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De Bello Gallico
Il De bello Gallico narra le campagne condotte da Cesare in Gallia tra gli anni
58 e 52: sette libri per sette anni di guerra. La prima campagna ebbe lo scopo
di arginare i movimenti migratori verso sud, prima degli Elvezi, poi dei Germani
di Ariovisto (l. I).
Sconfitti Elvezi e Germani, la guerra diventa ben presto offensiva: dapprima
contro i Belgi e i Nervi, popolazione della Gallia belgica (l. II), poi contro i
Veneti e gli Aquitani, con la conquista di tutti i territori che dal nord
scendono lungo la costa atlantica fino ai Pirenei (l. III).
Respinti i Téncteri e gli Usìpeti Cesare, giudicando completa la pacificazione
della Gallia, compie una rapida puntata oltre il Reno e insegue le popolazioni
germaniche che si rifugiano nelle foreste dell'interno; successivamente tenta
anche uno sbarco in Britannia, con scarsi risultati (l. IV).
Migliori successi Cesare in Britannia li ottiene l'anno dopo; ma intanto ha
inizio l'insurrezione gallica (l. V). La rivolta è favorita dai Tréviri,
popolazione germanica stanziata tra il Reno e la Mosa; Cesare compie un'altra
spedizione oltre il Reno, poi, tornato in Gallia, pone termine alla sollevazione
degli Eburoni (l. VI). Mentre Cesare è in Italia per seguire più da vicino le
pericolose vicende politiche che stanno svolgendosi a Roma, si svolge in Gallia
la più rivolta antiromana, campeggiata da Vercingetoríge, re degli Arveni. Dopo
duri scontri e alterne vicende, Cesare assedia infine l'avversario ad Alesia, lo
sconfigge e lo fa prigioniero (l. VII). La conquista della Gallia transalpina è
compiuta.
Gli avvenimenti degli ultimi due anni della guerra gallica (51 - 50) sono
narrati nell'VIII libro, composto da Aulo Irzio, generale dell'esercito di
Cesare: un'opera che collega gli avvenimenti della guerra gallica all'inizio
della guerra civile.
(Testo/Traduzione)
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Libro I
Libro II
Libro III
Libro IV
Libro V
Libro VI
Libro VII
Libro VIII
Libro III Traduzione
1
Cesare, partendo per l'Italia, mandò Servio Galba con la dodicesima legione e
parte della
cavalleria nei territori dei Nantuati, dei Veragri e dei Seduni, che dalla
regione degli
Allobrogi, dal lago Lemano e dal Rodano raggiungono la cima delle Alpi. Lo scopo
era di
aprire la via attraverso le Alpi, che i mercanti di solito percorrevano
sottoposti a gravi
rischi e pesanti dazi. Cesare diede a Galba il permesso di svernare con la
legione in quei
luoghi, se lo avesse ritenuto opportuno. Galba riportò alcuni successi in
battaglia ed
espugnò parecchie fortezze nemiche: tutti i popoli della zona gli mandarono
ambascerie.
Ricevuti gli ostaggi e conclusa la pace, decise di stanziare nelle terre dei
Nantuati due
coorti, mentre con le rimanenti pose i quartieri d'inverno in un villaggio dei
Veragri,
Octoduro, situato in una valle a cui si aggiunge una modesta pianura, chiuso
tutt'intorno
da monti altissimi. Dato che un fiume divideva il villaggio in due parti, una
Galba la
concesse ai Galli, perché vi svernassero, ma l'altra ordinò di evacuarla e la
riservò alle
sue coorti. Fortificò il sito con un vallo e un fossato.
2
Galba, trascorsi già parecchi giorni nell'accampamento invernale, aveva dato
ordine di
consegnare le scorte di grano, quando improvvisamente seppe dagli esploratori
che, di
notte, tutta la popolazione aveva abbandonato la parte di villaggio concessa ai
Galli e che
i monti sovrastanti erano nelle mani di una massa enorme di Seduni e Veragri. Le
cause che
avevano spinto i Galli a prendere repentinamente la decisione di riaprire le
ostilità e di
cogliere di sorpresa la nostra legione erano molteplici: primo, disprezzavano lo
scarso
numero dei nostri - la legione, in effetti, non era al completo, perché le
mancavano due
coorti e molti soldati che, a piccoli gruppi, erano stati mandati in cerca di
viveri;
secondo, ritenevano che i nostri, in posizione svantaggiosa com'erano, non
avrebbero potuto
reggere neppure al primo assalto, quando essi, scagliando dardi, si fossero
lanciati
all'attacco dai monti verso valle. A ciò si aggiungeva il risentimento per i
loro figli
sottratti come ostaggi e la convinzione che i Romani cercassero di occupare le
cime delle
Alpi non tanto per aprire una via, quanto per prendere definitivamente possesso
delle loro
regioni, annettendole alla nostra provincia, che con esse confinava.
