Riministoria© Antonio Montanari

PLEBE BRIGANTI RIBELLI

La Romagna nel 1796-97 e l'invasione di Napoleone Bonaparte

di Antonio Montanari

Un'opera inedita in versione integrale

Capitolo secondo: I "sollevati montanari"

 

2.1 Gennaio ’97, inutili preparativi di guerra

Il 6 novembre a Rimini riprende a funzionare la Guardia Civica che sarà dimessa alla vigilia di Natale. Tra i volontari che partono per Roma c’è anche il marchese Ercolino Bonadrata. Il 9 dicembre, in una città imbiancata dalla neve, arrivano altri soldati papalini. Il 13 si presidiano le porte della città.La Municipalità deve eseguire le istruzioni impartite dal cardinal Legato: distribuire pane alla truppa di passaggio al solito peso, ed assegnare alloggi agli ufficiali, facendo come nel 1744 e nel 1780, "per mezzo di estrazione da un Bussolo" oppure "di equitative assegne nelle Case" dei religiosi e dei privati.

Il 26 gennaio ’97 sosta a Rimini uno squadrone di distinti volontari a cavallo, 161 teste, 147 cavalli e 4 muli, compresi un chirurgo, due trombettieri ed un garzone per il carro. Il 30 gennaio avviene la partenza all’improvviso per Cesena di "tutti quasi li soldati" [Giangi]. Il giorno dopo la stessa cosa succede a Cesena: se ne vanno piene di "somma allegria" tre compagnie "con tamburo battente, a Banda sonante" [Fabbri].

A guidare il suo esercito, il Pontefice ha ottenuto in prestito dall’imperatore d’Austria il generale Michele Colli. Egli giunge a Rimini all’alba del 13 gennaio, proveniente da Ancona ed accompagnato da ufficiali tutti al servizio al Papa, con i quali è ospitato in Vescovado [Giangi]. Colli si reca a Faenza il 14 e la sera di domenica 15 torna a Rimini, dove partecipa ad una festa in teatro prima di avviarsi per Roma. Il cronista Zanotti osserva: "Non dié questo generale veruna bellica disposizione in momento tanto importante. La sua visita si valutò una comparsa vana ed inutile" [GZ].

 

 

 

2.2 Forusciti e vagabondi

Il 2 febbraio, al Ponte di Faenza, "segnò pei Francesi una vittoria quasi senza battaglia"; "il generale comandante la difesa" ha fatto "suonare piffero e tamburo" senza "dar ‘arma a campana’ per non spaventare le ‘monache’ e le ‘famiglie piccole’": i rinforzi giunti da Forlì (1.500 fanti con banda, bandiera e cannoni) intanto "riposano nella sala del Palazzo" [Ballardini].

La sera di sabato 4 febbraio 1797 i soldati francesi entrano a Rimini, preceduti da due religiosi francescani e seguiti da un sacerdote, don Giovanni Forlani di Morciano, trascinato per il petto: sua unica colpa, averli incrociati lungo il proprio cammino. La scena appare simbolica. Anche nel clero c’è chi simpatizza per i francesi e chi ne è vittima. Napoleone ha ripreso due giorni prima la guerra contro lo Stato della Chiesa, stracciando l’armistizio del 23 giugno 1796. Bonaparte arriva nella nostra città nella notte su martedì 7 febbraio, ed è ospitato da Gian Maria Belmonti Stivivi, uno dei tanti nobili filogiacobini che vedono nell’occupazione francese un mezzo per scalzare il dominio papale. Prima di ripartire alla volta di Pesaro, Napoleone arringa i parroci: la rivoluzione non minaccia la religione, stiano quindi tranquilli loro, e mantengano calmi i loro fedeli. Dal Quartier Generale di Forlì il 4 febbraio egli ha già avvertito con un editto pubblicato due giorni dopo a Ravenna dalla Giunta di Difesa Generale della Repubblica Cispadana: il nuovo governo della Romagna, posto alle dipendenze della Cispadana, avrebbe preso "tutte le misure necessarie per reprimere i falsi Preti, che si allontanassero dai principj della vera Religione, e che volessero frammischiarsi negli affari temporali" [FGSR]. Bonaparte si illude che, facendo tacere il clero, si possa tenere a bada la plebe. La convocazione dei parroci è fatta dai francesi al loro arrivo in tutte le città della Legazione, nella speranza di garantirsi dal fanatismo della popolazione. Il malcontento che serpeggia nei quartieri poveri della città, nelle misere parrocchie di periferia o nelle campagne, non ha però bisogno di essere alimentato da tante prediche.

Rimini è una città stremata dagli eventi bellici. Nel luglio ’96 per il territorio diocesano ha dovuto pagare alla Repubblica Francese i sessantatré mila scudi della contribuzione. Poi le è stato imposto di partecipare alle spese per le truppe che il Papa, nel gennaio ’97, ammassava in attesa di riprendere le ostilità contro Bonaparte. Adesso ci sono le nuove, pesanti pretese degli invasori. La situazione è insostenibile. Dall’inizio del secolo qui passano truppe, si richiedono esborsi in denaro e si ordinano requisizioni allo scopo di alimentare i soldati ed i loro animali. Per esperienza dolorosa tramandata di padre in figlio, la gente sa che ogni esercito, amico o nemico, porta fame e distruzione dove transita o si accampa. (Nell’86, la notte di Natale, c’era stato un terremoto che aveva provocato gravi danni.) Anche per la nostra città vale un’osservazione dello storico pesarese conte Camillo Marcolini: "quantunque il governo degli ecclesiastici non fosse per sé stesso molto buono, ogni ordine di persone, ad eccezione forse di pochissimi, non desiderava né desiderar poteva quella libertà che i francesi ci recavano sulla punta delle spade" [pag. 388].

I torbidi non iniziano con il "Governo Francese", come la nuova situazione politica viene definita nei registri comunali di Rimini alla data del 5 febbraio [AP 502]. Nel mese precedente a Bellaria sono già avvenute violenze attribuite a "forusciti, tra quali sono stati veduti anche di zingari" [AP 999, 1.2.1797, lettera di Cristoforo Vannoni]. La parola "forusciti" indica gli esuli politici filofrancesi che tramavano contro il potere romano. Il loro comportamento è più da briganti da strada che da veri cospiratori politici contro l’ordine costituito. Essi infatti "e di giorno, e di notte vanno alla Case, e non solo contenti di mangiare, e bere, portano via ciò che possono avere: polli, agnelli, panni, ed anche ori e denari se ne ritrovano. Al Lavoratore di Gregorini, che sta vicino al Ponte dopo averli tolto trenta pavoli, e tre miserabili anelli d’oro, che facevano tutta la sua sostanza, lo regalarono di alcune giuncate. Al Lavoratore de Pavolotti dopo averli bevuto una quantità di vino, li amazzarono sino una scrofa pregna, e così hanno fatto a molti altri". I "poveri Contadini" della zona si trovano di conseguenza "in grandissima agitazione" [ib.].

