Riministoria© Antonio Montanari

PLEBE BRIGANTI RIBELLI

La Romagna nel 1796-97 e l'invasione di Napoleone Bonaparte

di Antonio Montanari

Un'opera inedita in versione integrale

Capitolo terzo: I "sollevati montanari"

 3.1 Incursioni a San Mauro e Santarcangelo

Circa centocinquanta malviventi "montanari", armati in vari drappelli, il 21 marzo si presentano ai proprietari del Comune di San Mauro e della sua campagna "per averne violentemente dei generi" alimentari: "incutono in tutti un gran timore colle jatanze, e colle minaccie, che spargono, massime contro quelli, che si mostrano più fedeli alla Repubblica". Quel che fa più paura, è la loro intenzione "di tagliare la fossa, che conduce l’acqua dalle parti superiori a Santarcangelo, ed a Rimini per uso dei rispettivi molini, lo che seguendo porterebbe la fame a quella Terra", alla città di Rimini, "ed alle rispettive campagne, giacché le farine, che si hanno sono sufficienti alle rispettive popolazioni". È la relazione della Municipalità di Rimini al Cittadino Lapisse Comandante della Piazza, che si trovava a Ravenna [AP 503, 23.3.1797]. Secondo la cronaca di Nicola Giangi, questi malviventi provengono da "Sogliano, e Monti", e sono scesi a San Mauro perché proprio lì si trovava il grano requisito dal Commissario francese Giulio Fortis.

Un episodio simile accade "quasi al tempo stesso" a Santarcangelo, da dove il cittadino Baldini (come leggiamo nella relazione riminese a Lapisse), ha avvertito che "quel Paese si trova esposto al furore di detti forusciti in modo, che minacciano d’impadronirsene, e tanto è il timore, che vi hanno incusso, che i Municipalisti hanno abbandonato la loro residenza, e gli abitanti hanno chiuse le Case, e le Botteghe, e molti se ne sono fuggiti come ha fatto lui medesimo per aver inteso, che lo cercano particolarmente per esser egli stato uno di quelli, che scortò" i dragoni francesi "spediti a Sogliano: e ci ha confermato la protesta dei Malviventi di voler impedire il corso dell’acqua ai molini" [AP 503, 23.3.1797].

La relazione della Municipalità di Rimini inviata a Lapisse non si limita ad esporre i fatti avvenuti, ma contiene pure una "riflessione" (tale è definita nel testo) che appare della massima importanza: "le Montagne da cui calano quei scelerati, sono scarsissime di viveri", a causa della proibizione "uscita dall’Amministrazione Centrale di lasciar sortir generi dalla Provincia". Tale proibizione, "potrebbe obbligarli per la fame a maggiori violenze: giacché una gran parte del Monte Feltro, in cui sonosi annidati per la maggior parte detti Forusciti, non possono tirare la loro sussistenza, che dalla Piazza di Rimini". La mancanza di viveri rimanda anche al problema, accennato in precedenza, delle epidemie bovine. Una notizia da legare a questo discorso economico sulle cause delle rivolte, è contenuta nella lettera inviata il 19 marzo [AP 503] dalla nostra Municipalità al generale Victor Perin presso il Quartiere militare di Foligno: si condivide il progetto francese che, "per portare l’abondanza dei Comestibili in tutte le Provincie", prevede di chiudere "l’escita ai generi ne’ porti per fuori stato, lasciandone poi libera la circolazione da luogo a luogo, e da Provincia in Provincia". Per porre fine alle scorrerie di "quei scelerati", bisognerebbe avere in mano il Forte di San Leo con dentro cento soldati da mandare dove si trovano i "contrabandieri", o spedire all’assalto "quando meno se lo aspettano", oppure infine a "tagliar loro la ritirata, quando dal piano ritornano alle loro case". La stessa mattina del 23 marzo, "una masnada di detti Briganti ha disarmata" la Guardia Civica di Savignano, attaccando un Corpo" della truppa francese, di cui ha ucciso alcuni soldati, poi ha "involati i 54 bovini che da Ancona erano diretti a Mantova per conto della Repubblica" [AP 503, 23.3.1797, cit., a Lapisse].

Sull’assalto a Santarcangelo, si hanno altri particolari nella missiva della municipalità riminese al Vice Comandante la Piazza Bondedier: verso la sera del 22 "è giunta colà una moltitudine di Contrabandieri considerata di passa mille teste, la quale si è impadronita di detta Terra, di tutte le Armi Civiche, e dei generi, e forse a quest’ora avrà dato il sacco a quelle case, e di più si è milantata di venir domattina ad invadere" Rimini [AP 503, 23.3]. Ormai tutte le strade sono insicure. La nostra Municipalità invia a Lapisse "la nota dei Capi malviventi, che abbiamo esatta dal Comandante della Guardia Civica" [AP 503, 24.3]; e chiede al locale Giusdicente Criminale Cittadino Tonti di attivarsi con "fedeli Esploratori" nella caccia ai "Montanari insorgenti": su di loro c’è il sospetto che "possano avere qualche segreta intelligenza con alcuni del nostro Popolo" [AP 503, 25.3]. Agli "Esploratori" sarà accordata una "mercede a carico della Comunità, onde acquistare le più sicure notizie in affare di tanta importanza".

Il 24 marzo l’Amministrazione centrale ordina la "requisizione de’ buoi per approvisionar Mantova", previo un censimento del bestiame atto al lavoro, con un decreto che inizia: "Uomini deboli che avete sagrificati de’ tesori al lusso, ed all’avidità de vostri Despoti, sentite una volta il piacere di essere utili alla Patria, ed alla causa della Libertà" [SZ, ms. 1195, n. 44]. A Coriano il 25 marzo "dopo pranzo" si presenta "un Picchetto di 22 Contrabandieri avente per capo certo Simone Tonti della Taverna, che obbligò quegli Abitanti a deporre la Cocarda Francese, strappò dal solito luogo gli Editti del nuovo Governo, ed intendeva di volere le Armi di quella Guardia Civica, se non fossero state custodite nel Castello da Cittadini armati" [AP 503, 26.3.1797]. Un fatto analogo succede contemporaneamente a San Giovanni in Marignano, dove sono coinvolti i dragoni di Cattolica [ib.].

Sempre il 25 marzo a Monte Scudolo ("Terra unita a" Rimini "nel rapporto della Contribuzione, ma non ad essa soggetta"), compaiono "due masnade di contrabbandieri in numero di 35 o 40, i quali presi i posti più vantaggiosi del Paese, si diressero al capo di quella Municipalità nel Quartiere della Guardia Civica, gli fecero perquisizione di tutte le carte, le lessero, s’impadronirono delle armi, e le asportarono, vollero a forza da lui la consegna di cento scudi raccolti per la contribuzione, e dal Governatore Allocatelli altri scudi 28, rilasciandone all’uno, ed all’altro la ricevuta sempre con minaccia della vita" [AP 503, 27.3.1797, a Lapisse]. Obbligano poi detto Capo Municipalista "ad esporre egli stesso nel primiero luogo lo stemma del Papa".

