare i danni e
di stabilire i risarcimenti.





2



Dopo tali provvedimenti e tenute le sessioni giudiziarie, Cesare ritorna nella Gallia
cisalpina e, da qui, parte alla volta dell'esercito. Appena giunto, ispeziona tutti i campi
invernali e trova che, nonostante la carenza estrema di materiale, i soldati, grazie al
loro straordinario impegno, avevano costruito circa seicento imbarcazioni del tipo già
descritto e ventotto navi da guerra, in grado di essere varate entro pochi giorni. Elogiati
i soldati e gli ufficiali preposti ai lavori, impartisce le istruzioni e ordina a tutti di
radunarsi a Porto Izio, da dove sapeva che il passaggio in Britannia era assai agevole,
perché la distanza dal continente era di circa trenta miglia: lasciò un presidio giudicato
sufficiente per tale operazione. Egli, alla testa di quattro legioni senza bagagli e di
ottocento cavalieri, punta sui territori dei Treveri, popolo che non si presentava alle
assemblee, non ubbidiva agli ordini e, a quel che si diceva, sollecitava l'intervento dei
Germani d'oltre Reno.





3



I Treveri possiedono, tra tutti i Galli, la cavalleria più forte in assoluto e una fanteria
numerosa. I loro territori raggiungono, come si è detto in precedenza, il Reno. Tra i
Treveri due uomini lottavano per il potere: Induziomaro e Cingetorige. Quest'ultimo, non
appena giunge notizia dell'arrivo di Cesare con le legioni, gli si presenta e,
confermandogli che lui e tutti i suoi avrebbero rispettato gli impegni assunti senza
tradire l'amicizia del popolo romano, lo mette al corrente della situazione. Induziomaro,
invece, inizia a raccogliere cavalieri e fanti e a prepararsi alla guerra; chi, per ragioni
d'età, non poteva combattere, era stato posto al sicuro nella selva delle Ardenne, una
foresta enorme, che dal Reno attraverso la regione dei Treveri si estende sino al confine
dei Remi. Ma quando alcuni principi dei Treveri, spinti dai loro legami di amicizia con
Cingetorige e spaventati dall'arrivo del nostro esercito, si recarono da Cesare e, non
potendo provvedere per la nazione, cominciarono a presentargli richieste per se stessi,
anche Induziomaro, nel timore di rimaner completamente solo, gli inviò emissari: non aveva
voluto abbandonare i suoi e presentarsi di persona a Cesare soltanto per poter garantire,
con maggior facilità, il rispetto degli impegni assunti; c'era il rischio che il popolo,
una volta lontani tutti i nobili, commettesse imprudenze; i Treveri, dunque, erano sotto la
sua autorità ed egli, se Cesare lo permetteva, si sarebbe recato nell'accampamento romano
per porre se stesso e la propria gente sotto la sua protezione.





4



Cesare, anche se capiva i motivi che avevano spinto Induziomaro a parlare in tali termini e
che cosa lo inducesse a rinunciare al piano intrapreso, tuttavia, per non trovarsi
costretto, con la spedizione per la Britannia già pronta, a passare l'estate nelle terre
dei Treveri, gli ordinò di presentarsi con duecento ostaggi. Dopo che Induziomaro ebbe
consegnato gli ostaggi, tra cui suo figlio e tutti i suoi parenti, espressamente richiesti,
Cesare lo trattò con benevolenza, lo invitò a rispettare gli impegni; comunque, convocati i
capi dei Treveri, li riconciliò uno a uno con Cingetorige, non solo in considerazione dei
meriti da lui acquisiti, ma anche perché riteneva molto importante favorire al massimo
l'autorità di Cingetorige tra i Treveri, data la straordinaria devozione del Gallo nei suoi
confronti. Fu un duro colpo per Induziomaro veder diminuito il suo prestigio tra i Treveri:
se già prima il suo animo ci era ostile, adesso l'ira lo inasprì maggiormente.





5



Sistemata la questione, Cesare con le legioni raggiunse Porto Izio. Qui apprese che
sessanta navi, costruite nelle terre dei Meldi, erano state respinte da una tempesta e non
avevano potuto tenere la rotta, per cui erano rientrate alla base di partenza; trovò, però,
le altre pronte a salpare ed equipaggiate di tutto punto. Qui lo raggiunsero contingenti di
cavalleria da ogni parte della Gallia, per un complesso di circa quattromila uomini,
insieme ai principi dei vari popoli: ne lasciò in Gallia ben pochi, quelli di provata
lealtà; gli altri aveva deliberato di portarseli dietro in qualità di ostaggi, perché
temeva, in sua assenza, una sollevazione della Gallia.





6



Tra gli altri c'era l'eduo Dumnorige, di cui abbiamo già parlato. Fu uno dei primi che
Cesare decise di tenere con sé, conoscendone il desiderio di rivolgimento, l'ambizione di
comandare, la forza d'animo e il grande prestigio tra i Galli. Inoltre, nell'assemblea
degli Edui, Dumnorige aveva detto che Cesare gli aveva offerto il regno: ciò non piaceva
affatto agli Edui, ma non osavano inviare messi a Cesare per opporsi o per invitarlo a
desistere. Della faccenda Cesare era stato informato dai suoi ospiti. Dumnorige, in un
primo tempo, ricorse a ogni sorta di preghiere per riuscire a restare in Gallia: disse di
aver paura del mare, inesperto com'era di navigazione, addusse come scusa un impedimento
d'ordine religioso. Quando vide le sue richieste tenacemente respinte, persa ogni speranza
di raggiungere il suo scopo, cominciò a sobillare i principi della Gallia e a
terrorizzarli; li prendeva in disparte, li spingeva a non lasciare il continente: non era
un caso se la Gallia veniva privata di tutti i nobili; si trattava di un piano di Cesare,
che, non avendo il coraggio di eliminarli sotto gli occhi dei Galli, li portava in
Britannia per ucciderli; come garanzia per loro, Dumnorige dava la propria parola, ma ne
esigeva la promessa, con giuramento solenne, di provvedere di comune accordo a ciò che
ritenevano l'interesse della Gallia. Le mosse di Dumnorige vennero riferite a Cesare da più
d'uno.





7



Non appena lo seppe, Cesare, in quanto attribuiva molto prestigio al popolo eduo, stimava
necessario tenere a freno e dissuadere Dumnorige con qualsiasi mezzo. E vedendo che la
follia del Gallo non faceva che crescere sempre di più, passò alle misure necessarie per
evitare danni a sé e alla repubblica. Così, nel periodo in cui fu costretto a rimanere a
Porto Izio, circa venticinque giorni, perché il vento coro, che in quella regione soffia
pressoché costante in ogni epoca dell'anno, impediva la navigazione, Cesare si adoperava
per tenere al suo posto Dumnorige e per conoscerne, al tempo stesso, tutti i piani. Alla
fine, sfruttando il tempo propizio alla navigazione, ordina ai soldati e ai cavalieri di
imbarcarsi. Ma mentre tutti erano intenti a tale operazione, Dumnorige, alla testa dei
cavalieri edui, si allontana dal campo e si dirige in patria, all'insaputa di Cesare.
Appena informato, sospesa la partenza e rimandata ogni altra faccenda, Cesare lancia
all'inseguimento di Dumnorige il grosso della cavalleria e comanda di ricondurlo
all'accampamento; se si fosse ribellato e non avesse eseguito gli ordini, dà disposizione
di ucciderlo, non attendendosi nulla di sensato, in propria assenza, da un uomo che aveva
dissubbidito al suo cospetto. All'intimazione di tornare indietro, Dumnorige comincia a
opporre resistenza, si difende con la forza, scongiura i suoi di osservare i patti,
proclamandosi più volte, a gran voce, uomo libero di un popolo libero. I Romani, conforme
agli ordini, lo circondano e lo uccidono: tutti i cavalieri edui ritornano da Cesare.