3
I lavori e l'opera di fortificazione del campo non erano stati ultimati, né si
era
provveduto a sufficienti scorte di grano o di viveri, dato che non si vedeva
motivo, dopo
la resa e la consegna degli ostaggi, di temere una guerra. Galba, messo al
corrente della
situazione, convocò d'urgenza i membri del consiglio di guerra e chiese il loro
parere. Il
pericolo, grave e repentino, era giunto contro ogni aspettativa: quasi tutti i
monti
circostanti, ormai, brulicavano di nemici in armi, lo si vedeva; non potevano
pervenire,
con le vie di comunicazione tagliate, né rinforzi, né viveri. Perduta, ormai,
ogni speranza
di salvezza, durante il consiglio alcuni espressero la proposta di lasciare i
bagagli e di
tentare, con una sortita, di porsi in salvo per la via da cui erano giunti. La
maggioranza,
però, decise di riservare tale piano in caso di necessità estrema, limitandosi
per il
momento a valutare come si metteva la faccenda e a difendere campo.
4
Poco dopo - si ebbe appena il tempo di approntare le cose e di eseguire gli
ordini
impartiti - i nemici, al segnale di attacco, si slanciarono in avanti da tutte
le
direzioni, scagliando pietre e gese contro il vallo. In un primo tempo i nostri,
quando
ancora erano nel pieno delle forze, li contrastarono con vigore: dall'alto
nessuna freccia
falliva il bersaglio ed essi accorrevano e portavano aiuto dove l'accampamento,
sguarnito
di difensori, appariva in pericolo. Ma, prolungandosi la battaglia, apparve
chiaro in che
cosa eravamo inferiori: i nemici stanchi uscivano dalla mischia, lasciando il
posto a forze
fresche; i nostri, pochi com'erano, non avevano modo di darsi il cambio, anzi,
non solo non
veniva concesso di allontanarsi dalla battaglia a chi era stanco, ma neppure i
feriti
avevano la possibilità di abbandonare il proprio posto e di ritirarsi.
5
Si combatteva, ininterrottamente, ormai da più di sei ore e ai nostri venivano a
mancare,
oltre alle forze, anche le frecce. I nemici, premendo con impeto ancora maggiore
sui
legionari, sempre più spossati, avevano iniziato ad abbattere il vallo e a
riempire il
fossato. La situazione era ormai agli estremi. P. Sestio Baculo, centurione
primipilo -
abbiamo prima ricordato che, durante la guerra con i Nervi, aveva riportato
numerose ferite
- e anche C. Voluseno, tribuno militare, uomo di grande saggezza e valore, si
precipitano
da Galba per dirgli che restava un'unica speranza: tentare una sortita come
ultimo rimedio.
Così, convocati i centurioni, Galba dà rapidamente ordine ai legionari di
sospendere per il
momento lo scontro e di limitarsi a evitare i dardi nemici e a riprendere fiato:
poi, al
segnale, dovevano erompere dall'accampamento e porre ogni speranza di salvezza
nel proprio
valore.
6
I legionari eseguono gli ordini e si lanciano immediatamente all'attacco da
tutte le porte,
senza lasciare al nemico la possibilità di capire che cosa stesse accadendo o di
riorganizzarsi. Così, capovolte le sorti, accade che i nemici, già sicuri di
aver in pugno
l'accampamento romano, vengono invece circondati da ogni parte e uccisi. Degli
oltre
trentamila uomini (tanti risultavano i barbari che avevano partecipato
all'assedio
dell'accampamento romano), i nostri ne uccidono più di un terzo, costringendo
alla fuga gli
altri, in preda al panico, senza permettere loro neppure di attestarsi sulle
alture. Così,
messe in rotta e private delle armi le forze nemiche, i legionari si ritirano
nell'accampamento e nelle fortificazioni. Dopo la battaglia, Galba non voleva
mettere
ulteriormente alla prova la fortuna, si ricordava di aver posto i quartieri
d'inverno con
ben altre intenzioni e vedeva di essere incorso in circostanze ben diverse.
Perciò, spinto
soprattutto dalla mancanza di grano e di viveri, il giorno successivo diede
fuoco a tutti
gli edifici del villaggio e si incamminò sulla via del ritorno, verso la
provincia; senza
che il nemico gli sbarrasse la strada o ne rallentasse la marcia, guidò la
legione nei
territori dei Nantuati e, quindi, degli Allobrogi dove passò l'inverno.