Il vice podestà di Monte Colombo, Giacomo Ugulini, il 3 febbraio annuncia alla Municipalità riminese che il popolo del suo paese è "stato eccitato alla diffesa" [AP 999]. Napoleone a Bologna il 31 gennaio, alla vigilia della dichiarazione di guerra, ha emesso questo proclama: "Qualunque Villaggio o Città in cui all’avvicinarsi dell’Armata Francese si dia campana a martello, sarà all’istante bruciata, ed i Magistrati ne saran fucilati". (I francesi proibiranno poi di battere persino il mezzogiorno, l’ora della tavola del vescovo.) Ugulini considera le circostanze del momento "talmente imbrogliate pel diverso modo di pensare di questi Consiglieri, e Comunisti" [componenti la comunità], che ha deciso di "fare una sollecita spedizione" alla Municipalità di Rimini, per "avere l’Istruzione del regolamento da tenersi", ben consapevole però che non sarebbe stato "facile render noto al popolo un prudente contegno", dato che esso era stato appunto "eccitato alla diffesa".

Appelli alla nostra Municipalità giungono anche dai Priori di San Giovanni in Marignano, e dai parroci di Cattolica e di alcune frazioni del contado. Perché anche i parroci si rivolgano alla Municipalità anziché al vescovo, che era il loro diretto superiore e che, con il Governatore, rappresentava il potere centrale dello Stato della Chiesa, lo si spiega col fatto che essi chiedono l’uso della forza pubblica. Questo loro atteggiamento dimostra poi che essi non stanno con i filofrancesi. Impossibile intuire dalle risposte alle loro istanze, se queste ultime fossero ispirate da amore della legalità oppure da umori reazionari. Ai Priori di San Giovanni si scrive: "Non il solo Territorio delle Signorie Vostre ma molto più le nostre vicine Campagne sperimentano i mali, ch’Elleno ci hanno esposti". Non ci sono però i mezzi per porvi riparo: "Ci mancano cavalli, ed armi per far batter la Campagna dalla Guardia Civica" [AP 502, 6.2.1797, "Infestazione della Campagna"]. Al parroco di Cattolica si ripete il discorso: "abbiamo riconosciuta la necessità" di provvedere ai "mali di cotesta Popolazione", come a quella di altre parti, "ma mancano per questo le Forze" [AP 502, 6.2.1797].

Ai parroci di Sant’Andrea del Crocefisso, Casalecchio e San Martino in Riparotta si comunica il piano stabilito dalla Municipalità di concerto con il Comandante francese della Piazza militare di Rimini "per rimediare efficacemente e sollecitamente ai disordini, che si commettono dai Forusciti nelle Campagne": istituire una Guardia Civica nelle "Ville del Bargellato", agli ordini di un militare francese, "affine di fare il giro notte e giorno delle rispettive Parocchie per arrestare, e condurre in Città que’ Vagabondi, che fossero trovati fuori della Strada Maestra, o Consolare per fare del male". I parroci dovevano collaborare inviando "dieci uomini di coraggio", che sarebbero stati "spesati per tutto il tempo, che presteranno il servizio". La Municipalità garantisce che essi non sarebbero stati "mai né offesi, né reclutati", secondo le assicurazioni ricevute dallo stesso Comandante della Piazza di Rimini [AP 502, 7.2.1797].

In quest’ultima lettera la parola "forusciti" non indica più i sostenitori dei francesi alla macchia, ma i partigiani del Papa: essa torna come un’istintiva ripetizione burocratica, e quasi un confuso ricordo di una situazione ormai superata dai nuovi eventi. Ora s’accoppia al termine "vagabondi", meno preciso, anzi decisamente più ambiguo e quindi perfettamente adatto a quei momenti. Nomina sunt consequentia rerum, nel senso che le parole rispecchiano il loro tempo. Nonostante le certezze che con gli editti repubblicani si volevano trasmettere ai cittadini (le leggi non modellano la realtà, accade sempre il contrario), il periodo è confuso ed insicuro. Il vocabolario non può essere diverso o migliore degli uomini che lo usano. E che faticano ad adeguarsi al mutamento politico conseguente all’occupazione napoleonica, grazie alla quale occorre cambiare colore politico ai "forusciti": non più giacobini, dunque, bensì "papaloni", come si usa dire.

Già due secoli prima, il 18 agosto 1590, la nostra Municipalità aveva dato lo sfratto ai vagabondi: alla stessa stregua erano stati trattati furfanti, montanari e forastieri "che da un anno erano venuti ad abitare in Rimini e suoi borghi con danno e pregiudizio della Città". Da sì cattiva compagnia non sono stati esclusi gli Ebrei, sorvegliati speciali fin dall’inizio di quel secolo "quali nemici della religione e promotori di scandali nel popolo", e costretti a portare una berretta di color giallo se maschi e tenere ben in vista una benda dello stesso colore sulla fronte se donne. A Cattolica, "per le vessazioni e ruberie, che si commettevano, e si commettono", sono accusati "malviventi, e vagabondi, che hanno seguite, e seguono l’Armata Francese". Il "Cittadino Lapisse Comandante della Piazza di Rimini", attraverso la nostra Municipalità, fa sapere: "né soldati, né Ufficiali Francesi, o chiunque altro, possono pretendere, e molto meno esiggere dagli osti, ed abitanti di questa Terra nessuna sorte di viveri, foraggi, o altra cosa senza l’esatto, e puntuale pagamento, giacché la truppa che passa in Cattolica, riceve quì le Razioni necessarie pel suo camino fino a Pesaro". La spiegazione funziona in via di principio. In realtà il comportamento degli occupanti non si ispira alle regole ricevute, se lo stesso Bonaparte il 7 febbraio scrive ai suoi soldati dal Quartier Generale di Pesaro: "Non mi trovo contento di voi", e minaccia di passare per le armi chi avesse "strapazzato, o attentato in verun modo, sia nella Persona, sia nella Proprietà del Popolo vinto", o recasse con sé "roba rubata". D’ altro canto i soldati di Napoleone sono straccioni soltanto alla ricerca di un bottino.