8



Dopo tali avvenimenti, Cesare lasciò Labieno sul continente con tre legioni e duemila
cavalieri, per difendere i porti, provvedere alle scorte di grano, tenersi al corrente
della situazione in Gallia e prendere decisioni sulla base del momento e delle circostanze.
Dal canto suo, salpò alla testa di cinque legioni e di tanti cavalieri, quanti ne aveva
lasciati in terraferma; fece vela verso il tramonto, al soffio leggero dell'africo, che
però cessò verso mezzanotte, impedendogli di tenere la rotta: spinto piuttosto lontano
dalla marea, all'alba vide che aveva lasciato la Britannia alla sua sinistra. Allora,
sfruttando, adesso, la marea, che aveva cambiato direzione, a forza di remi cercò di
raggiungere la zona dell'isola che - lo sapeva dall'estate precedente - consentiva un
comodissimo accesso. Nel corso della manovra, veramente lodevole fu l'impegno dei soldati:
pur con navi da trasporto appesantite dai carichi, senza mai smettere di remare, riuscirono
a uguagliare la velocità delle navi da guerra. Approdò in Britannia con tutte le navi verso
mezzogiorno, senza alcun nemico in vista; come apprese in seguito dai prigionieri, i
Britanni, giunti sul luogo con truppe numerose, erano rimasti atterriti alla vista della
nostra flotta: erano apparse, contemporaneamente, più di ottocento unità, comprese le navi
dell'anno precedente e le imbarcazioni private che alcuni avevano costruito per propria
comodità. Quindi, i nemici avevano abbandonato il litorale e si erano rifugiati sulle
alture.





9



Cesare provvide allo sbarco dell'esercito e alla scelta di un luogo adatto per il campo.
Non appena dai prigionieri seppe dove si erano attestate le truppe nemiche, lasciò nella
zona costiera dieci coorti e trecento cavalieri a presidio delle navi e, dopo mezzanotte,
mosse contro i nemici, senza alcun timore per le imbarcazioni, lasciate all'ancora su un
litorale in lieve pendio e senza scogli; lasciò a capo del distaccamento e delle navi Q.
Atrio. Dopo aver percorso, di notte, circa dodici miglia, Cesare avvistò i nemici, che
dalle alture, con la cavalleria e i carri, avanzarono verso il fiume: qui, stando in
posizione più elevata, impedirono ai nostri di procedere e attaccarono battaglia. Respinti
dalla cavalleria, cercarono rifugio nelle selve, sfruttando una zona egregiamente difesa
dalla conformazione naturale e da fortificazioni allestite già in passato, probabilmente in
occasione di guerre interne: avevano abbattuto molti alberi, disponendoli in modo da
precludere ogni accesso. I Britanni, disseminati qua e là, combattevano dall'interno delle
selve e ostacolavano l'ingresso dei nostri nella loro roccaforte. Ma i soldati della
settima legione, dopo aver formato la testuggine ed essere riusciti a costruire un
terrapieno fino ai baluardi nemici, presero la postazione dei Britanni e, subendo poche
perdite, li costrinsero a lasciare le selve. Ma Cesare ordinò di non proseguire
l'inseguimento, sia perché non conosceva la zona, sia perché era già giorno inoltrato e
voleva dedicare le ultime ore di luce a rinsaldare le difese del proprio campo.





10



La mattina successiva, inviò all'inseguimento del nemico in fuga tre colonne di legionari e
cavalieri. I nostri avevano già percorso un certo tratto ed erano ormai in vista dei primi
fuggiaschi, quando alcuni cavalieri inviati da Q. Atrio raggiunsero Cesare per riferirgli
che la notte precedente era scoppiata una violentissima tempesta: quasi tutte le navi
avevano subito danni ed erano state sbattute sul litorale; non avevano retto né le ancore,
né le gomene; nulla avevano potuto marinai e timonieri contro la violenza della tempesta:
le navi avevano cozzato le une contro le altre, riportando gravi danni.





11



Informato dell'accaduto, Cesare ordina alle legioni e alla cavalleria di ritornare e di
resistere durante il rientro; lui personalmente raggiunge le navi. Constata, con i suoi
occhi, che la situazione all'incirca corrispondeva alle informazioni ricevute dalla lettera
e dai messi: risultavano perdute circa quaranta navi, ma le altre sembravano riparabili,
sia pur con grandi fatiche. Così, tra i legionari sceglie dei carpentieri e ne fa arrivare
altri dal continente. Scrive a Labieno di costruire, con le legioni a sua disposizione,
quante più navi possibile. Sebbene l'operazione risultasse molto complicata e faticosa,
decide che la soluzione migliore consisteva nel tirare in secco tutte le navi e
congiungerle all'accampamento con una fortificazione unica. I lavori richiedono circa dieci
giorni, durante i quali i soldati non si concedono mai una sosta, neppure di notte. Tirate
in secco le imbarcazioni e ben munito il campo, lascia a presidio delle navi le stesse
truppe di prima e ritorna da dove era venuto. Appena giunto, vede che già si erano lì
radunate, ben più numerose di prima, truppe nemiche provenienti da tutte le regioni: il
comando supremo delle operazioni era stato affidato, per volontà comune, a Cassivellauno,
sovrano di una regione separata dai popoli che abitavano lungo il mare da un fiume chiamato
Tamigi e distante dal mare circa ottanta miglia. In passato, tra Cassivellauno e gli altri
popoli c'era stata continua guerra, ma adesso i Britanni, preoccupati per il nostro arrivo,
gli avevano conferito il comando supremo delle operazioni.





12



Nella parte interna della Britannia gli abitanti, secondo quanto essi stessi dicono per
remota memoria, sono autoctoni, mentre nelle regioni costiere vivono genti venute dal
Belgio a scopo di bottino e di guerra e che, dopo la guerra, si erano qui insediate dandosi
all'agricoltura: quasi tutte queste genti conservano i nomi dei gruppi di origine. La
popolazione è numerosissima, molto fitte le case, abbastanza simili alle abitazioni dei
Galli, elevato il numero dei capi di bestiame. Come denaro usano rame o monete d'oro,
oppure, in sostituzione, sbarrette di ferro di un determinato peso. Le regioni dell'interno
sono ricche di stagno, sulla costa si trova ferro, ma in piccola quantità; usano rame
importato. Ci sono alberi d'ogni genere, come in Gallia, tranne faggi e abeti. La loro
religione vieta di mangiare lepri, galline e oche, animali che essi, comunque, allevano per
proprio piacere. Il clima è più temperato che in Gallia, il freddo meno intenso.





13



L'isola ha forma triangolare, con un lato posto di fronte alla Gallia: un angolo di questo
lato, verso il Canzio, dove approdano quasi tutte le navi provenienti dalla Gallia, è
rivolto a oriente; l'altro, più basso, guarda a meridione. Questo lato è lungo circa
cinquecento miglia. Un altro lato è volto verso la Spagna e occidente: su questo versante
c'è l'Ibernia, un'isola che si reputa circa la metà della Britannia e che da essa dista
tanto quanto la Britannia stessa dalla Gallia. A metà strada si trova un'isola chiamata
Mona; inoltre, si ritiene che ci siano molte altre isole minori lungo la costa: alcuni
hanno scritto che in esse, nel periodo del solstizio d'inverno, la notte dura trenta giorni
consecutivi. Noi non siamo riusciti a raccogliere altre notizie in proposito, malgrado le
nostre domande; abbiamo solo constatato che qui le notti, misurate con precisione mediante
clessidre ad acqua, sono più brevi rispetto al continente. La lunghezza di questo lato,
secondo l'opinione degli autori citati, è di settecento miglia. Il terzo lato è rivolto a
settentrione: nessuna terra gli sta di fronte, ma un suo lembo guarda essenzialmente verso
la Germania. Si ritiene che si estenda per ottocento miglia. Così, il perimetro totale
dell'isola risulta di duemila miglia.





14



Tra tutti i popoli della Britannia, i più civili in assoluto sono gli abitanti del Canzio,
una regione completamente marittima non molto dissimile per usi e costumi dalla Gallia. Gli
abitanti dell'interno, per la maggior parte, non seminano grano, ma si nutrono di latte e
carne e si vestono di pelli. Tutti i Britanni, poi, si tingono col guado, che produce un
colore turchino, e perciò in battaglia il loro aspetto è ancor più terrificante; portano i
capelli lunghi e si radono in ogni parte del corpo, a eccezione della testa e del labbro
superiore. Hanno le donne in comune, vivendo in gruppi di dieci o dodici, soprattutto
fratelli con fratelli e genitori con figli; se nascono dei bambini, sono considerati figli
dell'uomo che per primo si è unito alla donna.





15



I cavalieri e gli essedari nemici si scontrarono duramente con la nostra cavalleria in
marcia, che però ebbe il sopravvento in ogni settore e li respinse nelle selve e sui colli.
I nostri, però, dopo averne uccisi molti, li inseguirono con eccessiva foga e riportarono
alcune perdite. I Britanni per un po' attesero, poi, all'improvviso, dalle selve si
precipitarono sui nostri, che non se l'aspettavano ed erano intenti ai lavori di
fortificazione: assalite le guardie di fronte all'accampamento, si batterono accanitamente.
Cesare inviò in aiuto due coorti - le prime di due legioni - che si schierarono a
brevissima distanza l'una dall'altra. Ma mentre i nostri erano atterriti dalla nuova
tattica di combattimento degli avversari, i Britanni, con estrema audacia, sfondarono il
fronte tra le due coorti e, quindi, ripararono in salvo. Quel giorno perde la vita Q.
Laberio Duro, tribuno militare. I nemici vengono respinti grazie all'invio di altre coorti
a rinforzo.