7
Dopo tali eventi, Cesare aveva tutti i motivi di ritenere la Gallia sottomessa:
erano stati
battuti i Belgi, scacciati i Germani, vinti i Seduni sulle Alpi. Così,
all'inizio
dell'inverno, partì per l'Illirico, perché voleva conoscerne i popoli e
visitarne le
regioni, ma improvvisamente in Gallia scoppiò la guerra. Eccone il motivo: il
giovane P.
Crasso stava svernando con la settima legione nei pressi dell'Oceano, nella
regione degli
Andi. Visto che nella zona il frumento scarseggiava, Crasso mandò molti prefetti
e tribuni
militari presso i popoli limitrofi per procurarsi grano e viveri. Tra di essi T.
Terrasidio
fu inviato presso gli Esuvi, M. Trebio Gallo presso i Coriosoliti, Q. Velanio
con T. Sillio
presso i Veneti.
8
I Veneti sono il popolo che, lungo tutta la costa marittima, gode di maggior
prestigio in
assoluto, sia perché possiedono molte navi, con le quali, di solito, fanno rotta
verso la
Britannia, sia in quanto nella scienza e pratica della navigazione superano
tutti gli
altri, sia ancora perché, in quel mare molto tempestoso e aperto, pochi sono i
porti della
costa e tutti sottoposti al loro controllo, per cui quasi tutti i naviganti
abituali di
quelle acque versano loro tributi. I Veneti, per primi, trattengono Sillio e
Velanio,
convinti di ottenere, mediante uno scambio, la restituzione degli ostaggi
consegnati a
Crasso. Influenzati dall'autorità dei Veneti, dato che le decisioni dei Galli
sono
improvvise e repentine, anche i popoli limitrofi trattengono Trebio e Terrasidio
con le
stesse intenzioni. Vengono stabiliti, rapidamente, dei contatti: i principi
stringono patti
per non prendere, se non di comune accordo, nessuna iniziativa e per affrontare
insieme
l'esito della sorte, qualunque fosse. Sollecitano gli altri popoli a difendere
la libertà
ereditata dai loro padri piuttosto che sopportare la schiavitù dei Romani. Ben
presto tutti
i popoli della costa ne sposano la causa e mandano un'ambasceria unitaria a P.
Crasso:
restituisse i loro ostaggi, se voleva riavere i suoi.
9
Informato della situazione da Crasso, Cesare, trovandosi troppo lontano, si
limita a dar
ordine, per il momento, di costruire navi da guerra lungo la Loira, un fiume che
sfocia
nell'Oceano, di arruolare rematori dalla provincia e di procurare marinai e
timonieri. Dopo
aver rapidamente provveduto a tutto ciò, non appena la stagione lo consentì,
raggiunse
l'esercito. I Veneti e gli altri popoli, saputo del suo arrivo e rendendosi
conto della
gravità del proprio operato - avevano trattenuto e gettato in catene degli
ambasciatori, il
cui nome è da sempre sacro e inviolabile presso tutte le genti - intraprendono
preparativi
di guerra commisurati a un pericolo così grande, provvedendo in particolare a
tutto ciò che
serve alla navigazione, con tanta maggior speranza di successo, in quanto
confidavano molto
sulla conformazione naturale del loro paese. Sapevano, infatti, che le vie di
terra erano
tagliate dalle maree e che i Romani avevano difficoltà di navigazione, per
l'ignoranza dei
luoghi e la scarsità degli approdi; inoltre, confidavano che le nostre truppe,
per la
mancanza di grano, non potessero trattenersi a lungo. E anche ammesso che
nessuna delle
loro aspettative si fosse realizzata, disponevano di una marina potente, mentre
i Romani
mancavano di una flotta, non conoscevano neppure i passaggi, gli approdi, le
isole delle
zone in cui si sarebbe combattuto; infine - lo capivano perfettamente - era ben
diverso
navigare nell'Oceano, così vasto e aperto, e in un mare chiuso. Prese tali
decisioni,
fortificano le città, vi ammassano scorte di grano provenienti dalle campagne e
concentrano
il maggior numero possibile di navi lungo le coste dei Veneti, dove si pensava
che Cesare
avrebbe iniziato le operazioni di guerra. Si aggregano come alleati gli Osismi,
i Lexovii,
i Namneti, gli Ambiliati, i Morini, i Diablinti e i Menapi; chiedono aiuti alla
Britannia,
situata di fronte alle loro regioni.