Il gesto beffardo dei "contrabbandieri" sembra compiuto per nascondersi dietro un comodo alibi politico. Questo particolare della scena finale è impareggiabile: il racconto fatto dalla Municipalità di Rimini a Lapisse, culmina nel momento politico che chiude l’azione malavitosa, per significare che questi briganti sono al servizio del Pontefice, se prima di andarsene con il loro bottino vogliono inneggiare al passato Governo. A loro volta quanti credono (oggi come allora) che quelle masse si muovano pronte a sacrificarsi in nome della Fede e della Sede di Pietro, possono avere ambigua conferma del testo dei nostri "municipalisti", confortati oltre tutto dal fatto che i "contrabbandieri", gente perbene e non vili malfattori, usano la cortesia di rilasciare debita ricevuta per il denaro non rubato, ma sequestrato in nome della Causa. Succede spesso così, durante le rivoluzioni e nei momenti cruciali di cambiamento. Non poteva non avvenire anche nel ’97, a consolazione di tutti: del potere francese, di quello precedente e delle autorità locali che sono sempre più strette tra l’incudine della rivolta e il martello della repressione.

A Monte Colombo gli stessi "contrabbandieri" cercano, senza trovarlo, il denaro della contribuzione: dai libri contabili possono appurare che esso non è stato ancora esatto. [ib.]. Eventi identici accadono a Verucchio, Coriano, Sant’Andrea in Patrignano [AP 503, 27.3.1797, ancora a Lapisse], Gambettola, San Martino dei Molini [AP 503, 28.3.1797], Montefiore, San Patrignano, Besanigo, Pietracuta, Monte il Tauro e Scorticata [AP 503, 29, 30 e 31.3.1797]. È arrestato Pietro Tornani [Gioachino, lo chiama Zanotti, sulla scia di altri documenti] da Sogliano, appartenente ad una famiglia sospetta, e soggetto che "non ha buon nome": indosso porta "una coltella, ed un numero di cartuccie con palle, e metraglia". "Siccome non aveva schioppo, così tantoppiù si rende sospetta la sua persona" [AP 503, 28.3.1797].

Alla Municipalità di Savignano si riferisce che Pietro Tornani sostiene "di aver portata questa mattina" ad essa una lettera di quella di Gambettola, "che gli è stata consegnata o da codesto Giusdicente, o dal Governatore Turchi, come ad uno della vostra Guardia Civica" [AP 503, 28.3.1797]: dunque, era un bandito, oppure come sosteneva lui stesso, uno che lottava a fianco dei francesi? Agli amministratori di Savignano spettava il compito di valutare gli "aneddoti surriferiti". Il nome di Pietro "Gioachino"Tornani rispunta in altri due documenti. L’11 giugno ’97 [AP 901] l’Amministrazione Centrale scrive alla Municipalità di Rimini: "Corre voce che questo "capo dei rivoltosi, che mesi sono commisero tanti eccessi non meno in Savignano che in altri luoghi circonvicini, si ritrovi in Pesaro con animo di rimpatriare", il che, se avvenisse, "potrebbe procurare qualche nuovo gravissimo disordine". Nel ’99 egli si dichiara vittima di "saccheggio" nella propria bottega di tintore, e cita varie "Persone dalle quali pretende aver ricavato pregiudizio", senza però "esposittiva di Querela Relazionata" e senza portare testimoni. Tra gli accusati ci sono il conte riminese Gaetano Baldini, un "cisalpino", e Domenico Danzi, padrone della tintoria e della annessa casa in cui Tornani abita. Queste notizie si ricavano da una lettera che il Governatore di Santarcangelo Ercole Bartolini scrive ai Consoli di Rimini [AP 722, 20.6.1799] e che inizia con queste parole: "Gioachino Tornani mi ha presentati i Comandi delle Signorie Loro Illustrissime, di verificare cioè il sacheggio di cui si dole". La frase ha un tono che rimanda per somiglianza all’episodio di Gambettola. È un semplice tintore, il nostro uomo, ma si presenta come un personaggio capace di dare ordini a destra e a manca.

Nicola Giangi scrive che "li montanari" erano scesi anche a Savignano per rubare la contribuzione; e che "li contrabandieri" erano andati pure a San Martino Riparotta, "e da tutti li Arcipreti hanno preso grano, e altro": uno di loro, di sessant’anni, era stato catturato e fucilato. Alla Municipalità di San Giovanni in Marignano, timorosa "di poter subire danno dalle Truppe Francesi" nel caso di una loro avanzata in quel paese, Rimini risponde di aver invitato il Comandante della Piazza a distinguere "i rei dagli innocenti" [AP 503, 30.3.1797]. Raccomandazione superflua ma forse non ovvia con i militari, deve aver pensato la nostra Municipalità. Per i fatti di Montefiore [ib.], si sottolinea che gli autori possono esser "sicuramente" malviventi "del Tavoleto e Auditore", essendo quel Comune composto di "persone quiete, e ben intenzionate".

Un sarto di Rimini la sera del 29 marzo si presenta alle nostre autorità appena ritornato da Montefiore, allo scopo di riferire per conto di quella Municipalità che il giorno precedente i fuorusciti hanno giocato un brutto scherzo ad un loro compaesano, "un certo Vitali": "fattolo confessare, e comunicare, lo trasportarono in Piazza, ed a forza lo fecero mettere in ginocchio minacciandolo con l’archibugio alla faccia di volerlo realmente fucilare". Il parroco ed i Cappuccini "con le più vive preghiere" riuscirono a farlo liberare: "Allora però detti Malviventi vollero dalla stessa Municipalità scudi 30 circa, che seco se li portarono assieme col Vitali siddetto, lasciando però nel Paese quattro de suoi a guardare la casa del Vitali per indi spogliarla" [AP 503, 29.3.1797]. Montefiore chiederà poi alla Municipalità di Rimini di processare le persone che "levarono" quei trentaré scudi: Rimini risponde che l’autorità competente per giurisdizione è quella di Pesaro, a cui si dovrà inviare "la distinta nota de’ nomi, e cognomi di quelli, che avete nella ricevuta, che vi fu fatta nell’atto, che foste forzati a consegnare il pagamento" della somma [AP 511, 1.5.1797].

Le Guardie Nazionali di Pietracuta "hanno arrestato quattro uomini, che transitavano con dieci bestie bovine, le quali erano marcate col segno della Repubblica Francese" [AP 503, 30.3.1797]. I quattro fermati sono stati avviati a San Leo: la Municipalità di Rimini chiede a quella di Verucchio di essere informata "il più presto possibile delle disposizioni, che hanno gli abitanti di San Leo per la Repubblica Francese, e per Noi, e se quei Capi che sieno rivoltati sieno nella disposizione di rientrare nell’ordine" [ib.]. La nostra Municipalità sembra quasi volersi tirar fuori da discussioni e responsabilità: le uniche disposizioni da eseguire sono quelle dei francesi. Oltretutto, comandano loro perché ci hanno occupati, e noi non possiamo far nulla. La diplomazia di Martinelli si vede ancora anche nelle piccole cose. A Santarcangelo intanto si è chiusa la partita iniziata giorno 23 marzo.

 

 

 

 

3.2. Nobili e massoneria

Il 26 marzo "i Forusciti stanzionati in Santarcangelo" sono attaccati e dispersi dalle "brave truppe" francesi guidate dall’"intrepido generale Chambarlhac". La lettera che la nostra Municipalità, presieduta da Nicola Martinelli, invia alla Giunta di Difesa della Cispadana, dopo gli elogi contiene un velenoso giudizio: fu soltanto "l’affare di mezz’ora" quell’attacco ad un’"orda di banditi", la cui azione, "ultimo sforzo della Romana debolezza", "non merita l’onore della nostra paura" [AP 503]. La Giunta di Difesa reagisce duramente, ed accusa Martinelli di essere sempre stato uno sfrontato doppiogiochista: "voi antico Calunniatore del Governo [romano], e deciso fautore di tutte le novità", siete stato sempre protetto e favorito; "quando tutta la Romagna sapeva, che voi eravate alla testa di tutti i complotti, adunanze, conventicole contro il Principato; quando i Superiori n’erano informati; quando il popolo, perfino le Donnicciuole vi mostravano a dito, come il nemico del Governo Pontificio; voi pacificamente ve ne stavate in casa sicuro del fatto vostro: in tempi di pericolo, e di qualche energia del Governo contro i Novatori voi trovaste il modo di salvarvi ad onta delle declamazioni, che facevate fare dai Neofiti vostri".