16



Nel suo insieme, il tipo di battaglia, svoltasi sotto gli occhi di tutti, davanti
all'accampamento, ci permise di capire che i nostri non erano preparati ad affrontare un
avversario del genere: appesantiti dall'armamento, i Romani non erano in grado di inseguire
i nemici in fuga, né osavano allontanarsi dalle insegne. I cavalieri, poi, correvano grossi
rischi nella mischia, perché gli avversari per lo più cedevano, anche di proposito: quando
erano riusciti a portare i nostri cavalieri abbastanza lontano dalle legioni, scendevano
dai carri e, a piedi, combattevano in posizione di vantaggio. Così, la natura degli scontri
di cavalleria era identica per chi inseguiva e per chi si ritirava, presentando pari
pericolo per entrambi. Inoltre, i nemici non lottavano mai in formazione serrata, ma a
piccoli gruppi molto distanziati, disponendo postazioni di riserva: a turno gli uni
subentravano agli altri, soldati freschi e riposati davano il cambio a chi era stanco.





17



L'indomani i nemici si attestarono sui colli, lontano dall'accampamento. Cominciarono ad
avanzare in ordine sparso e a sfidare la nostra cavalleria con minor foga del giorno
precedente. Ma nel pomeriggio, dopo che Cesare aveva inviato in cerca di foraggio tre
legioni e tutta la cavalleria agli ordini del legato C. Trebonio, all'improvviso i nemici
piombarono su di essi da ogni direzione, stringendosi attorno alle insegne e alle legioni.
I nostri, con un veemente assalto, li respinsero e li incalzarono: i cavalieri, contando
sull'appoggio delle legioni, che vedevano alle spalle, costrinsero i nemici a una fuga
precipitosa, ne fecero strage e non diedero loro la possibilità né di raccogliersi, né di
attestarsi o di scendere dai carri. Questa fuga provocò subito la dispersione delle truppe
ausiliarie dei Britanni, che erano giunte da ogni regione: in seguito, il nemico non ci
avrebbe più affrontato con l'esercito al completo.





18



Cesare, informato delle intenzioni dei Britanni, condusse l'esercito nelle terre di
Cassivellauno, verso il Tamigi, fiume che può essere guadato a piedi solo in un punto, e a
stento. Appena giunto, si rese conto che sull'altra sponda erano schierate ingenti forze
nemiche. La riva, poi, era difesa da pali aguzzi piantati nel terreno, così come altri
simili, sott'acqua, erano celati dal fiume. Messo al corrente di ciò dai prigionieri e dai
fuggiaschi, Cesare mandò in avanti la cavalleria e ordinò alle legioni di seguirla senza
indugio. I nostri, pur riuscendo a tenere fuori dall'acqua solo la testa, avanzarono con
una rapidità e un impeto tale, che gli avversari, non essendo in grado di reggere
all'assalto delle legioni e della cavalleria, abbandonarono la riva e fuggirono.





19



Cassivellauno - lo abbiamo detto in precedenza - persa ogni speranza di proseguire nello
scontro aperto, aveva congedato il grosso dell'esercito e con solo circa quattromila
essedari sorvegliava i nostri movimenti: si teneva a poca distanza dalle strade, nascosto
in luoghi di difficile accesso e fitti di boschi; nelle zone per cui sapeva che dovevamo
transitare cacciava via bestiame e popolazione dalle campagne nelle foreste. Quando la
nostra cavalleria si spingeva troppo in là nei campi, per saccheggiare e devastare, lungo
tutte le strade e i sentieri, dai boschi Cassivellauno lanciava all'attacco i carri e
combatteva con i nostri con tale rischio per loro, da costringerli, per il timore di
scontri, a non spingersi troppo distante. A Cesare non restava che impedire alla cavalleria
di allontanarsi troppo dal grosso delle legioni in marcia, e accontentarsi di danneggiare i
nemici devastandone le campagne e appiccando incendi, per quanto lo potevano i legionari,
impegnati in marce faticose.





20



Nel frattempo giunge a Cesare un'ambasceria da parte dei Trinovanti, il più potente, o
quasi, tra i popoli di quelle regioni. In passato, uno di essi, il giovane Mandubracio, si
era posto sotto la protezione di Cesare e lo aveva raggiunto sul continente: suo padre era
diventato re ed era stato ucciso da Cassivellauno, mentre lui si era salvato con la fuga.
Gli ambasciatori dei Trinovanti, promettendo resa e obbedienza, chiedono a Cesare di
tutelare Mandubracio dai soprusi di Cassivellauno e di inviarlo al suo popolo per
diventarne il capo e assumere il potere. Cesare esige da loro quaranta ostaggi e grano per
l'esercito e invia Mandubracio. I Trinovanti eseguirono rapidamente gli ordini e mandarono
gli ostaggi, secondo il numero fissato, e il grano.





21



Vedendo i Trinovanti protetti e al sicuro da ogni attacco militare, i Cenimagni, i
Segontiaci, gli Ancaliti, i Bibroci e i Cassi mandarono a Cesare ambascerie per arrendersi.
Da essi seppe che, non lontano, sorgeva la roccaforte di Cassivellauno difesa da selve e
paludi, dove erano stati concentrati uomini e bestiame in numero ragguardevole. I Britanni,
in effetti, chiamano roccaforte una selva impraticabile munita da vallo e fossa, dove di
solito si raccolgono per sottrarsi alle incursioni dei nemici. Lì Cesare si diresse con le
legioni: si imbatté in un luogo estremamente ben protetto sia dalla conformazione naturale,
sia dall'opera dell'uomo. Nonostante ciò, intraprese l'assedio su due fronti. I nemici
opposero una breve resistenza, ma non riuscirono a frenare l'assalto dei nostri e cercarono
di mettersi in salvo da un'altra parte della roccaforte. Qui venne trovato un gran numero
di capi di bestiame e molti dei fuggiaschi furono catturati e uccisi.





22



Nel corso di tali avvenimenti, Cassivellauno invia dei messi nel Canzio, regione che si
affaccia sul mare - lo si è già ricordato - e che era governata da quattro re: Cingetorige,
Carvilio, Taximagulo e Segovace. A essi ordina di raccogliere tutte le loro truppe e di
sferrare un improvviso attacco all'accampamento navale romano, ponendolo sotto assedio.
Appena i nemici giunsero al campo, i nostri effettuarono una sortita e ne fecero strage:
catturato anche il loro capo, Lugotorige, di nobile stirpe, rientrarono sani e salvi.
Quando gli fu annunciato l'esito della battaglia, Cassivellauno, visti i tanti rovesci, i
territori devastati e scosso, soprattutto, dalle defezioni, invia, tramite l'atrebate
Commio, una legazione a Cesare per trattare la resa. Cesare aveva deciso di svernare sul
continente per prevenire repentine sollevazioni in Gallia e si rendeva conto che, volgendo
ormai l'estate al termine, i nemici potevano con facilità temporeggiare. Perciò, chiede
ostaggi e fissa il tributo che la Britannia avrebbe dovuto pagare annualmente al popolo
romano. A Cassivellauno proibisce formalmente di arrecar danno a Mandubracio o ai
Trinovanti.





23



Consegnati gli ostaggi, riconduce l'esercito sulla costa, dove trova le navi riparate. Dopo
averle calate in acqua, decise di trasportare l'esercito in due viaggi, poiché aveva molti
prigionieri e alcune navi erano state distrutte dalla tempesta. Ma ecco che cosa capitò: di
tante navi, in tante traversate, non ne era andata perduta neppure una che trasportasse
soldati, né quell'anno, né l'anno precedente; delle imbarcazioni, invece, che gli venivano
rinviate vuote dal continente (che si trattasse delle navi di ritorno dal primo viaggio
dopo aver sbarcato le truppe, oppure delle sessanta costruite in un secondo tempo da
Labieno), pochissime erano giunte a destinazione, quasi tutte le altre erano state
ributtate sulla costa. Cesare le attese per un po' inutilmente; poi, per evitare che la
stagione - l'equinozio era vicino - impedisse la navigazione, fu costretto a stipare i
soldati un po' più allo stretto del solito. Levate le ancore subito dopo le nove di sera,
trovò il mare molto calmo e all'alba prese terra: aveva portato in salvo tutte le navi.