I nuovi padroni delle nostre città per difendersi non potevano ostentare la sicurezza che dà l’esercizio del potere, proprio a causa di quell’ammissione di Napoleone sulla mala condotta della Divisione del generale Victor Perin e delle Legioni Transpadane e Cispadane. Però essi penseranno bene di considerare ogni reazione alle loro prepotenze nei confronti dei cittadini ‘liberati’, come frutto di trame occulte ordite per garantire organizzazione ed impunità ai "vagabondi": e così, ricorreranno alla storia dei "falsi Preti" che volevano "frammischiarsi negli affari temporali", sobillando alla sollevazione l’ingenuo popolo. Ai francesi, in un primo momento, offrono involontariamente una mano gli ecclesiastici, obbligati ad obbedire agli ordini del Pontefice per la "più valida resistenza, e difesa" nel caso di tentativi d’invasione, come si legge in un documento apparso senza firma e senza data a Rimini il primo febbraio ’97: il cronista Zanotti annota che "fu assicurato" che quella circolare fosse stata "fatta stampare dal Vescovo" mons. Vincenzo Ferretti, e che la "si vide affissa alla porta della cattedrale, e di altre chiese" [GZ, 1797, p. 9]. I vescovi all’inizio credono di trovarsi a combattere eroicamente una nuova crociata (il Papa pretendeva una semplice guerra), mentre si trattava soltanto di una battaglia politica in cui occorreva comportarsi con la stessa spregiudicatezza dell’avversario. Anche prima che il 19 febbraio 1797 Repubblica francese e Stato della Chiesa firmino la pace di Tolentino (con la quale il Papa deve cedere la Legazione di Romagna), essi passano dagli appelli insurrezionali a velati compromessi per non agitare ulteriormente le città sottoposte al dominio napoleonico.

 

 

 

2.3 La fuga del vescovo Ferretti

Dopo che Pio VI il 18 ottobre 1796 aveva ordinato "guerra difensiva" ai suoi sudditi in violazione dell’armistizio di giugno e nell’attesa che a rompere la tregua fosse la tracotanza francese, segretamente anche nella Diocesi di Rimini ci si preparò al mutamento della situazione. Il nostro vescovo poté così far affiggere la mattina del primo febbraio ’97 il piccolo manifesto già ricordato [SZ, ms. 1195, n. 1] che, prevedendo l’evoluzione dei fatti, aveva astutamente redatto e fatto comporre dal tipografo in tutta tranquillità: il foglio è senza firma e senza luogo di stampa, oltre che senza data. Il testo lungo e meditato, non un semplice proclama buttato giù a tambur battente, richiama le posizioni assunte dal Pontefice: il quale "non dubita, che li suoi sudditi proseguiranno ad essere animati da que’ sentimenti di fedeltà, di attaccamento, e di coraggio, che con tanta gloria han dimostrati sin’ora".

In caso d’invasione francese, secondo il volere del Santo Padre, i sudditi avrebbero dovuto apprestarsi "alla più valida resistenza e difesa". Il Papa garantiva che si sarebbe opposto all’avanzata napoleonica "con tutte quelle forze, ed in quella più energica maniera, che gli sarà possibile". All’occorrenza, secondo le disposizioni romane, precisava il vescovo, si sarebbe suonata campana a martello, ed i cittadini avrebbero preso l’armi, levandosi in massa, a coadiuvare la "Truppa Regolata", e ad "affrontare il Nemico con quel coraggio, e con quel valore, che ispira ad un Cattolico la Fede, ad un buon Cittadino l’onor della Patria, ed all’uomo la conservazione di se stesso, e di quanto ha di più caro sù questa Terra".

Nell’editto con cui Bonaparte dichiara rotto l’armistizio, all’articolo quattro si ricorda che il Papa ha ordito trattati con Vienna, ed ha posto le sue truppe sotto il comando di generali ed ufficiali venuti dall’Austria. Il 12 gennaio 1797 alla Mesola, i francesi hanno intercettato un corriere diretto a Venezia con missiva del Segretario di Stato cardinal Busca, indirizzata al prelato Albani inviato del papa a Vienna. Nella lettera si parlava dei negoziati per concludere un’alleanza, e di "bande" austriache da far giungere in Romagna. Bonaparte s’impegna, in una lettera al cardinal Mattei, a proteggere il papa come semplice "Primo Ministro della Religione". Quando il 2 febbraio Napoleone riprende le ostilità contro lo Stato della Chiesa, il vescovo Ferretti ed il governatore Luigi Brosi fuggono da Rimini, mentre le più distinte e doviziose famiglie si trasferiscono "nei loro beni in villa". Si sparge la (falsa) notizia che Nicola Martinelli e tutta Casa Soardi siano partiti verso Jesi. Il cronista Nicola Giangi la registra nel suo diario, poi la cancella. Mons. Ferretti si nasconde inizialmente a San Marino, dove Bonaparte il 6 febbraio invia una staffetta, con l’ordine di arrestarlo [Giangi]. La piccola Repubblica, "richiesta di "estradare" il vescovo di Rimini […] si prestò ubbidiente alla pretesa di Bonaparte (anche se, non potendo consegnare il vescovo che aveva già preso il largo da Senigallia, restituì soltanto il suo bagaglio), ricevendone in cambio l’attestazione ufficiale del rispetto francese" per la propria indipendenza "e, più concretamente, l’esenzione dalle contribuzioni militari, una congrua sovvenzione di cereali e quattro cannoni (che, a vero dire, i sammarinesi non si curarono mai di richiedere)" [Atlante, p. 51].

Mons. Ferretti ritornerà a Rimini la mattina del 13 aprile, giovedì santo, "dopo di essersi aggirato ed occultato per le montagne vicine", ma sarà subito arrestato dai francesi "nella sua Residenza, ove per più giorni se ne stette rinchiuso". Quando il Generale Comandante della provincia, Sahuguet, si decide a liberarlo, il vescovo gli offre "un suntuoso banchetto" per ringraziamento, ed anche per "evitare ogni ulteriore vessazione, e disturbo" [GZ]. A guidare la Chiesa riminese, dopo la fuga di mons. Ferretti, rimane il canonico Filippo Baldini, pro-vicario generale, che la sera del 2 febbraio è costretto dalla Municipalità a firmare una dichiarazione di smentita del proclama apparso quella mattina: "[…] in mancanza di monsignor Vescovo io qui sottoscritto dò autorità all’ill.mo Magistrato di far sapere a tutti li Parochi, e Conventi di tutta questa Diocesi di non toccar campana a martello per l’unione di popolo armato senza ordine preciso del suddetto Ill.mo Magistrato o di me sottoscritto" [AP 999].

La stessa sera il Segretario della Municipalità, Niccol’Antonio Franchi, pubblica questa "Notificazione" [AP 999]: "Rimane ora abbandonata la nostra Città dai Signori Superiori [vescovo e Governatore], che providamente la reggevano. Appartiene perciò alla Pubblica Rappresentanza di prenderne le redini, ed ai buoni Cittadini di prestarsi generosamente ai suoi bisogni". Era il classico vuoto di potere in cui tutto era possibile. Il primo provvedimento che la "Notificazione" suggerisce, è di costituire subito, per la comune tranquillità, una Guardia Civica volontaria. Il giorno 3 il pro-vicario Generale Baldini, invia ai parroci questa lettera: "Nelle attuali critiche circostanze non essendovi cosa, che più interessi la salvezza della Patria, e de Cittadini quanto la tranquillità, né che più la esponga a pericolo di un ardore intempestivo, di cui altrove ci sono intesi i perniciosi effetti, nell’assenza dell’Ill.mo e R.mo Monsignor Vescovo ma colle debite autorizzazioni dichiaro di non dovere [cancellato a penna: per ora] aver alcun effetto, il Proclama divulgato per l’unione di gente armata al tocco di Campana a martello, ed espressamente proibisco detto segno a chiunque in qualsivoglia caso senz’ordine mio preciso in iscritto sotto le maggiori pene" [FGSR]. Implicitamente si riconosceva che il "Proclama divulgato" proveniva da fonte autorevole e non da orditori di trame di rivolta che, in caso contrario, sarebbero stati chiamati in causa ed additati al pubblico disprezzo. Il pro-vicario anticipa le direttive che il 4 febbraio l’Arcivescovo di Ravenna impartisce a tutti i vescovi della Provincia: adoprarsi con una lettera pastorale per insinuare "sentimenti di tranquillità e di pace" in tutto il clero e nei fedeli. Il canonico Baldini, il segretario Franchi e soprattutto l’Arcivescovo di Ravenna usano la parola "tranquillità" più come assurdo auspicio che come termine capace di indicare la possibile condotta da adottarsi da parte della della popolazione in momenti così terribili.