Con segreti maneggi ed opportune raccomandazioni mentre dirigeva "operazioni arcane", Martinelli ha evitato "processi ben meritati". Egli è stato il maggior nemico del Principato, un seduttore del Popolo, un segreto macchinatore di novità nel Governo: "I Superiori della Provincia lo sapevano, lo vedevano, lo toccavano con mano: ognuno si meravigliava, che voi respiraste impunemente l’aria della vostra patria da voi corrotta e nella massima e nel costume: nei giorni, che vi accovacciavate per timore di essere scoperto, e per avere ozio sicuro ad oggetto di deludere l’altrui vigilanza, come nei giorni, che persuaso della vicina vostra risurrezione radunavate il vostro consiglio, e presiedevate alla Loggia rustica". "Facilissima cosa", prosegue la requisitoria della Giunta, "sarebbe tessere il catalogo dei vostri associati risparmiati tutti dalla clemenza di Roma", elencare "i viaggi dei vostri Confidenti, gli odj cangiati in istretta amicizia per ordire la trama, e le finte relazioni con soggetti di tutt’altro sistema ad oggetto di tenervi mascherato". Il Governo romano era bene informato sulle mosse di Martinelli: "si conosceva, e si confessava, che voi eravate il Suddito più pericoloso, e di carattere più proditorio; e contuttociò vi si lasciò tutto l’agio di condurre a fine la macchina, che maneggiavate con tanta destrezza, ed attività". A Rimini Martinelli aveva organizzata la Municipalità con gente "ottusa, e nata nell’aria di Beozia".

Le citazioni sono tolte dalla Lettera al Conte Nicola Martinelli Presidente della Municipalità di Rimino, (Foligno, 1797), dove ci si riserva di dire "molto di più" in altra occasione "in cui occorra parlare" di Martinelli, o di scrivere la storia della sua vita politica. L’autore della Lettera è il presidente della stessa Giunta di Difesa, Giuseppe Luosi, il quale in seguito sarà ministro della Giustizia nella Cisalpina. In testa alla terza pagina dell’opuscolo, il tradizionale motto "Libertà-Uguaglianza" (che appare in tutti i documenti ufficiali), è sostituito dalla beffarda triade "Chimera-Empietà-Impossibilità". L’accenno alla "Loggia rustica" pare indicare in Martinelli un esponente della Massoneria: nella quale si potrebbe ipotizzare la garante di tutta l’attività politica svolta dal conte riminese, e che non risultava gradita alla Giunta di Difesa. Il dissidio tra la Giunta e Martinelli potrebbe attestare l’esistenza di due anime all’interno del movimento giacobino locale. Se la politica è l’arte del possibile, Martinelli ne è un esemplare tanto perfetto da riuscire a primeggiare comunque, nonostante sospetti ed accuse: nello stesso ’97 diventa presidente dell’Amministrazione Centrale romagnola, e Seniore del Dipartimento del Rubicone nella Cisalpina, oltre che candidato alla prestigiosa carica di ambasciatore presso la Corte di Vienna, come si ricava da due lettere inedite di Bertòla a Francesco Martinelli [FPS, 63.133-134]. Non per nulla, alla sua scomparsa nel 1805 a 63 anni, si meriterà questo elogio da parte del cronista Nicola Giangi: "È morto il conte Nicola Martinelli, l’uomo più bravo in politica che avevamo". Zanotti definisce Nicola Martinelli non soltanto un rivoluzionario "soverchiamente politico, mondano, e generalmente malveduto", ma anche "abilissimo e di fina politica" [GZ].

Martinelli in effetti si rivela un sottile mediatore: come risulta dai documenti, contemporaneamente riesce a trovare ascolto presso il Cardinal Legato, a mantenere contatti con i francesi a Milano, ed a viaggiare in tranquillità fra la Romagna papalina e la Cispadana. Durante la caccia ai giacobini è rimasto a Rimini, con il merito d’esser andato da Augerau a dichiarare che i suoi concittadini "amavano di continuare a vivere sotto il governo" romano e non finire sotto quello francese. Rispettato dai reazionari pontifici, riesce ad avere rapporti con i nemici ufficiali, quei francesi con i quali successivamente collaborerà, ricevendone in cambio alta stima. È un diplomatico segreto, più gradito che tollerato, attraverso il quale gli amministratori di Rimini riescono ad avere notizie di prima mano, preziose in vista di cambiamenti che si preannunciavano traumatici: si temeva l’arrivo delle truppe napoleoniche non meno del governo pontificio. Nel 1799, dopo la cacciata dei francesi, gli Amministratori di Rimini in una "lettera segreta" del 5 novembre [AP 545] stilano un riconoscimento dell’attività di Martinelli allorquando da Milano la Commissione generale di Polizia richiede "un’esatta informazione" sulla sua condotta dopo l’invasione e l’occupazione da parte di soldati di Napoleone. La risposta sottolinea che tale condotta "lontana dall’aver ispirato cattiva opinione di se stesso è stata piuttosto riconosciuta plausibile in rapporto all’interesse, che indefessamente in sì terribile occasione ha adoprato per migliorare la funesta sorte della stessa sua Patria invasa dal Nemico, come altresì per lo zelo, ed impegno dal medesimo addimostrati per conservare il buon ordine, e la pubblica tranquillità, essendovi in ambidue gli oggetti riuscito riuscito per quanto lo portavano le in allora luttuose circostanze".

Martinelli ha poco in comune da spartire con molti suoi colleghi aristocratici, non tanto per la più o meno convinta devozione di questi ultimi alla religione cattolica od alla causa politica dello Stato della Chiesa, quanto soprattutto perché la sua mentalità si differenzia da quella della stragrande maggioranza dei nobili riminesi. Di tale chiusura, lungo tutto il secondo Settecento, abbiamo prove sicure in una serie di battaglie che quei nobili combattono a difesa dei loro privilegi, a partire dal 1741 con l’approvazione dello "Statuto esclusivo delle Femmine", il quale prevede che le donne, in presenza di maschi, siano private delle rispettive eredità, eccettuata la parte legittima.

Nel 1763 si apre la questione "Matrimonj disuguali di nascita". L’anno dopo la Segreteria di Stato boccia le deliberazioni riminesi perché troppo limitative. Nel ’64 si tenta poi di far passare i restrittivi "Capitoli per le nuove aggregazioni di Nobili e Cittadini", che però approdano a risultati opposti a quelli desiderati ed allargano le maglie del controllo per l’ascesa della borghesia. I nobili nel ’73 tornano alla carica con le loro istanze per intervenire sui "Matrimonj disuguali". La vicenda si conclude soltanto nel ’92 con l’approvazione da parte del Cardinal Legato di "Capitoli" che gli attribuiscono il ruolo di giudice nelle relative dispute cittadine per i casi futuri. Maiora premunt in quei giorni del 1792 in cui da Parigi la bufera rivoluzionaria investe l’Europa: il 20 aprile la Francia ha dichiarato guerra all’Austria, riportando il successo di Valmy il 20 settembre; il suo re è dichiarato decaduto il 21 settembre; il giorno successivo inizia l’anno primo della Repubblica. Il Vescovo di Rimini Vincenzo Ferretti ha indetto pubbliche orazioni l’8 settembre 1792, con l’ordinanza che finisce come introduzione alle Preghiere da recitarsi la mattina e la sera per implorare il Divino Ajuto nelle presenti calamità dalla Francia, subito pubblicate in tre edizioni.Nella stessa Diocesi di Rimini giungono numerosi ecclesiastici in fuga dalla Francia, recando notizie di prima mano.