24



Dopo aver tratto in secca le navi e tenuto l'assemblea dei Galli a Samarobriva, vista la
magra annata per il grano a causa della siccità, fu costretto a disporre i quartieri
d'inverno in modo diverso rispetto agli anni precedenti e a ripartire le legioni su più
territori. Ne inviò una presso i Morini sotto la guida del legato C. Fabio, un'altra con Q.
Cicerone dai Nervi, una terza con L. Roscio nella regione degli Esuvi; ordinò che una
quarta legione, al comando di T. Labieno, svernasse nei territori dei Remi, al confine con
i Treveri; ne stanziò tre nel paese dei Belgi, alle dipendenze del questore M. Crasso e dei
legati L. Munazio Planco e C. Trebonio. Una legione, di recente arruolata al di là del Po,
venne mandata, insieme a cinque coorti, fra gli Eburoni, che per la maggior parte abitano
tra la Mosa e il Reno e sui quali regnavano Ambiorige e Catuvolco. Il comando ne fu
affidato ai legati Q. Titurio Sabino e L. Aurunculeio Cotta. Ripartite così le truppe,
stimava di poter ovviare, con grande facilità, alla penuria di grano. Gli accampamenti
invernali di tutte le legioni non distavano, comunque, più di cento miglia l'uno
dall'altro, eccezion fatta per le milizie di L. Roscio, che però doveva condurle in una
zona del tutto tranquilla e sicura. Dal canto suo, Cesare decise di fermarsi in Gallia fino
a conferma ricevuta che le legioni erano stanziate nelle rispettive zone e che gli
accampamenti erano stati fortificati.





25



Tra i Carnuti viveva una persona di nobili natali, Tasgezio, i cui antenati avevano regnato
sul paese: Cesare gli aveva restituito il rango degli avi, in considerazione del suo valore
e della sua fedeltà, dato che in tutte le guerre Cesare si era avvalso del suo contributo
incomparabile. Tasgezio era già al suo terzo anno di regno, quando i suoi oppositori lo
eliminarono con una congiura, mentre anche molti cittadini avevano appoggiato apertamente
il piano. La cosa viene riferita a Cesare, che, temendo una defezione dei Carnuti sotto la
spinta degli oppositori - parecchi erano implicati nella vicenda - ordina a L. Planco di
partire al più presto dal Belgio alla testa della sua legione, di raggiungere il territorio
dei Carnuti e di passarvi l'inverno: chiunque gli risultasse implicato nell'uccisione di
Tasgezio, doveva essere arrestato e inviato a Cesare. Nello stesso tempo, tutti gli
ufficiali preposti alle legioni informano Cesare che erano giunti ai quartieri d'inverno e
che le fortificazioni erano ormai ultimate.





26



Circa quindici giorni dopo l'arrivo agli accampamenti invernali, improvvisamente scoppiò
un'insurrezione guidata da Ambiorige e Catuvolco. Costoro si erano presentati al confine
dei loro territori, a disposizione di Sabino e di Cotta e avevano consegnato grano
all'accampamento; in seguito, però, spinti dai messi del trevero Induziomaro, avevano
chiamato i loro a raccolta e, sopraffatti i nostri legionari in cerca di legna, con ingenti
forze avevano stretto d'assedio il campo. Mentre i nostri impugnavano rapidamente le armi e
salivano sul vallo, i cavalieri spagnoli, usciti da una porta del campo, sferravano un
attacco in cui ebbero la meglio: gli avversari, persa ogni speranza di vittoria, furono
costretti a togliere l'assedio. Poi, a gran voce, come è loro costume, chiesero che
qualcuno dei nostri si facesse avanti per parlamentare: avevano da riferire informazioni
d'interesse comune, grazie alle quali speravano di poter risolvere i contrasti.





27



Al colloquio viene inviato C. Arpineio, cavaliere romano, parente di Q. Titurio, insieme a
uno Spagnolo, un certo Q. Giunio, che in passato, per incarico di Cesare, si era già più
volte recato da Ambiorige. A essi Ambiorige parlò come segue: ammetteva i molti debiti di
riconoscenza nei confronti di Cesare (grazie al suo intervento era stato sollevato dal
tributo che pagava abitualmente agli Atuatuci, popolo limitrofo; Cesare gli aveva
restituito suo figlio e il figlio di suo fratello, che, inclusi nel novero degli ostaggi,
erano tenuti asserviti in catene dagli Atuatuci); quanto all'assedio al campo romano, aveva
agito non di iniziativa o volontà propria, ma costretto dal popolo, e la sua sovranità
stava in questi termini: la sua gente aveva nei suoi confronti gli stessi diritti che aveva
lui nei confronti della sua gente. Il popolo, d'altro, canto, era insorto perché non aveva
potuto opporsi alla repentina formazione di una lega dei Galli. E prova evidente di ciò era
la sua debolezza: non era tanto sprovveduto da confidare, con le proprie truppe, in una
vittoria sul popolo romano. Si trattava, piuttosto, di un piano comune a tutti i Galli: era
stato deciso di assediare, in quel giorno, tutti i campi invernali di Cesare, in modo che
nessuna legione fosse in grado di soccorrerne un'altra. Come potevano dei Galli, con
facilità, opporre un rifiuto alla proposta di altri Galli, soprattutto quando sembrava
mirare alla riconquista della libertà comune? Se, dunque, prima aveva aderito alla lega dei
Galli per amor di patria, adesso teneva conto del suo dovere per i benefici ricevuti da
Cesare: avvertiva, supplicava Titurio, in nome dei loro vincoli d'ospitalità, di provvedere
a porsi in salvo con i propri soldati. Un forte esercito di mercenari germani aveva
attraversato il Reno: sarebbero giunti nell'arco di due giorni. Spettava ai Romani la
decisione di far uscire dall'accampamento i soldati prima che i Galli vicini se ne
accorgessero, e condurli da Cicerone o da Labieno, distanti l'uno circa cinquanta miglia,
l'altro poco più. Prometteva e giurava dar via libera sul proprio territorio. Agendo così,
avrebbe provveduto al bene della propria gente, perché veniva liberata dal campo romano, e
ricambiato i servigi di Cesare. Ciò detto, Ambiorige si allontana.





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Arpineio e Giunio riferiscono le parole di Ambiorige ai legati, che, turbati dagli eventi
repentini, stimavano di dover dar peso alle informazioni, per quanto fornite dal nemico. Li
spingeva, soprattutto, una considerazione: era ben poco credibile che un popolo così oscuro
e debole come gli Eburoni avesse osato, di propria iniziativa, muovere guerra a Roma.
Perciò, rimandano la questione al consiglio di guerra, dove si verificano forti contrasti.
L. Aurunculeio, seguito da molti tribuni militari e dai centurioni più alti in grado, era
dell'avviso di non prendere iniziative avventate e di non lasciare i quartieri d'inverno
senza ordine di Cesare; spiegavano che, essendo il campo fortificato, era possibile tener
testa alle truppe dei Germani, per quanto numerose; lo testimoniava il fatto che avevano
retto con grandissimo vigore al primo assalto e avevano inflitto al nemico gravi perdite;
la situazione delle scorte di grano non era preoccupante; nel frattempo, sia dai campi più
vicini, sia da Cesare sarebbero arrivati rinforzi; infine, cosa c'era di più avventato o
vergognoso che deliberare su questioni gravissime, per suggerimento dei nemici?





29



A ciò Titurio obiettava, gridando, che si sarebbero mossi tardi, con le forze avversarie
ormai più consistenti per l'arrivo dei Germani oppure dopo qualche disastro negli
accampamenti vicini. Avevano poco tempo per decidere. Riteneva che Cesare fosse partito per
l'Italia, altrimenti i Carnuti non avrebbero preso la decisione di eliminare Tasgezio, né
gli Eburoni, se lui era presente in Gallia, avrebbero marciato sul campo con tanto
disprezzo per le nostre forze. Le proposte del nemico non c'entravano, si trattava di
valutare la situazione: il Reno era vicino; la morte di Ariovisto e le nostre precedenti
vittorie avevano costituito un gran dolore per i Germani; la Gallia bruciava per le molte
umiliazioni subite, per dover sottostare al dominio del popolo romano, per l'antica gloria
militare oscurata. Infine, ma chi poteva convincersi che Ambiorige avesse assunto una
decisione del genere senza uno scopo ben preciso? La sua proposta era sicura in entrambi i
casi: se non si verificava nulla di grave, avrebbero raggiunto la legione più vicina, senza
rischi; se, invece, la Gallia era tutta d'accordo con i Germani, l'unica speranza di
salvezza era riposta nella rapidità. Il parere di Cotta e di chi dissentiva, a cosa
portava? Se per il presente non rappresentava un pericolo, certo avrebbero dovuto temere la
fame, in un lungo assedio.