10
Abbiamo esposto le difficoltà che la guerra presentava, ma molte erano le
ragioni che
spingevano Cesare allo scontro: i cavalieri romani trattenuti contro ogni
diritto, la
rivolta dopo la resa, la defezione a ostaggi consegnati, la coalizione di tante
nazioni e,
soprattutto, il timore che gli altri popoli ritenessero lecito agire come i
Veneti, se egli
non fosse intervenuto. A Cesare era ben noto che, per lo più, i Galli amano i
rivolgimenti
e facilmente e prontamente sono disposti a far guerra (del resto, la natura
spinge tutti
gli uomini ad amare la libertà e a odiare la condizione di asservimento).
Perciò, prima che
la cospirazione si estendesse ad altri popoli, ritenne opportuno dividere
l'esercito per
coprire una zona di territorio più ampia.
11
Così, manda il legato T. Labieno con la cavalleria nella regione dei Treveri,
che abitano
lungo il Reno. Gli dà disposizione sia di prendere contatto con i Remi e gli
altri Belgi e
di tenerli a dovere, sia di ostacolare i Germani (si diceva che i Belgi avessero
chiesto il
loro aiuto), se, a forza, avessero tentato di attraversare il fiume su navi.
Ordina a P.
Crasso di partire per l'Aquitania alla testa di dodici coorti della legione e di
un buon
numero di cavalieri, per evitare che i popoli aquitani inviassero aiuti ai Galli
e che
nazioni così potenti si unissero. Manda il legato Q. Titurio Sabino, alla testa
di tre
legioni, nelle terre degli Unelli, dei Coriosoliti e dei Lexovi con l'ordine di
tenerne
impegnate le forze. Al giovane D. Bruto affida il comando della flotta gallica e
delle navi
che, dietro suo ordine, erano state fornite dai Pictoni, dai Santoni e dalle
altre regioni
pacificate. Gli ingiunge di partire alla volta dei Veneti non appena possibile.
Cesare vi
si dirige con la fanteria.
12
La posizione delle città dei Veneti era in genere la seguente: situate
all'estremità di
lingue di terra e di promontori, erano inaccessibili via terra quando si alzava
la marea -
un fenomeno che si verifica regolarmente nell'arco di dodici ore - ma anche le
navi non
potevano accostarsi, perché rimanevano incagliate nei bassifondi quando l'acqua
si
ritirava: entrambi i fattori erano di ostacolo per un assedio. E se mai, grazie
a imponenti
lavori, si riusciva ad arginare il mare con un terrapieno e con dighe, fino a
raggiungere,
tramite tali opere, l'altezza delle mura, i nemici, quando incominciavano a
sentirsi
perduti, facevano approdare un gran numero di navi - ne avevano moltissime -
imbarcavano
tutti i loro beni e si rifugiavano nelle città vicine, dove nuovamente potevano
sfruttare
gli stessi vantaggi naturali nella difesa. Per gran parte dell'estate avevano
applicato
anche più agevolmente la loro tattica, in quanto le nostre navi erano state
trattenute da
tempeste e nella navigazione trovavano enormi difficoltà, in un mare vasto e
aperto, privo
di approdi o quasi.
13
Le navi dei Veneti, poi, erano costruite e attrezzate come segue: le carene
erano alquanto
più piatte delle nostre, per poter resistere con maggior facilità alle secche e
alla bassa
marea; le prore erano estremamente alte e così pure le poppe, adatte a
sopportare la
violenza dei flutti e delle tempeste; le navi erano completamente di rovere,
capaci di
resistere a qualsiasi urto e offesa; le travi di sostegno, dello spessore di un
piede,
erano fissate con chiodi di ferro della misura di un pollice; le ancore erano
legate non
con funi, ma con catene di ferro; al posto delle vele usavano pelli e cuoio
sottile e
morbido - forse perché non avevano lino o non lo sapevano adoperare oppure, ed è
più
probabile, perché ritenevano che le vele non potessero agevolmente reggere alle
tempeste
così violente dell'Oceano, al vento tanto impetuoso e al peso dello scafo. La
nostra flotta
negli scontri poteva risultare superiore solo per rapidità e impeto dei
rematori, ma per il
resto le navi nemiche erano ben più adatte alla natura del luogo e alla violenza
delle
tempeste. In effetti, le nostre non potevano danneggiare con i rostri le navi
dei Veneti,
tanto erano robuste, né i dardi andavano facilmente a segno, perché erano troppo
alte; per
l'identica ragione risultava arduo trattenerle con gli arpioni. Inoltre, quando
il vento
cominciava a infuriare e le navi si abbandonavano alle raffiche, le loro
riuscivano con
maggior facilità a sopportare le tempeste e a navigare nelle secche, senza
temere massi o
scogli lasciati scoperti dalla bassa marea, tutti pericoli che le nostre navi
dovevano
paventare.