I contrasti sociali in ambito cittadino sono documentabili attraverso un episodio del febbraio ’86, quando il "Popolo di Rimini" denuncia alla romana Congregazione del Buon Governo le "superflue spese" provocate dall’usanza della nobiltà di "trattenersi a suo piacimento" nei locali pubblici attigui al teatro, consumando "grande quantità di legna, lumi e mobiglie per le continue conversazioni, che dal principio della sera durano fin due ore dopo il teatro". Spese che "ne’ conti poi vanno sotto nome di consumi fatti per le Magistrature, Consigli, Congregazioni, e per trattare pubblici interessi"; e che sono "fatte a spalle de Poveri, e godute da Ricchi". Nel marzo successivo il Governatore dichiara alla Legazione di Ravenna "che il ricorso è vero nella sostanza". Esiste "lo scialaquo che si fà da Nobili di lumi e legna a conto della Comunità in occasione che il teatro sia aperto", acnhe se esso è inferiore alle cifre denunciate dal "Popolo". La consapevolezza che i tempi stanno mutando è espressa da un altro passaggio della lettera del Governatore di Rimini: "La Salute, la Quiete del Popolo sono, e devono essere la legge suprema in ogni Governo ben ordinato. Questa ci sostiene, e ci anima in questo momento a dire la verità, e a disprezzare l’odiosità alla quale sapiamo di andare incontro nel dirla". Quel Governatore si chiamava Luigi Brosi. Lo abbiamo già ricordato per la sua fuga da Rimini assieme al Vescovo Ferretti all’apparire delle armate napoleoniche.

La lettera di Martinelli, indirizzata a nome della nostra Muncipalità alla Giunta di Difesa della Cispadana, ha un antefatto: la comunicazione che la stessa Giunta di Difesa ha inviato da Cesena il 27 marzo sulla repressione degli insorti, attuata "dalle valore truppe francesi": "Alcune orde di malviventi infestavano in queste vicinanze le pubbliche strade, svaligiavano i passeggeri, entravano nelle terre e ne’ castelli, imponevano violentemente le più gravose contribuzioni a quei tranquilli ed onesti abitatori, e minacciavano furiosi perfino le stesse vostre città. […] La generosa Nazion Francese ha vendicato tutti questi torti fatti all’umanità, ed al pubblico diritto". Scriveva Martinelli in conclusione della sua risposta alla stessa Giunta di Difesa: "Venite dunque qua senza temere, poicché la strada fino a noi è già fin da jeri riaperta ai Passeggieri. A conforto vostro non meno, che di tutti quelli, che si fossero lasciati soverchiamente spaventare, vi partecipiamo che lo stesso Generale Sahuguet è partito questa mattina con una grossa colonna per assicurare da quella parte non meno le strade che la campagna. I Forusciti si sono gettati verso la Cattolica, ma si prendono tutte le misure per ripurgarli anco da quella parte". Nelle pagine di Nicola Giangi, l’episodio di Santarcangelo è narrato con poche parole: i ribelli sono stati sbaragliati dai soldati francesi proveniente da Cesena, che "hanno dato un piccolo Sacco, e amazati più del Paese che contrabandieri".

La Municipalità di Santarcangelo ringrazia quella di Rimini per aver interposto buoni uffici "presso i Comandanti Francesi per la salvezza" di quel paese: "L’umanità, la fratellanza, e la giustizia esiggevano da noi questo impegno", risponde Rimini [AP 503, 28.3.1797]. In nome di questi ideali a Rimini viene fucilato uno degli "insorti" di Cesenatico che il giorno 23 hanno tentato l’assalto ad un convoglio francese: va meglio ad un altro suo compagno d’avventura, un sacerdote, che riesce a fuggire e a rifugiarsi a Ravenna, dove l’Arcivescovo è riuscito a risparmiargli la pena capitale, con grande tripudio dell’Amministrazione centrale.

Rimini, dopo l’episodio di Santarcangelo definito "affare di mezz’ora", il 29 marzo pubblica un bando in cui si avvisa che "molti di quelli trà quelli della Campagna, e Monti che hanno prese le Armi sotto il titolo di battersi coi Francesi, e per mettere in allarme i Popoli si fanno lecito di trasmettersi in questa città disarmati ad oggetto di espiare, e di acquistare Aderenti alle loro male intenzioni" [SZ, ms. 1195, n. 69]. Si promettono sei scudi per le delazioni con "certa prova". Intanto, l’Amministrazione Centrale [SZ, ms. 1195, n. 35, 27.3.1797] espelle tutti i "forestieri che non contano il domicilio da cinque anni": hanno quindici giorni di tempo per andarsene. Sono esclusi gli "introduttori, o coltivatori di scienze, ed arti utili", e quanti "abbiano causa legittima per rimanervi". Chi entrerà in Emilia "senza necessaria causa", potrà dimorarvi d’ora in poi soltanto per tre giorni. L’Amministrazione Centrale, per altra vicenda accaduta a San Leo ("indennizzamento dell’equipaggio, che hanno perduto i due Ufficiali", come da certificato di Sahuguet), ammonisce la Municipalità riminese: "È di troppa importanza il tener contento questa gente [i francesi], che deve battersi con degli assassini" [AP 901, 1.4.1797].

 

 

 

3.3.Tavoleto brucia

I montanari messi in "precipitosa fuga" a Santarcangelo dalle truppe francesi dopo "una vicendevole orrida strage", si spargono "per altri luoghi del nostro distretto". "Il generale Sahuguet nel giorno 29 andò in traccia di loro con 800 fanti e 200 cavalli. Si portò alla Cattolica, a Morciano, a Montescudolo, a Mondaino, a Soliano, ma i montanari sediziosi si ritirano al Castello di Tavoleto ove si fecero forti aspettandoli a pié fermo", scrive il cronista Zanotti: "Giunti i Francesi in prossimità del Castello, attaccano furiosamente gli insorgenti, i quali ferocemente gli rispondono e si battono per qualche tempo più col coraggio che coll’esperimento dell’arte, ma conoscendo di non potersi sostenere ulteriormente, dopo un vicendevole e replicato scarico di fucileria con reciproca perdita, si danno a precipitosa fuga verso la più alta montagna" [GZ].

Secondo Guglielmo Albini di Saludecio, tutto sarebbe iniziato con il colpo di fucile da caccia sparato da "un solitario" contro un battaglione di fanteria, provocando la morte di un soldato: "La truppa esasperata entrò in paese, gridando "bruson Tavolon" e infatti l’incendiò e distrusse in gran parte". I francesi erano in ottocento fanti e duecento armati a cavallo, cioè il doppio complessivamente di quanto si pensa fossero gli insorti. Non potevano non vincere. Ma il generale Sahuguet non è contento dell’esito felice della spedizione. La guerra è la guerra, s’intende. Su questi princìpi non si può scherzare. Non paghi della gloria raggiunta, i francesi compiono una terribile infamia. Scrive ancora Zanotti: "Entrano allora vittoriosi i francesi nel paese, feriscono ed uccidono diversi di que’ miseri abitanti che vi ritrovano, saccheggiano il Castello e lo incendiano, rimanendo estinti fra le fiamme alcuni che non poterono salvarsi con la fuga, fra i quali vi perì miseramente un vecchio Prete paesano chiamato don Gregorio Giannini, che per indisposizione morbosa era giacente in letto da non poco tempo" [GZ]. Il parroco di Tavoleto, don Pietro Galluzzi, "che i Francesi ritenevano per seduttore de’ malintenzionati del Paese, e che credettero perito anch’esso nell’incendio", se ne era fuggito invece "prudentemente coi montanari". Con loro Galluzzi si mette a scorrere le campagne ed i paesi vicini, ponendoli a contribuzione, per semplici motivi di sussistenza.