30



Mentre così si discuteva, da una parte e dall'altra, visto che Cotta e i centurioni più
alti in grado si opponevano con tenacia, Sabino disse: "E va bene, se proprio lo volete", e
a voce più alta, per essere sentito da un gran numero di soldati, proseguì: "Non sarò certo
io quello che, in mezzo voi, si lascia spaventare di più dalla paura della morte; ma
saranno loro a giudicare e a chiedere conto a te, se succede qualcosa di grave, loro, che
se tu lo consentissi, potrebbero raggiungere dopodomani l'accampamento più vicino e
affrontare le vicende della guerra insieme agli altri, invece di crepare per mano nemica o
sfiniti dalla fame, abbandonati e lontani da tutti".





31



Si alzano dal consiglio, prendono nel mezzo entrambi i legati e li pregano di non portare
la situazione al massimo rischio con il loro dissenso ostinato; la faccenda era facile sia
rimanendo, sia levando le tende, purché tutti fossero dello stesso avviso e partito; in
caso di disaccordo, invece, non intravedevano alcuna speranza di salvezza. La discussione
prosegue fino a notte fonda. Alla fine Cotta, turbato, si dà per vinto: prevale il parere
di Sabino. La partenza viene annunciata per l'alba. Il resto della notte la passano a
vegliare, ogni soldato valuta che cosa possa prendere con sé e quali oggetti
dell'accampamento invernale debba abbandonare per forza. Le pensano tutte pur di non
garantire, la mattina dopo, una partenza priva di rischi, e di aumentare il pericolo con la
stanchezza dei soldati, dovuta alla veglia. All'alba lasciano il campo, non come se fossero
stati persuasi dal nemico, ma quasi che avessero accolto il suggerimento di un amico di
provata lealtà, Ambiorige. L'esercito in marcia formava una schiera interminabile, con
numerosissimi bagagli.





32



I nemici, quando dall'agitazione notturna e dalla veglia prolungata, si resero conto che i
nostri preparavano la partenza, tesero insidie da due lati, nella boscaglia, su un terreno
favorevole e coperto, a circa due miglia dal campo, in attesa dell'arrivo dei Romani.
Allorché il grosso del nostro esercito era ormai entrato in un'ampia valle, all'improvviso,
dai fianchi della medesima sbucarono i nemici e iniziarono a premere sulla retroguardia, a
impedire all'avanguardia di salire, costringendo i nostri a combattere in condizioni
assolutamente sfavorevoli.





33



Solo allora Titurio, che nulla aveva previsto, cominciò ad agitarsi, a correre qua e là, a
disporre le coorti, ma sempre impaurito: sembrava che tutto gli venisse a mancare, come per
lo più accade a chi è costretto a decidere proprio mentre l'azione è in corso. Cotta,
invece, che aveva pensato all'eventualità di un attacco durante la marcia e che, perciò,
non era stato fautore della partenza, non risparmiò nulla per la salvezza di tutti e,
chiamando e incoraggiando i legionari, durante la battaglia, svolgeva le funzioni di
comandante e di soldato. La lunghezza della colonna rendeva più difficile provvedere a
tutto personalmente e impartire gli ordini necessari in ogni settore della battaglia,
perciò i comandanti diedero disposizione, passando la voce, di abbandonare i bagagli e di
assumere la formazione a cerchio. La manovra, anche se in circostanze del genere non è
riprovevole, si risolse in un danno: diminuì la fiducia dei nostri soldati e rese più
arditi i nemici, perché sembrava che fosse stata fatta per estremo timore e scoraggiamento.
Inoltre, accadde l'inevitabile: i soldati, ovunque, si allontanavano dalle insegne,
ciascuno correva ai bagagli per cercare e riprendersi le cose più care, tutto risuonava di
grida e pianti.





34



I barbari, invece, si dimostrarono avveduti. Infatti, i loro capi passarono ordine a tutto
lo schieramento che nessuno si allontanasse dal proprio posto: era preda riservata per loro
tutto ciò che i Romani avessero abbandonato, quindi dovevano pensare che tutto dipendeva
dalla vittoria. Il loro coraggio era pari al loro numero. I nostri, benché abbandonati dal
comandandante e dalla Fortuna, tuttavia riponevano ogni speranza di salvezza nel proprio
valore, e ogni volta che una coorte muoveva all'assalto, in quel settore cadeva un gran
numero di nemici. Appena se ne accorge, Ambiorige passa voce di scagliare dardi da lontano,
senza avvicinarsi, cedendo là dove i Romani avessero sferrato l'attacco: grazie alle loro
armi leggere e all'esercizio quotidiano avrebbero potuto infliggere ai Romani gravi
perdite; quando i nostri si fossero ritirati verso le insegne, dovevano inseguirli.





35



L'ordine venne scrupolosamente eseguito dai barbari: quando una coorte usciva dalla
formazione a cerchio e attaccava, i nemici indietreggiavano in gran fretta. Al tempo stesso
era inevitabile che quel punto rimanesse scoperto e che sul fianco destro piovessero dardi.
Poi, quando i nostri iniziavano il ripiegamento verso il settore di partenza, venivano
circondati sia dai nemici che si erano ritirati, sia dagli altri che erano rimasti fermi
nelle vicinanze. Se, invece, volevano tenere le posizioni, non avevano modo di esprimere il
proprio valore, né di evitare, così serrati, le frecce scagliate da una tal massa di
nemici. Comunque, pur travagliati da tante difficoltà e nonostante le gravi perdite,
resistevano e, trascorsa già gran parte del giorno - si combatteva dall'alba ed erano ormai
le due di pomeriggio - non si piegavano a nulla che fosse indegno di loro. A quel punto T.
Balvenzio, che l'anno precedente era stato centurione primipilo, soldato coraggioso e di
grande autorità, viene colpito da una tragula, che gli trapassa tutte e due le cosce; Q.
Lucanio, anch'egli primipilo, mentre combatteva con estremo valore, perde la vita nel
tentativo di recare aiuto al figlio circondato; il legato L. Cotta, mentre stava incitando
tutte le coorti e le centurie, viene colpito da un proiettile di fionda in pieno volto.





36



Scosso da tali avvenimenti, Q. Titurio, avendo scorto in lontananza Ambiorige che spronava
i suoi, gli invia il proprio interprete, Cn. Pompeo, per chiedergli salva la vita per sé e
i legionari. Ambiorige alla richiesta risponde: se Titurio voleva un colloquio, glielo
concedeva; sperava di poter convincere le truppe circa la salvezza dei soldati romani;
Titurio stesso, comunque, non avrebbe corso alcun rischio, se ne rendeva garante di
persona. Titurio si consiglia con Cotta, ferito: gli propone, se era d'accordo, di
allontanarsi dalla battaglia e di recarsi insieme a parlare con Ambiorige: sperava di
riuscire a ottenere salva la vita per loro e per i soldati. Cotta risponde che non si
sarebbe mai recato da un nemico in armi e non recede dalla sua decisione.





37



Ai tribuni militari che, al momento, aveva intorno a sé e ai centurioni più alti in grado,
Sabino dà ordine di seguirlo. Essendosi avvicinato ad Ambiorige, gli viene ingiunto di
gettare le armi: esegue l'ordine e comanda ai suoi di fare altrettanto. E mentre trattavano
delle condizioni di resa e Ambiorige, di proposito, tirava in lungo il suo discorso, a poco
a poco Sabino viene circondato e ucciso. A quel punto, com'è loro costume, i nemici levano
alte grida di vittoria, si lanciano all'assalto, scompaginano i ranghi dei nostri. L. Cotta
cade combattendo sul posto, come la maggior parte dei nostri. Gli altri si rifugiano
nell'accampamento da cui erano partiti. Tra di essi, L. Petrosidio, aquilifero, attaccato
da molti avversari, gettò l'aquila all'interno del vallo e cadde battendosi da vero eroe
dinanzi all'accampamento. I nostri, a malapena, riescono a reggere agli attacchi nemici
fino al calar delle tenebre; di notte, senza più speranze di salvezza, si tolgono la vita
tutti, sino all'ultimo. I pochi superstiti raggiungono, per vie malsicure tra le selve, il
campo del legato T. Labieno e lo informano dell'accaduto.