Lo stesso 3 febbraio i Consoli ed il Consiglio dei Dodici della città di Rimini inviano al Comandante francese, con lettere credenziali, due loro rappresentanti, Gian Maria Belmonti Stivivi e Giambattista Agolanti, ad "umiliare gli ossequj, e i voti di tutto il nostro Popolo", e a significare che esso viveva "tranquillo, fidato nella propria innocenza", e nella generosità dei francesi. Il "Popolo" riminese sapeva infatti di non aver fatto "giammai alcun male" ai nuovi arrivati, ai quali si dichiarava pronto di fare "tutto quel bene che può dipendere dalla sua volontà" [AP 502]. Il documento termina con una speranza, dichiarata come certezza: "che nell’ingresso che farà nella sua Città", l’"Armata vittoriosa si diporterà essa con quella dolcezza, condiscendenza, ed umanità, che sono state sempre le virtù distintive della incomparabile Nazione Francese". La paura non fa mettere soltanto in ginocchio, ma anche definire come prospettive sicure quelle chimere che non potevano trovare alcuna conferma nei fatti precedenti e nei documenti emanati dall’invasore. Era forse un modo elegante di invocare compassione e perdono da quel Napoleone, considerato come una specie di dio pagano della guerra, con uno stile più adatto alla penna degli ecclesiastici, capaci di toccare tutti i registri della retorica e della pietà, che a quella di pubblici amministratori, i quali si nascondo furbescamente dietro quella parola "Popolo", amata con un sentimento di certo non corrisposto, così come ieri era stata odiata e pure ignorata.

 

 

 

2.4 Il "Governo Francese"

A Faenza il 2 febbraio i soldati del Papa confermano la loro fama di essere, come scrisse il conte Marcolini (p. 389), "i più vili e i più inesperti del mondo, poiché quasi tutti volsero il tergo prima ancora di aver veduto il nemico in viso".Il 3 passano per Rimini le truppe a cavallo in ritirata. Il generale Colli si ferma ad Ancona da dove se ne va "non appena vi si appressò il nemico", per porre il campo a Foligno. Qui scrive al poeta Bertòla un breve, inedito messaggio datato 10 febbraio 1797: "Che fatali circostanze l’esser generale d’un’armata che fugge, d’un paese che non vuol difendersi, ed esservi chiamato per essere testimone di tanta calamità senza potere di salvare questo buon Pontefice, ed i buoni" [FPS, 63.35].Mentre quattromila soldati napoleonici entrano a Rimini, alla nostra Municipalità perviene una lettera dei Gonfalonieri e Priori di Fano per sapere se "la Truppa Francese, che sentiamo messasi al possesso specialmente di Faenza con il guasto della Truppa Pontificia, abbia fatta, o si disponga a fare ulterior mossa verso codeste Parti" [AP 999, 3.2.1797].

Il giorno 4, a sostituire il governatore Brosi, è chiamato come "Giudice Provvisorio" il dott. Gian Andrea Agli che resterà in carica sino al 3 luglio. Arrivano anche i Commissari repubblicani. Il primo atto della nostra Municipalità che inaugura il 5 febbraio il "Governo Francese", è la "Rimostranza dell’impossibilità di contribuire all’Armata Francese i Generi richiesti", diretta al "Cittadino Teilard Commissario": il generale divisionario Victor Perrin ha inviato l’ordine "di non attendere a veruna requisizione di qualunque sorta, se questa non sarà segnata di mano dello stesso Sig. Generale a meno che non ci venga presentata per parte del Sig. Generale Bonaparte, o da un capo dello Stato maggiore". La comunità riminese è nell’"impossibilità di poter soddisfare alla domandate requisizioni, giacche qui mancano tele per camice, mentre quel poco che serviva per questa città, ne siamo stati spogliati per servizio della Truppa Pontificia". Circa i cappelli, si fa presente che essi "si provvedono fuori di Stato, quella sola fabbrica che qui esiste n’è sempre sprovista come potrà lo stesso Sig. Ispettore verificare". Per permettere la requisizione delle pezze di panno, la Municipalità indicherà "tutti li mercanti" cittadini a cui rivolgersi [AP 502]. Il 7 febbraio il Segretario della Municipalità, Niccol’Antonio Franchi, pubblica un’altra "Notificazione" [FGSR], che intima la consegna di "tutte le Armi da fuoco, Sciabole, e Stiletti", per evitare "una domiciliare perquisizione". Intanto i francesi avvertono i romagnoli che hanno versato "soccorsi" al Papa "per continuare una guerra" che li avrebbe condotti alla totale rovina: la Repubblica pretende da loro subito metà della stessa cifra, con l’impegno di pagare l’altra metà "di qua ad un mese" [SZ, ms. 1195, n. 54].

Il "continuo passaggio di Truppa Francese" turba la vita delle nostre contrade. Molti soldati "si allontanavano dai loro Corpi soltanto per le strade remote, entrando nelle case di contadini e guai se si trovavano le famiglie poco risentite mentre li spogliavano di tutto. Ma, al contrario, se incontravano in gente risoluta nessuno certamente di costoro ritornavano indietro perché li ammazzavano e poi li seppellivano, anzi, si sa per sicuro che capitorono nelle mani de’ villani li spogliavano, e poi li uccidevano e poi li sepellivano nei fossi, ne’ campi per le vie cometendo anche molte barbarie" [Sassi].

L’Amministrazione Centrale dell’Emilia ordina il 10 dello stesso mese alla Municipalità riminese di levare dalla pubblica piazza "la statua rappresentante il Pontefice [Paolo V, 1613], per collocarla in un luogo più adatto, e conveniente alla spirituale sua Rappresentanza […] prima che le Truppe Francesi con maggiore strepito dovessero" prevenire tale atto [AP 901]. Lo spostamento, fa notare l’Amministrazione Centrale, si rendeva necessario in seguito al "cangiamento di Dominio", il quale richiedeva di "rimuovere tutti quei formati distintivi che per l’avanti ci mostravano soggetti al pontificio Governo". La Municipalità riminese chiede di "accomodare la Statua rappresentante il Pontefice […] in modo che rappresenti il Vescovo San Gaudenzio protettore" della città. L’Amministrazione Centrale considera "commendabile" questo pensiero, e lo approva [ib., 14.2.1797].