Il generale Sahuguet il primo aprile pubblica a stampa una lettera sull’incendio di Tavoleto: "Sono stato obbligato di far marciare delle Truppe sopra Tavoleto per esterminare gli abitanti, e per bruciare il Villaggio. Cotesti miserabili ingannati dal loro curato erano discesi da qualche giorno armati nel piano, e dopo aver derubati, e messi in contribuzione gli Abitanti pacifici, che si ritrovavano sulla strada, che percorrevano, e nei Villaggi, nei quali passavano, e dopo aver forzati alcuni cittadini a seguirli, si erano stabiliti alla Cattolica, per assassinare, e svaligiare tutti i viaggiatori". Sahuguet racconta a modo suo gli avvenimenti. A Cattolica erano arrivati i "Forusciti" di cui parlano Martinelli e Zanotti, non vi erano scesi gli abitanti di Tavoleto: al generale francese fa comodo inventarsi una rivolta per giustificare l’uccisione di diciotto maschi, tra cui un bambino di circa nove anni. "Gli ho fatti inseguire", prosegue il testo di Sahuguet, "molti se sono stati uccisi a Morciano, e fortunatamente ho trovato gli altri al Tavoleto, dove si erano fortificati e trincerati; si sono difesi per un momento; ma ben presto gli assasini, e le loro tane sono stati ridotti in cenere". (Annota il cronista Nicola Giangi, il primo aprile, che ha fatto ritorno a Rimini la "truppa a piedi" che era andata a Tavoleto, "dopo aver "bruciato tal castello, dato sacco, e fregati li solevati". Da due giorni lo stesso Giangi, di professione commerciante, è uno dei sei cittadini che compongono il "Comitato di Pulizia sopra li Vagabondi"; i suoi colleghi più noti sono tre "ex nobili" Giovan Battista Agolanti, Lodovido Belmonti e Carlo Zollio.)

Sahuguet si dichiara sicuro che il curato Galluzzi "sia stato bruciato cogli altri": "L’ho fatto inutilmente cercare per farlo fucilare. Cotesto scellerato aveva fatta traviare tutta la sua parrocchia predicando al Popolo l’omicidio, e il saccheggio". Il curato Galluzzi, scrive Sahuguet, "aveva affisso sulla sua porta un proclama incendiario". I francesi sono sempre impareggiabilmente ironici. Dopo le fiamme che hanno appiccato a quel paese, spiegano che l’"incendiario" della situazione era stato quel curato, "riconosciuto in tutto il distretto, come il promotore de’ delitti, che si sono commessi". (Lo stesso curato Galluzzi avrebbe poi difeso sé ed i suoi concittadini, ricordando che essi, "poveretti", stavano "senza sospetto e inermi" quando sopraggiunsero "più di mille tra franti, dragoni francesi e sgherri della Romagna co’ cani mastini". A capo degli sgherri, "colla sciabla sfoderata", vi era un sacerdote nativo di Montefiore Conca, ma abitante a Rimini, don Vitali. Galluzzi discolpa i contadini di Tavoleto: "i Forastieri, per lo più gl’Emiliani, a nome di Tavoleto [h]anno commesso contro i Francesi molti saccheggi, ed omicidi, ma non il Popolo del Tavoleto".) Se la caccia che i francesi avevano data ai ribelli scesi a Santarcangelo e di lì messi in "precipitosa fuga", era riuscita alla fine ad approdare al vero colpevole di tutti i "delitti" commessi nel Riminese, cioè ad un povero prete di campagna, gli informatori prezzolati avevano svolto un lavoro eccellente. L’episodio di Tavoleto voleva essere una lezione esemplare di cui furono vittime degli innocenti. Per acquisire il titolo di nemico della patria in armi, basta poco: una critica, un’opinione non corrispondente a quella governativa, un rifiuto agli ordini dati. L’Amministrazione centrale il 10 marzo ha parlato chiaramente: ci sono "alcuni Sedizioni" che "abusando del vantaggio che godono pei talenti, e per i rapporti sopra alla classe degl’Idioti, e degl’Imbecilli, si fanno un barbaro piacere d’affacciar larve spaventevoli agli occhi di questi infelici, per condurli al più grande avvilimento, ed angustia" [SZ, ms. 1195, n. 61]. Chi si comporta così "è indegno del bel nome di Cittadino; è un tiranno deciso de’ suoi simili; è un dichiarato nemico del buon ordine, e della quiete de’ Popoli". Stiano dunque attenti "questi mal intenzionati", perché "l’attuale Governo" veglia su di loro, "ne conta i loro passi, ne tiene a calcolo qualunque loro movimento". I più attivi ed impegnati a "procurare l’adempimento delle Leggi, e lo stabilimento del nuovo Ordine, che va a ripristinare i diritti più sacri dell’Uomo", dovevano essere i preti.

In nome della "Libertà" che campeggiava in testa al documento, l’Amministrazione Centrale imponeva che nessuno "di qualsivoglia classe", parlasse, motteggiasse od operasse "né in pubblico né in privato contro le Superiori determinazioni, e le Autorità costituite"; né osasse appoggiare "lo spirito di contrario partito". L’ordine impartito è detto una "patriottica ed amorevole insinuazione, o sia necessaria e provvida misura". Chi si fosse ribellato ad esso, sarebbe stato punito "alle pene più rigorose cominate dalle Leggi contro i Sussuratori, e Faziosi, ed altre secondo la circostanza de’ casi". La Municipalità di Rimini avvisa il Pro-Vicario Baldini di trovare per Tavoleto "un Parroco saggio in luogo del prete Galluzzi, che si crede miseramente perito nell’incendio. Quand’anco non lo fosse non potrebbe egli sostenersi in un impiego sì male esercitato, né lo vuole il lodato Generale" Sahuguet [AP 503, 2.4.1797]. Il nuovo parroco di Tavoleto avrebbe dovuto essere "saggio", forse, come quello di Saludecio, don Domenico Antonio Franciosi che affrontò i francesi di ritorno verso Rimini con indosso i paramenti sacri, e seguìto da gran folla. "L’accorgimento, esemplato evidentemente su quello ben più celebre di San Leone I, che nel 452 fa retrocedere Attila a Peschiera, ottiene lo scopo, perché il comandante francese, ignaro (o lusingato?) di essere raccostato al re degli Unni, mostra di gradire l’omaggio e prosegue per Rimini senza colpo ferire" [Comandini, Tra due rivoluzioni, p. 116] Il Generale Sahuguet, per il provvedimento, si era rivolto erroneamente alla Diocesi di Urbino. Tavoleto dipendeva da Urbino per i corpi e non per le anime. Sahuguet si era generosamente adoprato per salvare le seconde, bruciando i primi. Sempre in nome della "Libertà".