14
Cesare espugnò parecchie città, ma vedendo che tanta fatica era vana e che non
poteva
impedire ai nemici di fuggire, né danneggiarli, decise di aspettare la flotta.
Non appena
questa giunse e fu avvistata, circa duecentoventi navi nemiche, assai ben
equipaggiate e
perfettamente attrezzate, salparono e affrontarono le nostre; Bruto, che
comandava la
flotta, non sapeva bene che cosa fare o quale tattica adottare, e così pure i
tribuni
militari e i centurioni a capo di ciascuna imbarcazione. Sapevano che il rostro
non
danneggiava le navi nemiche; se anche avessero costruito delle torri, non
avrebbero
comunque raggiunto l'altezza delle poppe delle navi barbare; dal basso era più
difficile
che le frecce andassero a segno, mentre i dardi scagliati dai Galli risultavano
micidiali.
L'unica arma di grande efficacia preparata dai nostri erano falci acutissime,
fissate a
lunghi pali, di forma non dissimile dalle falci murali. Le falci agganciavano le
funi che
assicuravano i pennoni agli alberi delle navi, e le tiravano fino a spezzarle,
quando i
nostri marinai aumentavano la spinta sui remi. Troncate le funi, i pennoni
inevitabilmente
cadevano e così contemporaneamente, dato che tutta la forza delle navi dei Galli
consisteva
nelle vele e nell'attrezzatura, veniva sottratto alla flotta nemica ogni
vantaggio. Il
resto dipendeva dal valore e in ciò i nostri avevano facilmente la meglio, tanto
più che si
combatteva al cospetto di Cesare e di tutto l'esercito, per cui ogni atto di un
certo
coraggio non poteva rimanere nascosto: tutti i colli e le alture circostanti,
infatti, da
cui la vista dominava a strapiombo sul mare, erano occupati dal nostro esercito.
15
Una volta abbattuti, come abbiamo descritto, i pennoni, ciascuna nave nemica
veniva
circondata da due o tre delle nostre e i soldati romani si lanciavano
all'abbordaggio con
grande impeto. Quando i barbari se ne accorsero, già molte delle loro navi erano
state
catturate; non trovando alcun mezzo di difesa contro la tattica romana,
cercavano salvezza
nella fuga. Avevano già orientato le navi nella direzione in cui soffiava il
vento, quando
si verificò un'improvvisa, totale bonaccia, che impedì loro di allontanarsi. La
cosa fu del
tutto favorevole per portare a termine le operazioni: i nostri inseguirono le
navi nemiche
e le catturarono una a una. Ben poche, di quante erano, riuscirono a prender
terra grazie
al sopraggiungere della notte. Si era combattuto dalle dieci circa del mattino
fino al
tramonto.
16
La battaglia segnò la fine della guerra con i Veneti e i popoli di tutta la
costa. Infatti,
tutti i giovani e anche tutti gli anziani più assennati e autorevoli si erano là
radunati e
avevano raccolto in un sol luogo ogni nave disponibile. Perduta la flotta, i
superstiti non
sapevano dove rifugiarsi, né come difendere le loro città. Perciò, si arresero
con tutti i
loro beni a Cesare ed egli decise di agire con più rigore nei loro confronti,
perché i
barbari, per il futuro, imparassero a osservare con maggior scrupolo il diritto
che tutela
gli ambasciatori. Così, ordinò di mettere a morte tutti i senatori e di vendere
come
schiavi gli altri.
17
Mentre accadono tali avvenimenti nella guerra con i Veneti, Q. Titurio Sabino
giunge nel
territorio degli Unelli con le truppe fornitegli da Cesare. Capo degli Unelli
era
Viridovice, che deteneva anche il comando supremo di tutti i popoli in rivolta.
Tra di essi
aveva raccolto un esercito e truppe numerose. In pochi giorni gli Aulerci
Eburovici e i
Lexovi, uccisi i senatori, che non approvavano la guerra, sbarrarono le porte
delle loro
città e si allearono con Viridovice: inoltre, da ogni parte della Gallia era
giunta una
gran quantità di disperati e deliquenti, che avevano lasciato il lavoro dei
campi e le
occupazioni quotidiane attratti dalla speranza di bottino e dal desiderio di
combattere.