L’Amministrazione Centrale dell’Emilia è stata creata nella ex Legazione di Romagna il 4 febbraio da Napoleone con un decreto pubblicato due giorni dopo a Ravenna dalla Giunta di Difesa Generale della Repubblica Cispadana. In esso si ricorda che l’"Eroe Bonaparte" prometteva ai nuovi sudditi di conservare la loro Religione e le loro proprietà: "Generale d’una Nazione libera egli porta la guerra non già ai popoli, ma ai Tiranni che gli opprimono. Affrettatevi col vostro amore per l’ordine pubblico, colla vostra ubbidienza alle leggi, col vostro zelo per la buona causa a meritarvi quella libertà, che l’Eroe della Francia sottraendovi all’antica vostra Schiavitù ignominosa è già disposto ad accordarvi" [FGSR]. Tanto per rispettare le dovute differenze, la Giunta nel suo foglio usa la data dell’"anno primo della Repubblica Cispadana", mentre il munifico Eroe preferisce quella dell’"anno quinto della Repubblica una, ed indivisibile", dove il secondo aggettivo intendeva riferirsi anche i territori italiani. Agli articoli quattro e cinque, Napoleone prevede la confisca dei bene del Papa e dei Principi "coi quali la Francia è in guerra"; ed il sequestro dei "benefizj ecclesiastici di qualunque specie, i di cui benefiziarj non risiedono nella Provincia". Il 7 febbraio l’Amministrazione Centrale esegue: invia "alle Municipalità, e Governi" della Romagna le norme applicative del decreto "del Supremo General Bonaparte", da eseguirsi in soli tre giorni [FGSR]. Il documento reca l’intestazione "Amministrazione Centrale della Romagna", ma il suo titolo ufficiale era "dell’Emilia".

Comincia a circolare per Rimini un lettera a stampa (datata 7 febbraio) che il vicario generale di Pesaro, don Luigi Pandolfi, ha inviato ai suoi "Cittadini Parroci": "il Generale in Capite delle Truppe Francesi" Bonaparte gli ha fatto conoscere personalmente "che anche i Guerrieri avvezzi al fuoco, ed alle stragi possono essere sensibili, giusti, e Religiosi" [FGSR]. Non ci sarà nessuna leva di soldati: quindi i parroci dovranno farsi "premura di rasciugare il pianto di tanti miseri Genitori, spremuto amaramente dal volontario esilio de’ loro Figli, e di richiamare questi teneri Oggetti del loro amore, gli appoggi della loro canuta, ed inoltrata età. Così potranno di conserva attendere all’Agricoltura, o al Coltivamento di quelle Arti, cui sono applicati a loro privato, e pubblico vantaggio".

Il Vicario Pandolfi spiega poi di aver avuto assicurazioni sul rispetto della Religione e delle proprietà individuali, con la promessa di risarcimenti per i danni eventualmente arrecati dai soldati dell’armata francese nonostante le severe leggi imposte all’esercito. Il messaggio ai "Cittadini Parroci" si chiude in chiaro stile rivoluzionario: "Salute, e Fraternità". Il Pro-Vicario di Rimini, canonico Baldini il 18 febbraio avverte i fedeli che il Papa Pio Sesto, visti la penuria e l’altro prezzo dei cibi "che alla Quaresima si confanno", concede agli abitanti della nostra Diocesi poter usare anche latticini, uova e carni, con limitazioni relative ai primi quattro giorni della Quaresima, al mercoldì dei "quattro Tempi", al venerdì e al sabato di ogni settimana, ed agli ultimi quattro giorni prima di Pasqua [FGSR].

 

 

 

2.5 "In mezzo a tanta miseria…"

Al "Cittadino Generale in Capite dell’Armata Francese in Italia Buonaparte li 7. Febrajo 1797", i Rappresentanti della Municipalità riminese inoltrano una lunga petizione, nella quale espongono "la situazione deplorabile della loro Città per ottenere per essa tutta quella commiserazione, che, avuto riguardo alle circostanze, può meritare la di lei innocenza, ed il diritto che ha per ciò di essere esaudita dal cuore benefico, non meno che compassionevole" di Napoleone [AP 502]. Nel documento si prende "la cosa un poco più da lontano", per dimostrare "l’onestà della petizione" stessa: nel luglio ’96 "quest’infelice Città senza la più piccola colpa per sua parte e solo per l’altrui acciecamento, fu costretta di pagare in tre giorni all’Armata francese la rispettabile somma di scudi sessantatremila settecento in moneta sonante di banco. Questo pagamento per la ristrettezza del tempo, e per l’esorbitanza della somma fu non solo superiore alle forze de Contribuenti, ma non fu neanco eseguito colle regole della giustizia, poicché Rimino dovette improntare anche per quelle Municipalità che non avevano denaro".

"Per cumulo di sventura da molto tempo nel nostro povero Stato", prosegue la petizione, "non circola che o moneta, che per essere quasi tutta di rame si chiama erosa, o di carta, sotto nome di Cedole, quali il nostro Governo ha così aumentato di quantità, che a fronte della moneta la Cedola perde fino il cinquanta per cento". Per pagare in "moneta di banco" ("fina") la somma richiesta dai francesi, la Municipalità riminese fu costretta a "spogliare tutte le Chiese, e le Case dell’argento e dell’oro lavorato". Intanto il Governo promulgava un bando con il quale alla moneta "fina" veniva dato un aumento nominale del trenta per cento. Ma il bando "per delle ragioni particolari non fu promulgato in questa provincia", per cui a Rimini le "monete di banco" continuarono ad avere l’antico valore. Venne così favorita la loro fuga verso le province dove era riconosciuto l’aumento, e dove non si aveva più né moneta "buona", "né materia per fabbricarla".