38



Imbaldanzito dalla vittoria, Ambiorige con la cavalleria si dirige verso gli Atuatuci, che
confinavano col suo regno. Non interrompe la marcia né di notte, né di giorno e ordina alla
fanteria di tenergli dietro. Illustrato l'accaduto e spinti gli Atuatuci alla ribellione,
il giorno seguente raggiunge i Nervi e li spinge a non perdere l'occasione di rendersi per
sempre liberi e di vendicarsi dei Romani per le offese ricevute. Racconta che due legati
erano stati uccisi e il grosso dell'esercito eliminato; non era affatto difficile cogliere
di sorpresa la legione che svernava con Cicerone e distruggerla; promette il suo aiuto
nell'impresa. Con tali parole persuade facilmente i Nervi.





39



Così, inviano subito emissari ai Ceutroni, ai Grudi, ai Levaci, ai Pleumoxi, ai Geidumni,
tutti popoli sottoposti alla loro autorità, raccolgono quante più truppe possono e piombano
all'improvviso sul campo di Cicerone, che ancora non sapeva della morte di Titurio. Anche
Cicerone si trova di fronte, com'era inevitabile, all'identica situazione: alcuni
legionari, addentratisi nei boschi in cerca di legname per le fortificazioni, vengono colti
alla sprovvista dall'arrivo repentino della cavalleria nemica. Dopo averli circondati con
ingenti forze, gli Eburoni, i Nervi e gli Atuatuci, con tutti i loro alleati e clienti,
stringono d'assedio la legione. I nostri si precipitano alle armi e salgono sul vallo. Per
quel giorno riescono a resistere, ma a stento, perché i nemici riponevano ogni speranza
nella rapidità dell'attacco ed erano convinti che, ottenuta quella vittoria, sarebbero
sempre usciti vincitori.





40



Senza indugio Cicerone invia una lettera a Cesare, promettendo grandi ricompense a chi
fosse riuscito a recapitarla. Le vie, però, erano tutte sorvegliate e i messi vennero
intercettati. Di notte, con il legname procurato per le fortificazioni, i Romani
costruiscono, con incredibile rapidità, almeno centoventi torri e terminano le strutture
difensive non ancora approntate. L'indomani i nemici, raccolte truppe ben più numerose,
riprendono l'assedio e riempiono la fossa. I nostri resistono nello stesso modo del giorno
prima. L'identica situazione si ripete nei giorni successivi. Di notte i lavori non vengono
sospesi, neppure per un istante; non è concesso riposo né ai malati, né ai feriti. Tutto il
necessario per l'assedio del giorno seguente lo si prepara di notte; sono approntati molti
pali induriti al fuoco e giavellotti pesanti in gran quantità; le torri vengono munite di
tavolati, dotate di merli e parapetti di graticci. Cicerone stesso, pur essendo di salute
molto cagionevole, neanche di notte si concedeva riposo, tanto che i soldati si accalcarono
intorno a lui e lo costrinsero, a forza di insistere, a prendersi un po' di respiro.





41



Allora i capi e i principi dei Nervi, che avevano possibilità di contatto con Cicerone per
ragioni di amicizia, gli chiedono un colloquio ed egli lo concede. Descrivono la situazione
negli stessi termini in cui Ambiorige l'aveva presentata a Titurio: tutta la Gallia era in
armi; i Germani avevano attraversato il Reno; il campo di Cesare e tutti gli altri erano
sotto assedio. Riferiscono anche la morte di Sabino: la presenza di Ambiorige ne costituiva
la prova. Sarebbe stato un errore aspettare rinforzi da chi disperava della propria
situazione; tuttavia, contro Cicerone e il popolo romano non avevano alcun risentimento,
solo non accettavano più quartieri d'inverno nei loro territori e non intendevano che tale
abitudine si radicasse; concedevano ai Romani la possibilità di lasciare il campo sani e
salvi e di recarsi, senza alcun timore, dovunque volessero. A tali parole Cicerone risponde
semplicemente che non era consuetudine del popolo romano accettare condizioni da un nemico
armato; se avessero acconsentito a deporre le armi, prometteva il suo appoggio per l'invio
di messi a Cesare: sperava, dato il senso di giustizia del comandante, che avrebbero viste
esaudite le loro richieste.





42



Svanita tale speranza, i Nervi cingono il campo romano con un vallo alto dieci piedi e una
fossa larga quindici. Negli anni precedenti, per i frequenti contatti con noi, avevano
appreso tale tecnica e adesso erano istruiti da alcuni prigionieri del nostro esercito; ma,
privi degli attrezzi di ferro adatti, erano costretti a fendere le zolle con le spade e a
trasportare la terra con le mani o i saguli. Ma anche da ciò, comunque, si poté capire
quanto fossero numerosi: in meno di tre ore ultimarono una linea fortificata per un
perimetro di quindici miglia. Nei giorni successivi, sempre sulla base delle istruzioni dei
prigionieri, cominciarono a preparare e costruire torri alte come il vallo, falci e
testuggini.





43



Il settimo giorno d'assedio si levò un vento fortissimo: i nemici iniziarono a scagliare
proiettili roventi d'argilla incandescente e frecce infuocate contro le capanne che,
secondo l'uso gallico, avevano il tetto ricoperto di paglia. I tetti presero subito fuoco
e, per la violenza delle raffiche, le fiamme si diffusero in ogni punto del campo. I
nemici, tra alte grida, come se avessero già la vittoria in pugno, cominciarono a spingere
in avanti le torri e le testuggini, a tentar di salire sul nostro vallo con scale. I
nostri, nonostante il calore sprigionato ovunque dalle fiamme e il nugolo di dardi che
pioveva su di loro e sebbene si rendessero conto che tutti i bagagli e ogni loro bene era
perduto, diedero una tal prova di valore e presenza di spirito, che nessuno si mosse e
abbandonò il vallo in fuga, anzi, non girarono neanche le teste: tutti si batterono con
estrema tenacia e straordinario coraggio. Per i nostri fu il giorno più duro in assoluto,
ma col risultato che, proprio in esso, i nemici subirono il maggior numero di perdite, tra
morti e feriti, perché si erano ammassati proprio ai piedi del vallo e gli ultimi
impedivano ai primi la ritirata. Le fiamme erano un po' calate e, in una zona, una torre
nemica era stata spinta contro il vallo; i centurioni della terza coorte ripiegarono dal
settore in cui si trovavano e ordinarono a tutti i loro di retrocedere, poi con cenni e
grida cominciarono a chiamare il nemico, sfidandolo a entrare: nessuno osò farsi avanti.
Allora i nostri, da ogni parte, scagliarono pietre e i Galli vennero dispersi; la torre fu
incendiata.





44



In quella legione militavano due centurioni di grande valore, T. Pullone e L. Voreno, che
stavano raggiungendo i gradi più alti. I due erano in costante antagonismo su chi doveva
esser anteposto all'altro e ogni anno gareggiavano per la promozione, con rivalità
accanita. Mentre si combatteva aspramente nei pressi delle nostre difese, Pullone disse:
"Esiti, Voreno? Che grado ti aspetti a ricompensa del tuo valore? Ecco il giorno che
deciderà le nostre controversie!" Ciò detto, scavalca le difese e si getta contro lo
schieramento nemico dove sembrava più fitto. Neppure Voreno, allora, resta entro il vallo,
ma, temendo il giudizio di tutti, segue Pullone. A poca distanza dai nemici, questi scaglia
il giavellotto contro di loro e ne colpisce uno, che correva in testa a tutti; i compagni
lo soccorrono, caduto e morente, proteggendolo con gli scudi, mentre tutti insieme lanciano
dardi contro Pullone, impedendogli di avanzare. Anzi, il suo scudo viene passato da parte a
parte e un veruto gli si pianta nel balteo, spostandogli il fodero della spada: così,
mentre cerca di sguainarla con la destra, perde tempo e, nell'intralcio in cui si trova,
viene circondato. Subito il suo rivale Voreno si precipita e lo soccorre in quel difficile
frangente. Su di lui convergono subito tutti i nemici, trascurando Pullone: lo credono
trafitto dal veruto. Voreno combatte con la spada, corpo a corpo, uccide un avversario e
costringe gli altri a retrocedere leggermente, ma, trasportato dalla foga, cade a capofitto
in un fosso. Viene circondato a sua volta e trova sostegno in Pullone: tutti e due,
incolumi, si riparano entro le nostre difese, dopo aver ucciso molti nemici ed essersi
procurati grande onore. Così la Fortuna, in questa loro sfida e contesa, dispose di essi in
modo che ognuno recasse all'antagonista aiuto e salvezza e che non fosse possibile
giudicare a quale dei due, per valore, toccasse il premio per il valore.