Se "i montanari sediziosi" si erano ritirati al Castello di Tavoleto, era stato soltanto per un fatto di strategia militare: la posizione del paese sembrava la più adatta per nascondersi. Prima del loro arrivo, a Tavoleto non era successo nulla di particolare; ci si era preparati alla difesa, come in tutti gli altri paesi, per cercare di resistere alle requisizioni francesi. Si narra che il 16 febbraio ottocento contadini si fossero armati, alla notizia di quanto stava avvenendo contro i francesi nell’Urbinate. Il timore di un’imminente repressione armata aveva fatto aumentare l’allarme e, quindi ovviamente, anche le misure di protezione armata. A proposito dei fatti accaduti nell’Urbinate, chiediamo al lettore attenzione per un "supplemento d’indagine".

 

 

 

3.4. La lezione di Urbino

La Legazione di Urbino è sottosta ad occupazione francese dal 7 febbraio al 4 aprile 1797. La vicenda insurrezionale avvenuta nel suo territorio di Urbino nel marzo dello stesso anno, fu conseguente ad una crisi economica nata negli anni precedenti. Già nel 1794 il calo dei raccolti di grano aveva provocato, scrive Paolo Sorcinelli, "una drammatica situazione alimentare", ed aveva costretto soprattutto le comunità dell’interno ad acquistare il grano o di contrabbando o presso gli Ordini religiosi. Speculazioni dei grandi proprietari fondiari ed esportazioni fuori dello Stato, resero più difficili gli approvvigionamenti. Le località montane furono colpite gravemente dall’imposizione di nuove tasse sui suini. Tumulti scoppiarono contro la leva militare, assegnata nella misura dell’un per cento sulla popolazione reclutabile: la competenze venne affidata ai rappresentanti delle comunità, "in una parola alla loro discrezione", osserva Sorcinelli, ovvero ad "un vasto sistema di raccomandazioni [che] esentava da ogni rischio di arruolamento chi ne aveva le possibilità".

In un primo momento, i sostenitori dell’ancien règime, sia di parte aristocratica sia di parte clericale, strumentalizzarono "alla loro causa questo malcontento periferico, più di origine economica che politica". Successivamente "le popolazioni più indigenti e più sfruttate operarono delle lotte d’impronta anarcoide", diverse dai movimenti nostalgici della Santa Fede. Sorcinelli ricorda che ciò avvenne durante la rivolta dell’Urbinate del marzo ’97: sorta "dalla propaganda antifrancese degli ecclesiastici venne assumendo nel suo sviluppo il senso di una battaglia contro i detentori della ricchezza e quindi contro lo stesso clero". Quella rivolta rappresentò "una ferma opposizione" alle manovre economiche che affamavano i poveri e consolidavano la potenza dei grandi proprietari fondiari, e quindi anche "la richiesta di più equi rapporti distributivi della ricchezza". I proprietari ricattavano il potere politico, facendo notare che ogni limitazione ai loro guadagni (e quindi delle loro capacità di spesa), avrebbe potuto compromettere le attività artigianali e causare un aumento della disoccupazione cittadina, in un momento in cui "soprattutto l’edilizia attraversava una fase di stanca costringendo muratori e manovali ad emigrare".Secondo Sorcinelli, "l’insorgenza urbinate del ’97 va affiancata e non contrapposta alla lotta democratica condotta" sia dalla classe dirigente sia dalla borghesia, anche se essa mancò di "un’adeguata preparazione culturale e politica che la sorreggesse in un’uniformità di intenti".Qualche annotazione più cronachistica su Urbino (ricavata da un saggio di Sandro Petrucci), ci è utile per completare il discorso. Della pace di Tolentino firmata il 19 febbraio, non viene data notizia, così i francesi possono compiere tranquillamente le loro requisizioni. Il 22 febbraio dalla città ducale partono per Pesaro ottanta carri di prezioso bottino, condotti da altrettanti contadini precettati, e con cento buoi e cinquanta cavalli. Il giorno dopo arriva la notizia della rivolta di Urbania, ed il 24 scoppia l’insurrezione generale, come risposta ad altre pretese francesi per animali ed oggetti preziosi, avanzate con la minacci di saccheggio ed incendio della città.

L’agitazione popolare s’estende all’interno, anche nei paesi più piccoli. Da Rimini a Pesaro si trasferisce il generale Sahuguet, allo scopo di preparare una spedizione punitiva contro Urbino. Il 27 partono due colonne. La prima arriva sotto Urbino nella notte tra il 27 ed il 28 febbraio. La mattina dopo i francesi sono circondati: dalla città sparano contro di loro, dalla campagna li attaccano alle spalle. I francesi fuggono, non tralasciando di rubare tutto quanto è possibile. È l’ultimo giorno di carnevale. Fossombrone viene sottoposta a saccheggio. Urbino è bombardata, ma resiste. Il passaggio dei francesi lascia i tristi segni dei saccheggi, degli incendi e delle uccisioni. L’11 marzo tra Sahuguet ed i rappresentanti di Urbino è stipulata la pace. I francesi rinunciano ad ogni risarcimento per le perdite subìte. Il quadro sociale ed economico che emerge a proposito della situazione i Urbino, ha un’interessante rassomiglianza con la "riflessione" sul fenomeno delle insorgenze fatta da Nicola Martinelli, e già citata nel capitolo ottavo: "le Montagne da cui calano quei scelerati, sono scarsissime di viveri" [AP 503, 23.3]. Se ci si dimentica di questo particolare, ci sfugge il discorso sulle vere cause delle stesse insorgenze. Viene alla mente un passo celebre del "Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799" di Vincenzo Cuoco: "il popolo non si muove per raziocinio, ma per bisogno".

Nel già ricordato diario veronese del capitano Antonio Paravia, sotto la data del primo aprile 1797 si trova questa riflessione: "Intanto s’armano i villici senza sapere chi abbiano a combattere, ma delle migliaja, e migliaja di ragionevoli frà questi dichiararano, che allorche si trattasse di cimentarsi coi Francesi, non volevano prender l’armi". Facevano troppa paura le loro crudeltà. I romagnoli erano più coraggiosi dei veronesi? Certo è soltanto che, come scrive ancora Paravia, alla vigilia dell’invasione della Romagna [26 gennaio], i soldati francesi sentivano "assai volentieri" qualla spedizione nella nostra regione. E non a torto. Alla battaglia del Senio del 2 febbraio ’97, rovinosa per le truppe pontificie, assistono sedicimila contadini del Ravennate e del Forlivese, guidati dai loro preti e parroci: sono una bella ed inutile forza, rispetto ai tremila soldati del Papa. Anche se fossero scesi in battaglia con gli attrezzi rurali che costituivano le loro uniche armi, ben poco essi avrebbero potuto contro cannoni e cavalleria dei francesi. Paravia fa anche un discorso generale in un altro passo [4 aprile]: "i popoli d’Italia non sono molto disposti alla libertà". Come a dire che se si muovevano non lo facevano per motivi ideali. Infatti "tutto ciò che in Italia s’attacca alla causa della libertà popolare, o almeno alla fortuna del giorno, quella parte cioè della nazione che non hà molto a perdere, viene a rinforzare l’Armata francese, che […] è accresciuta di 15 a 20.000 uomini".

Alle notizie sull’insurrezione urbinate del ’97, aggiungiamo come antefatto un particolare di cronaca riminese relativa al 1764. La fonte è l’insospettabile Carlo Tonini. In quell’anno "una mano di contrabbandieri di Talamello, di Montebello, di Mercato Saraceno e d’altri luoghi, armati di archibugi e di pistole, calarono nel piano delle nostre campagne verso la villa di S. Giustina, e portatisi alle case de’ contadini più agiati, vollero quella provvisione di grano, che era ad essi rimasta pel sostentamento delle loro famiglie. Contro tale violenza, che avrebbe dovuto essere severamente punita, nulla quasi si fece […]. Di che ne seguì che questi, resi più baldi e arditi, proseguiranno a fare altre simili scorrerie in questo Territorio, cioè in S. Ermete, in S. Martino de’ Molini, in Vergiano, Spadarolo, ed altrove: e così molta parte della nostra campagna fu spogliata del proprio sostentamento. Ben pagavano costoro il prezzo dei grani che levavano" [Tonini, pp. 672-673]. Altri fatti di contrabbando si erano verificati nel 1786, con la celebre banda di Tommaso Rinaldini [ib., pp. 728-737].