"In mezzo a tanta miseria ecco, che si è improvvisamente presentata la Vostra Armata", prosegue il messaggio indirizzato a Napoleone: "Abbiamo dovuto cederle tutti i nostri Cavalli, siamo stati obbligati di provederla in fretta di pane, di carne, di vino, di foraggi, di biade, e di legna. Questo carico è forte, ma se a questo solo si fosse limitato il dispendio, noi ci si saremmo adattati con rassegnazione". Lo scritto ricorda che tutti proprietari "si sono prestati, e si presteranno sempre volentieri, quando, o si richiedono generi che sono nelle loro mani, o quando la richiesta è proporzionata alle loro forze". Ma se i Commissari francesi "non bene istruiti delle angustie di questa povera Città, e della qualità de’ suoi prodotti, o chiedono somme maggiori delle sue forze, o generi, che non sono del suo suolo", bisogna che Bonaparte sappia come stanno le cose. Il Commissario francese "Tagliard" [Taillard] chiede l’impossibile: cioè vuole prodotti che vanno pagati in contanti ai mercanti per non ridurli alla mendicità, oppure merci che vanno ordinate fuori di Stato e pagate in quella moneta buona che non c’è. Le richieste, ammontanti a circa ventimila scudi, superano le possibilità economiche di Rimini. La petizione ricorda anche che, nei mesi precedenti all’arrivo dei francesi, il Papa ha "esaurite tutte le nostre risorse forzandosi a dispendj, e sussidj straordinari per preparare una guerra, che è sempre stata disdetta dal nostro cuore"; e che i Commissari napoleonici, appena giunte le loro truppe, hanno preso quel poco che restava nelle casse cittadine. Rimini ha da sopportare infine il carico per il mantenimento delle stesse truppe francesi.

In questa situazione, la città chiede "che la somministrazione de generi richiesti sia ridotta almeno alla sola metà, e che per quelli che non abbiamo sia in nostra libertà di somministrar loro tanto denaro nelle specie, che circolano nella Provincia, cioè parte in cedole, e parte in moneta erosa". Per le "pubbliche casse", la petizione propone di poter "esiggere non solo le gravezze, che sono della ragione della Città, ma che partecipiamo per l’avvenire anco di quelle, che erano della Camera Apostolica", per "sostenere almeno una parte delle grandiose spese a cui ci forzano le straordinarie circostanze nelle quali ci troviamo involti senza colpa, e senza delitti". L’8 febbraio l’Amministrazione riminese scrive al presidente dell’Amministrazione Centrale dell’Emilia, sempre a proposito delle contribuzioni da pagare ai francesi, sintetizzando la petizione inviata a Napoleone, e ribadendo che "dopo lo spoglio che ha fatto il Papa del poco resto, che ci rimaneva in cassa per preparare la guerra, il nostro Comune è così depauperato, che non sapiamo dove e come trovar denaro" [AP 502].

 

 

 

2.6Complotti di montagna

Ecclesiastici e laici si lamentano con tanto di appelli, ricorsi, pubblici reclami. Al popolo non resta che accodarsi alle altrui proteste, ambiguamente sposando la causa dei ribelli e trovandosi come incomodi compagni di strada quei briganti che sono amici di ogni torbido e di ogni opposizione al potere costituito: ieri simpatizzanti per la libertà francese contro il governo pontificio, oggi appoggiano la parte romana nei fervori antigiacobini. Davanti ai bagliori delle armi bianche ed ai fuochi degli spari, nessuno dei plebei di città o di campagna s’interroga se, ai fini degli equilibri politici generali, sia più utile ribellarsi all’invasore o subirne la prepotenza. Anche loro, come gli uomini di ogni tempo, sanno che i fatti bisogna accettarli per come sono. Non si possono cambiare, quando gli oscuri disegni della Provvidenza o di un laico destino, li mettono in movimento. Dopo ci sarà tempo e modo per inquadrarli razionalmente, alla ricerca di connessioni e causalità. La stranezza della Storia, l’irrimediabile follia degli uomini che la scrivono, è che un povero mendicante il quale urla contro le insopportabili angherie di un soldato repubblicano, può finire nei libri a far massa con la nobiltà reazionaria o con quei borghesi che amano sì le libertà (soprattutto se esse li riguardano in prima persona), ma non l’eguaglianza sociale nei confronti di chi sta più in basso di loro.

C’è stato un momento della storia antica in cui tutto dipese da un cavallo. Al posto dei nobili quadrupedi, le nostre cronache debbono ricordare altri animali, più rustici ma altrettanto utili, i buoi. I soldati francesi li razziano in gran copia in alcuni paesi marchigiani, occupati militarmente in conseguenza della pace di Tolentino firmata il 19 febbraio: la sera del primo marzo ne transitano per Rimini duecentocinquanta, accompagnati da circa quaranta custodi. Il convoglio, proveniente da Pesaro, è diretto al Nord con tappa a Cesena [AP 503, 1.3.1797]. Sono questi soldati che portano a Rimini la notizia della pace di Tolentino, se Nicola Giangi la registra nel suo diario proprio sotto la data del primo marzo, scrivendo però che essa era stata stipulata il 14 febbraio.

Le nostre autorità civili ricevono "delle relazioni sicure che il Popolo delle Municipalità del Tavoleto, e dell’Auditore, che appartengono al Ducato di Urbino sono in comunicazione di complotto colle Municipalità di Monte Tiffi, ed altre piccole Municipalità di Montagna che dipendono da questa di Rimino, come anche col Comune di Carpegna antico luogo feudale. Chi ha ciò riferito assicura inoltre che detti Comuni dello Stato di Urbino spediscono degli Emissarj ne’ Territori delle Municipalità dipendenti di Rimino, cercando di fare in qualunque modo comovere il Popolo" [AP 503, 1.3.1797]. Questi "emissarj", presentati come agitatori politici, potevano invece essere semplici messi che correvano ad avvisare da un luogo ad un altro, per far mettere in salvo il bestiame prima delle requisizioni.

I francesi fanno paura in quei giorni anche per un altro motivo. Il 15 febbraio è scaduto il termine per il pagamento delle due contribuzioni, il residuo di quella del ’96 e quella del ’97. Chi non rispetta le regole, si espone "ad una esecuzione militare" [AP 503, 2.3.1797]. Non è forse una coincidenza strana che, laddove la somma prevista, da pagare in moneta e non in cedole, non è stata ancora versata alle casse dell’occupante, si formino gruppi di resistenza armata: succede ad esempio a Petrella Guidi, dove ci sono circa venti "malviventi" che non vogliono consegnare le armi, ma conservarle in casa per loro difesa [ib.].

A Mondaino, invece, "varj malintenzionati", le armi se le sono procurate con l’ammutinamento e scacciando la Guardia Civica: adesso "minacciano la vita, e le sostanze di quelli, che prudentemente si uniformano al nuovo Governo" [AP 503, 3.3.1797]. La lettera è diretta all’arciprete di Saludecio, don Fronzoni: le strade sono controllate da quei "sollevati" che intercettano le missive pubbliche, e la nostra Municipalità lo prega quindi di far sapere agli amministratori di Mondaino che non si può "sul momento far uso di quella forza che occorre per abbassare l’orgoglio" dei "varj malintenzionati", ma lo si farà "al più presto". Mancando le armi, Mondaino si regoli usando la "prudenza per sopire, se è possibile, il tumulto". Per gli amministratori di Rimini, la prudenza è divenuta, oltre che una virtù civica che deve far accettare il nuovo stato delle cose, anche uno strumento di azione politica e pratica rivolta al trionfo della giustizia. A Mondaino torna la quiete subito "per opera del Giusdicente, dei Sacerdoti, e delle Persone Probe". Il Comandante della Piazza di Rimini assicura "che si avrà tutto il riguardo" per quel paese, "in qualunque caso di spedizione di Truppe". Le Municipalità di Mondaino e delle località vicine sono autorizzate a disporre la Guardia Civica lungo il confine "coi luoghi sollevati della Provincia d’Urbino", "all’oggetto di allontanare i malintenzionati, e Briganti e esteri", ed assicurare quei territori dai "Malviventi, che vi fossero, e che tentassero di turbare" la quiete pubblica, facendoli arrestare, e tradurre sotto buona scorta [AP 503, 6.3.1797].