45



Quanto più l'assedio diventava, di giorno in giorno, duro e insostenibile (soprattutto
perché la maggior parte dei soldati era ferita e il numero dei difensori si era ridotto a
ben poca cosa), tanto più di frequente venivano inviate lettere e messi a Cesare: alcuni di
loro, catturati, vennero uccisi tra i supplizi al cospetto dei nostri soldati.
Nell'accampamento c'era un Nervio, di nome Verticone, persona di nobili natali: fin
dall'inizio dell'assedio era passato dalla parte di Cicerone e gli aveva giurato fedeltà
assoluta. Verticone persuade un suo servo a portare una lettera a Cesare e gli promette la
libertà e grosse ricompense. Costui porta fuori dal campo la lettera legata al suo
giavellotto: Gallo, tra Galli, si muove senza destare alcun sospetto e raggiunge Cesare,
informandolo dei pericoli che incombono su Cicerone e la sua legione.





46



Cesare, ricevuta la lettera verso le cinque di pomeriggio, invia immediatamente nelle terre
dei Bellovaci un messaggero al questore M. Crasso, il cui campo invernale distava circa
venticinque miglia; gli ordina di mettersi in marcia con la legione a mezzanotte e di
raggiungerlo in fretta. Crasso lascia il campo con l'emissario. Cesare ne invia un altro al
legato C. Fabio e gli comunica di guidare la legione nei territori degli Atrebati, da dove
sapeva di dover transitare. Scrive a Labieno di venire con la legione nelle terre dei
Nervi, se la sua partenza non era di danno per gli interessi di Roma. Ritiene di non dover
aspettare il resto dell'esercito, stanziato un po' troppo lontano; dai campi invernali più
vicini raccoglie circa quattrocento cavalieri.





47



Le staffette, verso le nove di mattina, lo informano dell'arrivo di Crasso ed egli, per
quel giorno, avanza di circa venti miglia. Destina Crasso a Samarobriva e gli attribuisce
il comando della legione perché lasciava lì le salmerie dell'esercito, gli ostaggi delle
varie popolazioni, i documenti ufficiali e tutto il grano trasportato per affrontare
l'inverno. Fabio con la sua legione, secondo gli ordini, senza perdere troppo tempo, si
ricongiunge con lui mentre era in marcia. Quando Labieno era ormai al corrente della morte
di Sabino e della strage delle coorti, i Treveri giungono con tutto l'esercito: egli ebbe
paura, se lasciava il campo con una partenza simile a una fuga, di non riuscire a tener
testa all'assalto dei nemici, tanto più che li sapeva imbaldanziti per la recente vittoria.
Perciò, scrive a Cesare il pericolo a cui si troverebbe esposta la legione guidata fuori
dall'accampamento, gli illustra le vicende accadute tra gli Eburoni e lo informa che la
fanteria e la cavalleria dei Treveri, al gran completo, si erano insediate a tre miglia di
distanza dal suo campo.





48



Cesare approvò la decisione di Labieno e, benché, così, caduta la speranza di contare su
tre legioni, dovesse accontentarsi di due, continuava a pensare che l'unica via di salvezza
comune consistesse nella rapidità di azione. A marce forzate raggiunge la regione dei
Nervi. Qui, dai prigionieri apprende che cosa succede nel campo di Cicerone e come la
situazione sia critica. Allora, offrendogli un forte compenso, persuade uno dei cavalieri
galli a portare a Cicerone una lettera. La scrive in greco, per evitare che i nemici, in
caso di intercettazione, scoprissero i nostri piani. Dà ordine al Gallo, se non fosse
riuscito a penetrare nel campo romano, di scagliare all'interno delle fortificazioni una
tragula, con la lettera legata alla correggia. Nella missiva scrive che era già in marcia
con le legioni e che presto sarebbe giunto; esorta Cicerone a mostrarsi all'altezza
dell'antico valore. Il Gallo, temendo il pericolo, scaglia la tragula secondo gli ordini
ricevuti. Il caso volle che si conficcasse in una torre e che per due giorni i nostri non
se ne accorgessero. Il terzo giorno viene notata da un soldato, divelta e consegnata a
Cicerone. Egli legge attentamente la missiva e poi ne comunica il contenuto pubblicamente,
con grande gioia di tutti. Al tempo stesso si scorgevano, in lontananza, fumi di fuochi:
ogni dubbio sull'arrivo delle legioni venne fugato.





49



I Galli, informati del fatto dagli esploratori, tolgono l'assedio e con tutte le truppe,
circa sessantamila armati, si dirigono contro Cesare. Cicerone, grazie all'intervento del
solito Verticone - se n'è già parlato - trova un Gallo che recapiti una lettera a Cesare,
visto che era possibile, e lo avverte di muoversi con cautela e attenzione; nella missiva
spiega a Cesare che il nemico si era allontanato e che, in forze, stava dirigendosi contro
di lui. La lettera, verso mezzanotte, perviene a Cesare, che informa i suoi e li incoraggia
in vista della battaglia. L'indomani, all'alba, sposta l'accampamento e, percorse circa
quattro miglia, avvista la massa dei nemici tra una valle e un corso d'acqua. Era molto
rischioso combattere su un terreno sfavorevole e avendo truppe così esigue; allora, sapendo
che Cicerone era stato liberato dall'assedio, in tutta serenità non riteneva necessario
stringere i tempi. Si ferma dunque e fortifica il campo nel posto che offriva più vantaggi;
sebbene l'accampamento fosse già, per sé, di modeste proporzioni (era per appena settemila
uomini e, per di più, privi di bagagli), lo rende ancor più piccolo stringendo al massimo i
passaggi, per indurre il nemico al più profondo disprezzo. Nel frattempo, mediante
esploratori inviati in tutte le direzioni, esamina quale sia il percorso più agevole per
attraversare la valle.





50



Quel giorno si verificarono solo scaramucce di cavalleria nei pressi del corso d'acqua,
mentre entrambi gli eserciti tenevano le proprie posizioni: i Galli in quanto aspettavano
l'arrivo di truppe ancor più numerose, non ancora giunte; Cesare nella speranza di
riuscire, simulando timore, ad attirare sul suo terreno i nemici per combattere al di qua
della valle, dinnanzi al campo, o, in caso contrario, per riuscire, una volta esplorate le
strade, ad attraversare la valle e il corso d'acqua con minore pericolo. All'alba la
cavalleria avversaria si avvicina al campo e attacca battaglia con i nostri cavalieri.
Cesare, di proposito, ordina ai suoi di ritirarsi e di rientrare all'accampamento. Al tempo
stesso, comanda di rinforzare con un vallo più alto tutti i lati del campo e di ostruire le
porte; dà ordine ai soldati di eseguire le operazioni con estrema precipitazione e di
simulare paura.





51



I nemici, attirati da tutto ciò, varcano il fiume con le loro truppe e le schierano in un
luogo sfavorevole. Mentre i nostri abbandonano il vallo, gli avversari si avvicinano ancor
più e da tutti i lati scagliano dardi all'interno delle fortificazioni. Poi, mandano araldi
tutt'intorno al campo e annunziano quanto segue: era consentito a chiunque lo volesse,
Gallo o Romano, di passare dalla loro parte, senza alcun pericolo, entro le nove di
mattina; scaduto il termine, nessuno ne avrebbe più avuto la facoltà. Disprezzarono i
nostri a tal punto, che alcuni dei loro cominciarono a smantellare il vallo con le mani,
altri a riempire i fossati, perché non ritenevano possibile un'irruzione dalle porte,
ostruite per finta da una sola fila di zolle. Allora Cesare, con una sortita da tutte le
porte, lancia la cavalleria alla carica e mette in fuga gli avversari, senza che neppure
uno riuscisse a combattere e resistere: ne uccide molti, li costringe tutti a gettare le
armi.





52



Cesare ritenne rischioso spingersi troppo in là, perché si frapponevano selve e paludi, e
si rendeva conto che non c'era modo di infliggere agli avversari il benché minimo danno.
Così, quel giorno stesso, senza nessuna perdita, raggiunge Cicerone. Qui, con stupore, vede
le torri costruite, le testuggini e le fortificazioni dei nemici; quando la legione viene
schierata, si rende conto che neanche un soldato su dieci è illeso; da tutti questi
elementi giudica con quanto pericolo e con quale valore sia stata affrontata la situazione:
loda pubblicamente per i suoi meriti Cicerone e i soldati, chiama individualmente i
centurioni e i tribuni militari che - lo sapeva per testimonianza di Cicerone - si erano
distinti per singolare valore. Dai prigionieri apprende altri particolari sulla fine di
Sabino e Cotta. Il giorno seguente riunisce le truppe, descrive l'accaduto, ma rincuora e
rassicura i soldati; spiega che il rovescio, subito per colpa e imprudenza di un legato,
doveva essere sopportato con animo tanto più sereno, in quanto, per beneficio degli dèi
immortali e per il loro valore, il disastro era stato vendicato; la gioia dei nemici era
stata breve, quindi il loro dolore non doveva durare troppo a lungo.