Sabino si teneva nell'accampamento, in un luogo ottimo da tutti i punti di
vista, mentre
Viridovice, che si era stanziato lì di fronte, a una distanza di due miglia,
schierava ogni
giorno le sue truppe a battaglia, offrendo ai Romani la possibilità di
combattere. Così,
Sabino non solo si procurava il disprezzo dei nemici, ma non veniva risparmiato
neppure dai
discorsi dei nostri soldati. A tal punto diede l'impressione di aver paura, che
i nemici
osavano addirittura avanzare fino al vallo dell'accampamento. Il motivo del suo
comportamento era il seguente: dinnanzi a tanti nemici, soprattutto in assenza
del
comandante in capo, riteneva che un legato non dovesse accettare lo scontro, se
non su un
terreno favorevole o in circostanze vantaggiose.
18
Sabino, quando l'impressione che avesse timore era ormai radicata, scelse tra le
truppe
ausiliarie un Gallo adatto ed astuto. Con la promessa di grandi ricompense lo
convince a
passare dalla parte del nemico e gli illustra il suo piano. Il Gallo, giunto al
campo
nemico fingendosi un fuggiasco, descrive il timore dei Romani, espone le
difficoltà che i
Veneti procurano a Cesare e rivela che non più tardi della notte seguente Sabino
alla testa
dell'esercito avrebbe lasciato di nascosto l'accampamento e si sarebbe diretto
da Cesare
per portargli aiuto. A queste notizie, tutti gridano che non si deve lasciar
perdere una
simile occasione: bisogna marciare sul campo romano. Molti elementi spingevano i
Galli a
decidere in tal senso: l'esitazione di Sabino nei giorni precedenti, la conferma
del
fuggiasco, le scarse riserve di viveri, cui non avevano provvisto con la dovuta
cura, la
speranza di una vittoria dei Veneti e il fatto che, in genere, gli uomini sono
inclini a
credere vero ciò che desiderano. Spinti da tali sentimenti, non permettono a
Viridovice e
agli altri capi di lasciare l'assemblea prima di ottenere il consenso a prendere
le armi e
ad assalire l'accampamento romano. Accordato il consenso, lieti come se avessero
già la
vittoria in pugno, raccolgono fascine e legname per riempire i fossati del campo
romano e
lì si dirigono.
19
L'accampamento si trovava in cima a un lieve pendio di circa mille passi. I
nemici mossero
all'attacco per non dare ai Romani il tempo di radunarsi e di prendere le armi,
ma così
giunsero senza fiato. Sabino, esortati i suoi, impazienti ormai di combattere,
dà il
segnale e ordina di piombare repentinamente dalle due porte sui nemici
impacciati dal
carico delle fascine. Risultò che, per la posizione a noi vantaggiosa, per
l'inesperienza e
la stanchezza degli avversari, per il valore e l'addestramento dei nostri nelle
battaglie
precedenti, i nemici non ressero neppure al primo assalto e volsero subito le
spalle. I
nostri, ancora freschi, li raggiunsero mentre erano in difficoltà e ne fecero
strage; i
superstiti li inseguirono, i cavalieri e se ne lasciarono sfuggire ben pochi.
Così,
contemporaneamente, Sabino venne informato della battaglia navale e Cesare della
vittoria
del suo legato. Immediatamente, tutti gli altri popoli si sottomisero a Titurio.
Infatti,
lo spirito dei Galli è entusiasta e pronto a dichiarare guerra, ma il loro animo
è fragile
e privo di fermezza nel sopportare le disgrazie.
20
All'incirca nello stesso tempo P. Crasso giunse in Aquitania, regione che, come
si è visto,
deve essere considerata, per estensione e per numero di abitanti, una delle tre
parti della
Gallia. Crasso, conscio di dover affrontare un conflitto nella regione dove,
pochi anni
prima, era stato ucciso il legato L. Valerio Preconino e sconfitto il suo
esercito e da
dove aveva cercato scampo il proconsole L. Manlio, dopo aver perduto le
salmerie, si
rendeva conto di dover operare con non poca attenzione. Perciò, provvide alle
scorte di
grano, si procurò contingenti ausiliari e cavalleria, arruolò molti soldati
valorosi
chiamati individualmente da Tolosa e Narbona, città della limitrofa provincia
romana,
dopodiché penetrò nella regione dei Soziati. Saputo del suo arrivo, i Soziati,
dopo aver
radunato ingenti truppe di fanteria e la cavalleria, che costituiva il loro
punto di forza,
attaccarono il nostro esercito in marcia. Si scontrarono subito le due
cavallerie: la loro
venne messa in fuga e la nostra si lanciò all'inseguimento. Allora i nemici
all'improvviso
dispiegarono la fanteria, che avevano piazzato in un vallone per tendere
un'imboscata. Si
gettarono addosso ai nostri che si erano disuniti e riaccesero la mischia.