Se quei paesi non hanno soldi per mantenere una Guardia Civica, possono imporre un censo. Il pagamento ai Civici è ammesso soltanto nel caso in cui nel Comune "non vi sieno dei Proprietarj, o Benestanti, i quali possino servire la Patria senza pagamento, ed essendovi tali Proprietarj, dovranno essi del proprio pagare i Civici poveri, che fanno la guardia per loro, e che diffendono le loro proprietà". I proprietari obbligati per la Guardia Civica, sono quelli che non debbono "impiegare le loro braccia" per guadagnarsi la giornata [ib.].

A Montefiore si è data campana a martello, non contro i francesi, ma contro i "malviventi". I parroci credono di essersi comportati correttamente. No, gli spiega la nostra Municipalità: "dovete comprendere il Pericolo, cui nelle presenti circostanze esponete le vostre Popolazioni" [AP 503, 3.3]. All’avvertimento sull’azione sbagliata, segue un ammonimento in cui si intuisce e si espone ipocritamente uno scampolo di verità: "Vogliamo persuaderci che vi sia stata fatta qualche violenza; ma tocca a voi prevenirla con toglierne il modo di eseguirla". Come a dire, se qualcuno tentasse di uccidervi, voi provvedete di propria vostra mano ad eliminarvi, onde evitare che la malvagia azione sia compiuta. Sia ai signori di Mondaino, sia ai preti di Montefiore viene inoltrata copia delle disposizioni ai cui adeguarsi, per "promulgare ed insinuare la quiete" con una "energia" che compensi "l’usata facilità".

Quando col parroco di Sant’Ermete viene usata violenza, la nostra Municipalità passa la relazione ricevuta al Comandante della Piazza, "affinché la prenda in considerazione" [AP 503, 28.3.1797]. Non essendoci nessun accenno alla mancata prudenza del sacerdote, questi resta con il danno subito ma senza l’ammonimento inviato agli altri suoi confratelli. La Muncipalità di Rimini chiede ai militari francesi l’autorizzazione ad ordinare a quella di Monte Gridolfo di fare arrestare segretamente "certi malintenzionati" del paese segnalatisi per il loro mal animo [AP 503, 5.3.1797]. Lapisse, Comandante della Piazza di Rimini, accorda alla Municipalità di Monte Gridolfo "di poter far arrestare que’ tumultuari, e sedutori" che sono stati denunciati, a patto che essa sia certa "della loro perfidia": "Per tale arresto, e per quello, che accadesse di fare di altri simili Briganti, vi potrete valere della Guardia Civica" che a Monte Gridolfo come a Mondaino è concessa sui confini "ai luoghi in insurrezione dell’Urbinate, affine di tener lontani gl’insorgenti, e di tenere in freno i torbidi Paesani se mai vi fossero" [AP 503, 6.3.1797]. Dopo più di una settimana a Monte Gridolfo sono fermati tre uomini che vi si trovavano "sotto abito mentito" [AP 503, 14.3.1797]. Pure a Monte Gridolfo è stata suonata la campana "a titolo di difesa ai temuti malviventi". Il parroco ha però avuto la necessaria "diligenza" per "prevenire efficacemente le violenze del popolo allarmato". [AP 503, 3.3.1797]

 

 

 

2.8. Perdono ai ribelli di Sogliano

La sera del 4 marzo i dragoni repubblicani di Santarcangelo guidati da Filippo Pivi, salgono con rinforzi della Guardia Civica verso Sogliano per eseguire un arresto ordinato dall’autorità militare [AP 503 5.3.1797]. Fermatisi a Borghi, apprendono da un messo inviato in esplorazione che "in Sogliano eravi una quantità di armati, cui non avrebbe potuto resistere il numero de’ nostri, e che per[ci]ò non era prudenza di azardarli". A Borghi arriva anche la notizia "che a Poggio de’ Berni siavi un’altra Truppa di sollevati, che avrebbe fatto fronte alla nostra nel ritorno, e avrebbe dato tempo all’altra di Sogliano di unirvisi". Dragoni e Guardie scendono quindi a Santarcangelo in provvisoria ritirata. Due settimane dopo, si preparerà un nuovo "piano per arrestare alcuni malviventi di Sogliano: si conterà di prenderli mettendosi "in comunicazione segreta" con "qualche bravo sbirro" [AP 503, 21.3.1797].

La Municipalità riminese teme che si pongano in insurrezione anche altre località vicine a Sogliano, cioè "Genestreto, San Giovanni in Gallilea, Monte Tiffi, Monte Gelli, Tornano e Serra, Rontagnano, Savignano di Rigo": "la loro popolazione potrà ammontare a 500 persone atte a prendere le armi". Tutte queste località erano già state indicate all’Amministrazione dell’Emilia come sospette sorgenti delle violenze commesse a Morciano [AP 503, 7.3.1797, cit.]. C’è la necessità di "spedire prontamente colà [a Sogliano] una forza armata con cannone, onde distruggere il male alla radice, prima che si dilati maggiormente". [AP 503, 5.3.1797]. Ma il Generale Bonaparte è d’altro avviso: decide di concedere il "perdono ai sollevati" se torneranno "alla primiera quiete, ed alle loro case". Avverte quella popolazione: "Quando avrete ottenuta la sospirata quiete, potrete organizzare nel vostro Paese una Guardia Civica per mantenere l’unione, e per tranquillità contro i tentivi degli esteri malintenzionati" [AP 503, 9.3.1797]. Per precauzione i francesi confiscano i beni ai presunti capi della sollevazione [AP 503, 10.4.1797]. Alla Municipalità di Santarcangelo vengono addebitate le spese per la mancata spedizione a Sogliano [AP 503, 7 e 9.3.1797]. Al "Cittadino Gaetano Facchinetti" fuggito da Sogliano, la nostra Amministrazione ha scritto: "Noi non vi obblighiamo al sagrifizio, ma vi raccomandiamo i pegni preziosi, che avete in custodia. Maneggiatevi per quanto potete alla calma del vostro Paese. Questo è prim’obbligo del vero Cittadino" [AP 503, 7.3.1797]. Secondo le notizie giunte a Rimini, il capo del complotto risulta tal Marcosanti [AP 503, 5.3.1797]. Monte Gridolfo, prima di procedere con la propria Guardia Civica all’arresto di alcuni soggetti, chiede l’assenso delle autorità militari [AP 503, 5.3.1797]. L’arresto viene eseguito due settimane dopo [AP 503, 21.3.1797]. Una richiesta di arresti di "noti Delinquenti", giunge a Rimini anche dalla Municipalità di Forlì [AP 503, 13.3.1797].