53



Nello stesso tempo, i Remi recano a Labieno la notizia della vittoria di Cesare, con
incredibile rapidità. Infatti, sebbene il campo di Cicerone, dove Cesare era giunto dopo le
tre di pomeriggio, distasse circa sessanta miglia dall'accampamento di Labieno, qui, prima
di mezzanotte, si levò clamore alle porte: erano le grida dei Remi in segno di vittoria e
di congratulazione. Il fatto viene riferito anche ai Treveri; Induziomaro, che aveva già
fissato per l'indomani l'assedio al campo di Labieno, di notte fugge e riconduce tutte le
sue truppe nella regione dei Treveri. Cesare ordina a Fabio di rientrare con la sua legione
all'accampamento invernale; dal canto suo, fissa tre quartieri d'inverno, separati,
tutt'intorno a Samarobriva e decide, date le numerose sollevazioni verificatesi in Gallia,
di rimanere personalmente con l'esercito per tutto l'inverno. Infatti, una volta diffusasi
la notizia della sconfitta e della morte di Sabino, quasi tutti i popoli della Gallia si
consultavano sulla guerra, inviavano messi in tutte le direzioni, s'informavano sulle
decisioni degli altri e da dove sarebbe partita l'insurrezione, tenevano concili notturni
in zone deserte. Per tutto l'inverno, non ci fu per Cesare un momento tranquillo: riceveva
di continuo notizie sui progetti e la ribellione dei Galli. Tra l'altro, L. Roscio,
preposto alla tredicesima legione, lo informò che ingenti truppe galliche delle popolazioni
chiamate aremoriche, si erano radunate con l'intenzione di assediarlo ed erano a non più di
otto miglia dal suo campo, ma, alla notizia della vittoria di Cesare, si erano allontanate
con una rapidità tale, che la loro partenza era sembrata piuttosto una fuga.





54



Cesare, allora, convocò i principi di ciascun popolo, e ora col timore precisando di essere
al corrente di quanto accadeva, ora con la persuasione, indusse la maggior parte delle
genti galliche al rispetto degli impegni assunti. Tuttavia i Senoni, tra i più forti e
autorevoli in Gallia, a seguito di decisione pubblica, tentarono di eliminare Cavarino, che
Cesare aveva designato loro sovrano (e già erano stati re suo fratello Moritasgo, all'epoca
dell'arrivo di Cesare in Gallia, e i suoi avi). Cavarino ne presagì le intenzioni e fuggì;
i suoi avversari gli diedero la caccia sino al confine e lo bandirono dal trono e dal
paese. In seguito, inviarono a Cesare un'ambasceria per discolparsi: egli comandò che tutti
i senatori si presentassero da lui, ma il suo ordine venne disatteso. A quegli uomini
barbari bastò che ci fossero dei fautori della guerra: in tutti si verificò un tale
mutamento di propositi, che quasi nessun popolo rimase al di sopra dei nostri sospetti, se
si eccettuano gli Edui e i Remi, che Cesare tenne sempre in particolare onore - i primi per
l'antica e costante lealtà nei confronti del popolo romano, i secondi per i recenti servizi
durante la guerra in Gallia. Ma non so se la cosa sia poi tanto strana, tenendo soprattutto
presente che, tra le molte altre cause, popoli considerati superiori a tutti, per valore
militare, adesso erano profondamente afflitti per aver perso prestigio al punto da dover
sottostare al dominio di Roma.





55



I Treveri e Induziomaro, però, per tutto l'inverno non smisero un attimo di inviare
ambascerie oltre il Reno e di sobillare le altre genti, di promettere denaro e di sostenere
che, distrutto ormai il grosso del nostro esercito, ne restava solo una minima parte. Ma
non gli riuscì di persuadere nessun popolo dei Germani a varcare il Reno; affermavano di
averne fatta già due volte esperienza, con la guerra di Ariovisto e il passaggio dei
Tenteri: non avrebbero tentato ulteriormente la sorte. Caduta tale speranza, Induziomaro
cominciò lo stesso a radunare truppe e a esercitarle, a fornirsi di cavalli dalle genti
vicine e ad attirare a sé, con grandi remunerazioni, gli esuli e le persone condannate di
tutta la Gallia. In tal modo si era già procurato in Gallia tanta autorità, che da ogni
regione accorrevano ambascerie e gli chiedevano i suoi favori e la sua amicizia, per
l'interesse pubblico e privato.





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Induziomaro, quando si rese conto della spontaneità di tali ambascerie e che, da un lato, i
Senoni e i Carnuti erano spinti dalla consapevolezza della propria colpa, dall'altro i
Nervi e gli Atuatuci preparavano guerra ai Romani, e, inoltre, che non gli sarebbero
mancate bande di volontari, se si fosse mosso dai suoi territori, convoca un'assemblea
armata. È il modo con cui di solito i Galli iniziano una guerra: per una legge comune,
tutti i giovani sono costretti a venirvi in armi; chi giunge ultimo, al cospetto di tutti
viene sottoposto a torture d'ogni sorta e ucciso. In tale assemblea Induziomaro dichiara
Cingetorige, capo della fazione avversa e suo genero - abbiamo già ricordato che si era
messo sotto la protezione di Cesare e gli era rimasto fedele - nemico pubblico e ne
confisca le sostanze. Dopo tali risoluzioni, nel concilio Induziomaro annuncia solennemente
di aver accolto le sollecitazioni dei Senoni, dei Carnuti e di molte altre genti della
Gallia; intende attraversare i territori dei Remi e devastarne i campi, ma, prima, vuole
porre l'assedio al campo di Labieno. Impartisce gli ordini da eseguire.





57



Labieno, al riparo in un accampamento ben munito per conformazione naturale e numero di
soldati, non nutriva timori per sé o per la legione. Tuttavia, meditava di non lasciarsi
sfuggire nessuna occasione per una bella impresa. Così, non appena informato da Cingetorige
e dai suoi parenti del discorso di Induziomaro al concilio, Labieno invia messi alle genti
limitrofe e fa venire a sé da ogni parte cavalieri: fissa la data in cui avrebbero dovuto
presentarsi. Frattanto, quasi ogni giorno Induziomaro, con la cavalleria al completo,
incrociava nei pressi dell'accampamento, vuoi per prender visione di com'era disposto il
campo, vuoi per intavolare discorsi o suscitar timori; i suoi cavalieri, generalmente,
scagliavano frecce all'interno del vallo. Labieno teneva i suoi entro le fortificazioni e
cercava, con ogni mezzo, di dar l'impressione di aver paura.





58



Mentre Induziomaro, di giorno in giorno, si avvicinava al campo con maggior sicurezza,
Labieno una notte fece entrare i cavalieri richiesti a tutte le genti limitrofe; grazie
alle sentinelle, riuscì a trattenere tutti i suoi all'interno del campo così bene, che in
nessun modo la notizia poté trapelare o giungere ai Treveri. Nel frattempo Induziomaro,
come ogni giorno, si avvicina all'accampamento e qui trascorre la maggior parte del giorno:
i suoi cavalieri scagliano frecce e provocano i nostri a battaglia con ingiurie d'ogni
sorta. I nostri non rispondono e gli avversari, quando lo ritengono opportuno, al calar
della sera, si allontanano a piccoli gruppi, disunendosi. All'improvviso Labieno, da due
porte, lancia alla carica tutta la cavalleria: dà ordine e disposizione che, dopo aver
spaventato e messo in fuga i nemici (prevedeva che sarebbe successo, come in effetti
capitò), tutti puntino solo su Induziomaro e non colpiscano nessun altro prima di averlo
visto morto: non voleva che, mentre si attardavano a inseguire gli altri, il Gallo trovasse
una via di scampo. Promette grandi ricompense a chi l'avesse ucciso; invia le coorti in
appoggio ai cavalieri. La Fortuna asseconda il piano dell'uomo: tutti si lanciano su
Induziomaro, lo catturano proprio sul guado del fiume e lo uccidono; la sua testa viene
portata all'accampamento; i cavalieri, nel rientrare, inseguono e massacrano quanti più
nemici possono. Avute queste notizie, tutte le truppe degli Eburoni e dei Nervi, che si
erano lì concentrate, si disperdono: dopo questa battaglia Cesare riuscì a tenere un po'
più tranquilla la Gallia.
 

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Ultimo aggiornamento: 21-03-05.