21
La battaglia fu lunga e aspra: i Soziati, forti delle vittorie del passato,
ritenevano che
dal loro valore dipendesse la salvezza di tutta l'Aquitania; i nostri, invece,
volevano
mostrare di che cos'erano capaci sotto la guida di un giovane, pur senza il
comandante e le
altre legioni. Alla fine i nemici, fiaccati dai colpi ricevuti, si ritirarono.
Crasso ne
fece strage e, appena giunto alla città dei Soziati, la cinse d'assedio. Di
fronte
all'aspra resistenza dei nemici, ricorse alle vinee e alle torri. I Soziati
tentarono prima
una sortita, poi provarono a scavare fino al terrapieno e alle vinee cunicoli
(specialità
in cui gli Aquitani sono i più esperti in assoluto, perché nella loro regione si
trovano
molte miniere di rame e cave di pietra). Quando, però, si resero conto che i
loro sforzi
erano vanificati dalla sorveglianza dei nostri, mandano a Crasso un'ambasceria
per offrire
la resa. La loro richiesta viene accolta ed essi, dietro suo ordine, consegnano
le armi.
22
Ma mentre l'attenzione dei nostri era concentrata sulla consegna delle armi,
dalla parte
opposta della città tentò una sortita Adiatuano, il capo supremo, insieme a
seicento
fedelissimi, i solduri, come li chiamano i Galli. La condizione dei solduri è la
seguente:
fruiscono di tutti gli agi dell'esistenza insieme alle persone alla cui amicizia
si sono
votati, ma se quest'ultime periscono in modo violento, essi devono affrontare lo
stesso
destino oppure suicidarsi; finora, a memoria d'uomo, non risulta che nessuno si
sia
rifiutato di morire, dopo che era stata uccisa la persona a cui si era votato.
Adiatuano,
dunque, tentò una sortita con i solduri, ma dalla zona fortificata dove si era
diretto si
levarono grida e i nostri corsero alle armi. La lotta fu accanita: alla fine
Adiatuano
venne ricacciato in città e tuttavia ottenne da Crasso la resa alle stesse
condizioni degli
altri.
23
Ricevute armi e ostaggi, Crasso partì per la regione dei Vocati e dei Tarusati.
Allora i
barbari, molto scossi per aver saputo che una città ben fornita di difese
naturali e
fortificazioni era caduta nei pochi giorni successivi all'arrivo dei Romani,
iniziarono a
mandare ambascerie in tutte le direzioni, a stringere leghe, a scambiarsi
ostaggi, a
mobilitare truppe. Emissari vengono inviati anche ai popoli della Spagna
citeriore, al
confine con l'Aquitania: da lì giungono rinforzi e comandanti. Grazie al loro
arrivo
riescono a intraprendere le operazioni di guerra con molta autorità e molte
truppe. Come
capi, poi, scelgono gli ufficiali che erano stati sempre al fianco di Q.
Sertorio, dotati,
si riteneva, di grande esperienza militare. Costoro, secondo la tecnica dei
Romani,
incominciano a occupare i punti chiave, a fortificare l'accampamento, a tagliare
i
rifornimenti ai nostri. Crasso, quando si rese conto che non poteva dividere le
sue truppe,
troppo esigue, mentre il nemico aveva libertà di movimento, presidiava le vie di
comunicazione, lasciava nell'accampamento un presidio sufficiente, ostacolava i
rifornimenti di grano e di viveri per i Romani e aumentava ogni giorno i suoi
effettivi,
ritenne di non dover ritardare lo scontro. Riferite le sue intenzioni al
consiglio di
guerra, quando vide che tutti condividevano il suo parere, fissò il
combattimento per il
giorno seguente.
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All'alba Crasso spiegò le truppe fuori dal campo e le schierò su duplice fila,
con al
centro gli ausiliari, in attesa delle mosse del nemico. Essi, pur convinti di
non correre
rischi, vista la loro superiorità numerica, la loro antica gloria militare e le
esigue
forze dei nostri, tuttavia pensavano ancor più sicuro di ottenere la vittoria,
senza colpo
ferire, presidiando le vie e tagliando ai nostri i rifornimenti. Se, poi, i
Romani, spinti
dalla mancanza di grano, avessero tentato la ritirata, si proponevano di
assalirli mentre,
impacciati dalla marcia e dal peso dei bagagli, erano meno ardimentosi. Tale fu
il loro
piano, perciò non si mossero quando i capi romani portarono le truppe fuori
dall'accampamento. Avendo preso atto della situazione, Crasso, visto che la
tattica di
attesa dei nemici, scambiata per timore, aveva reso i nostri soldati più animosi
(tutti
gridavano che non bisognava perdere altro tempo e che si doveva marciare sul
campo
avversario), esortò i suoi tra il fervore generale e puntò sui nemici.