A Monte Scudolo, di fronte alla "baldanza degli insorgenti", si raccomanda di regolarsi come sempre, cioè con ogni possibile prudenza: "se per mezzo della guardia Civica vi potesse riuscire di arrestare qualcheduno dei Briganti, e di farlo tradurre" a Rimini, si farebbe un favore sia alla nostra Municipalità sia al Comandante francese [AP 503, 7.3.1797]. Al quale Comandante, si riferisce che "dalle parti di Urbino, e del Montefeltro limitrofe, e rispettivamente ad Essa vicine piombano" su Monte Scudolo "degli Armati, che ànno fatto deporre a que’ Cittadini, e Municipalisti la Coccarda Francese, e meditano di impadronirsi di quella terra, e della Contribuzione raccolta, sollevando i Possidenti Esteri, che la debbono, a non pagarla". Inoltre, si aggiunge, la Municipalità Feretrana di Antico ha rispedito editti ed ordini del Governo francese, "che aveva già accettati": "Ecco un cambiamento, che procede dall’accennata insurrezione" [AP 503, 7.3.1797].

Contemporaneamente, la Municipalità di Rimini invia all’Amministrazione Centrale seimila scudi in conto della dovuta contribuzione, facendo presente che non le è stata abbonata la somma di oltre duemila scudi "dovuti in giugno passato dalle Comunità estere, che furono aggiunte alla nostra nel Provisionale riparto". Si tratta di Comunità "in tal una delle quali non han potuto nemmeno penetrare i messi" con gli ordini della stessa Amministrazione Centrale, e che "in oggi sono quasi tutte in insurrezione unitamente allo Stato di Urbino" [AP 503, 7.3.1797]. Circa la contribuzione, così si istruisce da Rimini la Municipalità di Montefiore: "Va bene di non irritare gli Esteri sollevati pel pagamento" previsto in base ai loro estimi, ma "sarà bene ancora che sospendiate l’esigenza medesima dai piccoli possidenti, che non hanno capitale maggiori di scudi 300 fino agli ordini" che dovevano arrivare dall’Amministrazione Centrale: "Escutete però i più ricchi, e gli stessi nostri cittadini, giacché non possiamo noi creare per la rata di questi il Censo, che ci proponete" [AP 503, 9.3.1797].

A proposito di soldi. L’agente locale della Repubblica Francese, cittadino Giulio Fortis, pretende dalla nostra Municipalità un elenco degli preziosi levati nel luglio ’96 da chiese, conventi, confraternite e luoghi pii, per il pagamento della contribuzione, e di quelli ivi rimasti: che si rivolga al cittadino Vicario Generale della Chiesa di Rimini, gli si risponde [AP 503, 11.3.1797]. Lo stesso giorno la Municipalità riminese elogia il Cittadino Giusdicente di Scorticata per lo zelo dimostrato nel "sopire la sollevazione" procurata "dai vicini insorgenti": "loderemo altrettanto la vostra efficacia in rimuovere la causa dei Dissidj che nascono costì nei giuochi proibiti". Ma anche la rivoluzione è un gioco pericolo. Fino a questo punto, i francesi hanno tenuto la mano leggera. Il perdono promesso ai sollevati di Sogliano in caso di resa, testimonia la volontà di non tirare troppo la corda. Ma non sempre andrà così.

L’Amministrazione Centrale dell’Emilia esalta "moltissimo il zelo" dimostrato dai riminesi "per calmare le insurrezioni", e prega di "proseguire colla massima attività, giacché le medesime sono in vicinanza dei luoghi, e della forza, e comando Francese. Noi vi autorizziamo a prendere su questo importante oggetto le più pronte, e forti misure, servendovi ancora di tutte le nostre facoltà, che a questo scopo vi si accordano" [AP 901, 12.3.1797]. Tre giorni dopo, la stessa Amministrazione Centrale dell’Emilia consiglia quella di Rimini di rivolgersi al generale Sahuguet per "quei Comuni, che dite esser in insurrezione, a cui non è stato possibile di spedire perciò i messi" [AP 901, 15.3.1797].

La Municipalità riminese distingue tra fatti malavitosi e politici, cercando di spingere gli occupanti verso un atteggiamento benevolo nella valutazione di episodi che li infastidivano perché arrecavano disturbo alla quiete pubblica. Mentre i francesi "dilapidano" Cattolica di viveri e foraggi [AP 503, 17.3.1797], la nostra amministrazione cerca di rassicurare il Cittadino Bondedieu, vice Commissario della Piazza: "li Malviventi, i quali si affacciano nei Confini del nostro territorio, non cercano se non di affrontare que’ soggetti, che possono immaginarsi abbiano del denaro, e che realmente non se la pigliano coi Francesi, perché di questi ve ne sono stati che sono passati nei suddetti luoghi pericolosi esenti da insulto forse perché non avevano figura di essere facoltosi" [AP 503, 18.3.1797]. Da notare l’insistenza con cui si ripete che i pericoli maggiori vengono da "esteri malintenzionati", la cui presenza è denunciata anche da Saludecio [AP 503, 15.3.1797].

Grazie ai buoni uffici della nostra Municipalità, il Comandante della Piazza fa scarcerare Gabriele Castellani di San Giovanni in Marignano: ciò dovrebbe servire ad "apportare una maggior quiete al Paese, ed agli altri animosi contadini". Il Comandante francese vuole che Castellani sia ammonito seriamente a far buon uso della liberalità ricevuta, "unendosi coi buoni Cittadini a mantenere la pubblica quiete, e tranquillità". "Se mai mancasse a questo dovere", prosegue la lettera della Municipalità riminese a quella di San Giovanni in Marignano, "sarà immediatamente arrestato, e fucilato, senza speranza di esimersene in conto alcuno. Sia poi vostra cura d’invigilare sulla condotta del Castellani, come di persona a voi consegnata, e del contegno della quale dovrete voi stessi rispondere al Comandante medesimo" [AP 503, 22.3.1797]. Un altro degli arrestati di San Giovanni in Marignano, è Benedetto Benedettini che a metà aprile figura ancora in carcere, con richiesta di perdono a Sahuguet [AP 503, 15.4.1797].

A metà marzo anche le pubbliche strade tra Cesena e Forlì sono poco sicure per la presenza di "contrabbandieri, ed assassini" che impauriscono persino la forza pubblica. Un vetturino di Faenza che stava rientrando a casa, viene trovato ucciso in un fosso.

Indice

Cap. 1. L’invasione del 1796

Cap. 3. I "sollevati montanari"

Cap. 4. Politica e religione

Per le sigle e la nota bibliografica

 

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© riministoria - il rimino - antonio montanari - rimini - 31.12.2013