Riandiamo al punto in cui avevamo lasciato la cronaca dei fatti accaduti nel Riminese all’inizio dell’aprile ’97.

 

 

 

3.5 Dopo la clemenza, la fucilazione

Mondaino chiede alla nostra Municipalità di intercedere presso il generale Sahuguet a favore dei suoi arrestati: "vi conviene pazientare, e dar tempo che siano esaminati", è la risposta [AP 503, 3.4.1797]. Anche per i prigionieri fatti a Santarcangelo si è in fase istruttoria [ib.]. Per dimostrare tutta la propria buona volontà verso i francesi la Municipalità di Mondaino "ha recuperati cinquantasei capi bovini, che ha già trasportati" e consegnati a Rimino, assieme a parte della contribuzione dovuta, domandando il perdono "a tutti quelli che non fossero Capi di Complotti del proprio Comune" [AP 503, 4.4.1797]. Un "bue furioso" che da Urbino veniva condotto a Mondaino, è ucciso dai soldati. La Municipalità di Rimini ordina a quella di Mondaino di "esitar la pelle" dell’animale, da produrre al generale Sahuguet a giustificazione dell’accaduto: "In quanto ai sollevati del vostro Territorio", si legge nella stessa lettera [AP 503, 11.4.1797], "siccome non è a noi noto il grado della rispettiva loro reità, vi esortiamo a raccomandare per voi stessi, o per mezzo del Parroco al suddetto Generale quelli, che crederete meritino il perdono; Egli l’ha promesso a chi pentito rientra in se stesso, e si unisca ai buoni". Qualche giorno dopo, la Guardia Civica di Mondaino spedisce a Rimini Bonifazio Giaffoni, "turbatore della pubblica quiete", che la nostra Municipalità gira al Comandante Lapisse. [AP 503, 15.4.1797]

L’arciprete Migliarini di Petrella Guidi dichiara la fedeltà dei suoi parrocchiani alla Repubblica francese, e la "loro costanza contro le seduzioni dei convicini sollevati, onde meritare il debito riguardo dall’armata destinata a domare gl’Insorgenti". Risponde la Municipalità di Rimini: non temete che i francesi "confondano i Rei cogli Innocenti. Noi li preverremo in vostro favore, come la giustizia esige" [AP 503, 4.4.1797]. A Gemmano, i "giovanastri, che sconsigliatamente si erano uniti coi sollevati Montanari", si pentono: Rimini promette di procurare loro il perdono, dato che si è convinti "della sincerità de’ sentimenti" espressi, però suggerisce di tenerli ancora "in osservazione", per assicurarsi vieppiù "del loro pentimento, e della nuova promessa condotta" [AP 503, 5.4]. Anche dall’Inferno intercedono perdono, ottenendolo per "quelli, che sedotti dai Malviventi ritorneranno, e si manterranno nella obbedienza" [AP 503, 8.4.1797].

Il generale Victor Perin, "finalmente persuaso dell’innocenza del Popolo di Cattolica pei supposti delitti", gli accorda "il perdono" [AP 503, 6.4.1797]. Ma la conclusione della vicenda è convulso. Perin in un primo momento intima "che vi erano dei delitti da espiarvi". A parere della Municipalità riminese, "l’impostura aveva calunniati quegl’infelici. Volevansi attribuire a loro tutti gli eccessi commessi dagli Assassini scesi dalle Montagne di Urbino" [AP 503, 8..1797]. Come avrebbero potuto "poche decine di persone disarmate" resistere "a qualche centinajo di Masnadieri consumati nelle scelleragini, e avezzi al sangue ed alle stragi"? Anche i venticinque dragoni francesi, dovettero ritirarsi. "La crudele alternativa, a cui era condannata questa Gente disgraziata si restringeva nientemeno che pagare un’emenda di due mila scudi in poche ore, o soffrire che i miserabili asili della loro mendicità fossero consumati dalle fiamme", come a Tavoleto. "Impossibilitati questi Infelici al pagamento tremarono di vedere ad ogni momento realizzata la minaccia. Corsero frà le braccia della Municipalità di Rimino. Essa fece un dover di far conoscere al Generale Francese l’ingiustizia della dimanda. Esibì la vita di un Cittadino in Ostaggio finché ne avesse fatta costare la maggiore evidenza."

Dopo la "liberazione del Borgo di Cattolica dal minacciato incendio", fa sapere la Giunta di Difesa, lo stesso generale Perin asseriva di esser obbligato "a procurare in Santarcangelo una indennizzazione ai suoi soldati, che avevano colà perduto i loro effetti" [AP 901, 6.4.1797]. Questa "indennizzazione" in un primo tempo è richiesta alla Municipalità di Rimini, ma il presidente Martinelli non cede a Perin, il quale si si rifà della sconfitta saccheggiando appunto Santarcangelo. Martinelli scrive al Cittadino Luosi presidente della Giunta di Difesa: "Ci ha penetrato l’animo della disgrazia, che vi è piaciuto comunicarci, della Terra di Santarcangelo. Già eravamo disposti a rappresentar, e giustificare al Generale Bonaparte altre simili violenze dell’Autore di quella. Ora che vi vediamo così interessato pel sollievo di quella innocente Comunità, a voi ne rimettiamo la rimostranza, perché possiate avvalorarla presso al Generale medesimo" [AP 503, 6.4.1797].

Martinelli si riferisce alla epistola inviatagli da Luosi sui "disastri della Terra di Santarcangelo": "È veramente degna di compassione, e del più vivo interesse la sorte sventurata du quegli onesti, e pacifici abitanti. Dopo di aver gl’infelici sofferta una invasione da parte degl’insorgenti, dopo di esser stati esposti a tutti gli orrori, e a tutte le angosce di una sì penosa, e terribile situazione, a cui non era loro possibile di far fronte, eccoli quest’oggi vittime di un più crudele disastro" [AP 901, 6.4.1797]. In seguito a questo "disgustoso avvenimento", la Giunta s’impegnerà a favore di quella Terra [AP 901, 8.4.1797]. "I delitti di questo Paese erano uguali a quelli" di Cattolica, "ma esso fu più disgraziato" scrive Martinelli a Luosi: "Il Generale nel suo passaggio lo fece circondare dalle sue Truppe, e colle minacce di morte, e d’incendio gli riuscì di esigere il valore di due mila scudi" [AP 503, 8. 3.1797]. Martinelli non accenna alla richiesta avanzata (senza soddisfazione) da Perin a Rimini, consapevole che rivelare l’episodio significava assumersi la responsabilità morale dell’accaduto. Nello stesso tempo, pare che Martinelli si senta fortemente impegnato a difendere l’innocenza di Santarcangelo, proprio perché essa fu vittima anche dell’atteggiamento riminese, peraltro incolpevole, verso le pretese dei repubblicani. La lettera chiede che a Perin siano esposte le "doglianze" della Municipalità: "Se non si prende qualche espediente, onde ovviare in avvenire simili incontri, e riparare in qualche modo ai passati, noi saremo ben presto impossibilitati a contenere i Popoli, che siamo in dovere di governare. Possiamo ben dirgli che s’astengano dal commettere dei delitti; ma non li persuaderemo mai che debbano sospettare la pena di quelli, che non hanno commessi". La penna arguta di Martinelli scansa timori reverenziali, e racconta la verità. I francesi stanno tirando troppo la corda.