25
I nostri, parte riempiendo i fossati, parte lanciando un nugolo di frecce,
costrinsero i
difensori ad abbandonare il vallo e le fortificazioni. Pure gli ausiliari, sul
cui apporto
Crasso non faceva troppo affidamento, rifornendo i soldati di pietre e frecce e
portando
zolle per elevare un terrapieno, davano l'effettiva impressione di combattere.
Ma anche il
nemico lottava con tenacia e coraggio e i dardi, scagliati dall'alto, non
andavano a vuoto.
A quel punto i cavalieri, che avevano fatto il giro del campo nemico, riferirono
a Crasso
che la porta decumana non era altrettanto ben difesa ed era facile penetrarvi.
26
Crasso, esortati i capi della cavalleria a spronare i loro con la promessa di
grandi
ricompense, espose il suo piano. Costoro, secondo gli ordini, portarono fuori
dal campo le
coorti che lo presidiavano, fresche e riposate, compirono una lunga deviazione
per non
essere visti dall'accampamento nemico e, mentre gli occhi e gli animi di tutti
erano
intenti alla battaglia, raggiunsero rapidamente le fortificazioni di cui si è
parlato, le
abbatterono e penetrarono nell'accampamento prima che i nemici potessero
scorgerli o capire
che cosa stesse accadendo. E quando i nostri sentirono levarsi da lì clamori,
ripresero
forza, come spesso succede quando si spera di vincere, e iniziarono ad attaccare
con
maggior vigore. I nemici, circondati da tutti i lati e persa ogni speranza,
cercarono di
gettarsi giù dalle fortificazioni e di darsi alla fuga. La nostra cavalleria li
inseguì nei
campi, pianeggianti e privi di vegetazione: di cinquantamila nemici - tali erano
stimate le
forze provenienti dall'Aquitania e dai Cantabri - appena un quarto si mise in
salvo. I
nostri cavalieri rientrarono all'accampamento a notte fonda.
27
L'eco della battaglia spinse ad arrendersi e a consegnare spontaneamente ostaggi
a Crasso
la maggior parte dei popoli dell'Aquitania. Tra di essi ricordiamo i Tarbelli, i
Bigerrioni, i Ptiani, i Vocati, i Tarusati, gli Elusati, i Gati, gli Ausci, i
Garunni, i
Sibuzati e i Cocosati. Poche genti e le più lontane, confidando nella stagione -
l'inverno
si stava avvicinando - trascurarono di farlo.
28
Quasi contemporaneamente Cesare, sebbene l'estate stesse ormai per finire,
condusse
l'esercito nei territori dei Morini e dei Menapi: era convinto di poter
concludere
rapidamente le operazioni contro di essi, gli unici due popoli che, in tutta la
Gallia
ormai pacificata, ancora erano in armi e non gli avevano mai mandato ambascerie
per
chiedere pace. I nemici adottarono una tattica ben diversa rispetto agli altri
Galli.
Avevano visto che, in campo aperto, nazioni molto potenti erano state respinte e
battute
dai Romani; perciò, visto che nei loro territori si trovavano selve e paludi a
non finire,
vi si radunarono con tutti i loro averi. Cesare giunse sul limitare di quei
boschi e
cominciò a fortificare il campo senza che si scorgesse l'ombra del nemico. Di
colpo, mentre
i nostri, sparpagliati, erano intenti ai lavori, i nemici sbucarono da ogni
anfratto della
foresta e li assalirono. I Romani presero rapidamente le armi e li respinsero
nelle
boscaglie, uccidendone molti. Ma, protratto eccessivamente l'inseguimento,
finirono in
luoghi più intricati e subirono perdite di lieve entità.
29
Nei giorni seguenti Cesare decise di disboscare la zona e, per impedire al
nemico di
attaccare ai fianchi i nostri, inermi e mentre non se l'aspettavano, dette
ordine di
ammassare dinnanzi al nemico tutto il legname tagliato e di disporlo come un
vallo su
entrambi i lati. In pochi giorni, con velocità incredibile, era già stato aperto
un grande
varco. I nostri tenevano ormai in pugno il bestiame e i primi bagagli dei
nemici, che si
ritiravano sempre più nel cuore della foresta, quando scoppiarono temporali così
violenti,
da costringere a sospendere i lavori, e le piogge ininterrotte ci impedirono di
tenere più
a lungo i soldati sotto le tende. Così, devastati tutti i campi, incendiati i
villaggi e le
case isolate, Cesare ritirò l'esercito e lo acquartierò per l'inverno nella
regione degli
Aulerci, dei Lexovi e degli altri popoli che di recente gli avevano mosso
guerra.
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