Gli stessi concetti sono espressi nella lettera al generale Sahuguet che denuncia l’operato di Victor Perin per "l’ingiustizia tentata sull’innocente Popolo del nostro Borgo di Cattolica, e commessa poi sull’altro egualmente imeritevole della Terra di Santarcangelo". Il "procedere contro gl’innocenti, ci ha vivamente commossi", spiega Martinelli a Sahuguet il quale, per primo, sa che Cattolica e Santarcangelo non c’entrano con gl’"insorgenti".

Mentre l’Amministrazione Centrale invita la nostra Municipalità a provvedere «a certi disordini di Monte Scudo» con le misure necessarie a «sì fatti inconvenienti» [AP 901, 11.4.1797], la Giunta di Difesa dà il cessato allarme. L’insorgenza «delle vicine Montagne» è ormai passata, e se ne può tirare un bilancio politico: «l’insurrezione di qualche centinaio di persone non può stabilire una regola a fronte della sommissione e del consenso universale di tutto il resto della Nazione». Montetiffi e Montebello «hanno deposto le armi, e chieggono il perdono»: «quelli Abitatori erano appunto i più terribili, e implacabili». Parole sante, infatti si è colpito Tavoleto. «La loro resipiscenza contribuirà non poco a restituire alle pubbliche strade la sicurezza, la pace, e la tranquillità agli abitanti della provincia» [AP 901, 12.4.1797].

La Municipalità di Rimini il 15 aprile [AP 503] spiega all’Amministrazione Centrale di non aver potuto prendere "veruna misura sui disordini, ed abusi" di Monte Scudolo perché non le è stata "rimessa la lettera, che li descrive". Inoltre fa osservare che "in detta Terra non si è ancora da Noi organizzata legalmente la Municipalità, stante le passate sollevazioni de’ Montanari", assicurando però di volerla stabilire "quanto prima, in oggi, che sentiamo ben sicure le strade, e sedate le insorgenze". (Al "tempo della nota insorgenza" la Municipalità di "Monte Scudolo", scriverà l’Amministrazione Centrale a quella di Rimini il 20 maggio [AP 901], rimase "danneggiata di scudi 105".) Al Comandante la Piazza la stessa Municipalità di Rimini chiede che la Guardia Civica si accerti se un "certo Antonio Morolli sopranominato Pilicino abitante fuori della Porta di S. Andrea al Molinaccio sia in corrispondenza nottetempo con alcuno dei Forusciti Montanari, ed abbia nascoste in casa della armi" [AP 503, 14.4.1797].

A metà aprile a Cesena scendono "i deputati della Montagna già in sommossa per istigazione de’ Contrabbandieri, che domandano la Pace" al comandante della Piazza. Il quale gliel’accorda dopo averli trattenuti a pranzo ("giacché è spesato dalla Municipalità"): "Non potete credere quale meraviglia cagioni in quei villani questo tratto di gentilezza", scrive il cronista Fabbri, ricordando che "certi loro Preti che li istigavano", sono andati "a chiedere perdono del loro traviamento, perché non sanno il Vangelo". Il 13 aprile, lo stesso giorno del ritorno del ritorno di mons. Ferretti, sono fucilati vicino ai fossi della Fortezza di Rimini (la Rocca malatestiana) tre soldati cispadani [Gangi].

La Municipalità di Rimini il 15 aprile [AP 503], per "allontanare quanto si può" dai propri concittadini "qualunque causa di malcontento", riferisce al generale Sahuguet sull’"allarme, che si è sparso ne medesimi dalla voce che corre, che il Commissario Fortis ricerchi la nota di quelli che hanno offerto al Papa dei sussidj gratuiti, e degli altri, che lo hanno servito Volontarj nell’armamento, che aveva intrapreso contro la Nazione Francese, per impor loro una multa". L’editto pubblicato da Napoleone "riguardava solamente i Principi Romani", sottolinea la nostra Municipalità, aggiungendo: "chi obbediva non solo, ma preveniva il genio del governo nel tempo, che questo era riconosciuto dai Contribuenti, e da tutte le potenze come legittimo, non può essere riguardato come delinquente".

Il 20 aprile è apparso un ennesimo proclama dell’Amministrazione Centrale contro chi "semina la divisione nel Popolo, lo inganna, lo tradisce, allontana da lui tutti i beni": costui "sarà da noi allontanato, e punito come nemico della Patria, e peste della Repubblica" [SZ, ms. 1195, n. 86]. Nello stesso giorno, con altro foglio, nuovamente si garantisce la libertà religiosa: "Chiunque non porterà la debita riverenza alle prattiche Religiose, e ai luoghi destinati ad esercitare, sarà punito con la pena conveniente ai perturbatori della pubblica tranquillità" [ib., n. 85].

"Sahuguet Generale di Divisione, Comandante la Romagna, e la Marca di Ancona" il 23 aprile concede il promesso perdono a "tutti quelli che hanno avuto parte nelle passate sedizioni, e tumulti, tanto nel Territorio d’Urbino quanto in alcuni Villaggi dell’Emilia" per i "passati eccessi" [ib., n. 89]. Quel perdono è un atto di clemenza, non di giustizia. Con esso l’autorità costituita rinuncia ad individuare i colpevoli di gravi reati, come gli omicidi, che in pratica sono equiparati ai semplici gesti di rivolta contro l’invasore e le prevaricazioni dei militari. Nell’esercizio del potere repubblicano non si afferma una linea democratica capace di rispettare la legge e le differenze sostanziali sul piano penale, bensì trionfa un atteggiamento demagogico che ha due volti: da una parte la repressione feroce come a Tavoleto, dall’altra questi atti di clemenza che servono soltanto ad attirare simpatie altrimenti difficilmente conquistabili. Quel perdono in apparenza chiude i conti con il passato. Ma non sarà così.

Il 30 aprile ("11 Fiorile Anno quinto della Repubblica Francese") il Consiglio di guerra radunato in Rimini pubblica questa sentenza [ib., n. 94]: il contadino Francesco Raschi di Santarcangelo, di anni 26, reo confesso dell’uccisione di due "cittadini militanti sotto la Francia", viene condannato a morte. I suoi complici, perché sedotti da lui, ottengono le circostanze attenuanti che riducono la pena a "dieci anni di ferri": sono i santarcangiolesi Luigi Mazzotti (32 anni) e Giuseppe Protti, (18), ed il riminese Giuseppe Martignoni (46, abitante però a Santarcangelo). Sono tutti contadini. Raschi ha fatto loro credere che con l’oro avrebbe ottenuto di "arrestar il rigor delle leggi". La fucilazione di Raschi avviene "sul Corso" di Rimini il primo maggio [Giangi].

 

 Vai

Cap. 1. L’invasione del 1796

Cap. 2. L’occupazione del 1797

Cap. 4. Politica e religione

Per le sigle e la nota bibliografica

 

All'indice * Per il Rimino * Posta

Questo è l'unico sito con pagine aggiornate sull'Accademia dei Filopatridi e sul Centro studi intestato a Giovanni Cristofano Amaduzzi di Savignano sul Rubicone: Storia dell'Accademia dei Filopatridi, notizie sull'Accademia. Centro amaduzziano.

© riministoria - il rimino - antonio montanari - rimini - 31.12.2013