Riministoria© Antonio Montanari

PLEBE BRIGANTI RIBELLI

La Romagna nel 1796-97 e l'invasione di Napoleone Bonaparte

di Antonio Montanari

Un'opera inedita in versione integrale

Capitolo primo: L’invasione del 1796

 

1.1 Giugno ’96: "Si minaccia il Sacco generale"

"Ognuno continui tranquillo nell’esercizio de’ proprj impieghi, e mestieri, come se non vi fossero truppe": il cardinal Legato di Bologna Ippolito Vincenti rassicura con queste parole la popolazione, il 19 giugno 1796, appena conclusasi l’occupazione francese della città che era iniziata il giorno precedente. All’indomani Bonaparte lo scaccia. Il 21 maggio, una settimana dopo la presa di Milano, il Legato aveva ordinato alle genti del contado che le truppe nemiche fossero "per ogni maniera rispettate sotto rigorose pene". Bologna è ancora scossa dal martirio dello studente piemontese di teologia Giuseppe De Rolandis, accusato di attività sovversiva e condannato alla forca. La sua esecuzione, avvenuta il 23 aprile, è stata straziante. L’imperizia del boia lo ha obbligato ad una crudele agonia, mentre la folla si gettava contro il palco e sfondava i cordoni dei gendarmi: "È la prima rivolta di una plebe già "giacobina", se non per ragionamento, quanto meno per sentimento" [Evangelisti, p. 39]. De Rolandis aveva distribuito dei volantini di critica al governo pontificio, ideati da Luigi Zamboni, figlio di due commercianti, trovato impiccato nella propria cella il 17 agosto ’95 mentre era in attesa di giudizio. Quando fu impiccato De Rolandis, ad una forca vicina era stato appeso il ritratto di Zamboni cadavere. Il 23 giugno a Firenze è stipulato l’armistizio tra Francia e Stato della Chiesa. Restano sotto la dominazione napoleonica le Legazioni di Bologna e Ferrara. Tra 24 e 28 giugno, le truppe repubblicane, violando la tregua, entrano a Faenza, Ravenna e Forlì senza incontrare la minima resistenza. Di soldati papalini, nemmeno l’ombra. L’invasione vuole costringere il Papa ad una sollecita firma del trattato di pace.

Il 24 giugno la magistratura forlivese ordina di non "opporsi, né armati né disarmati al passaggio dei francesi", di non infastidirli e di non recar loro alcun disturbo, anzi di accoglierli con "affetto", sempre sotto la minaccia delle "pene più rigorose inflittive delle nostre leggi veglianti", compresa la condanna a morte. Qualcuno si ribella. Come responsabili della sommossa sono arrestati un capomastro muratore, un canepino e don Pietro Valenti, mansionario della cattedrale. La cattura di don Valenti è movimentata: al suo colpo di pistola, la Forza risponde con il fuoco. Il sacerdote fugge in mutande a Terra del Sole, nello Stato di Toscana, dove viene preso il giorno seguente. I tre di Forlì sono poi liberati a Bologna dai francesi che vogliono accaparrarsi "gli animi di queste popolazioni". A Ravenna, lo stesso 24, "si suscita un terribile tumulto". I contadini giunti per deporre le armi, sono "sollevati" dal bandito Alessandro Perugia che li istiga ad uccidere i pochi francesi presenti in città. A Savignano c’è un "falso allarme", scrive il cronista Nicola Giangi: si sparge la notizia che la cavalleria francese aveva cominciato ad inseguire i soldati del Papa: gli abitanti di quel borgo si mettono "a fuggire verso Rimini, e Carpegna", spaventando tanti altri che scappano "e per monti e in mare" [Giangi].

L’allarme non doveva essere tanto falso se nello stesso giorno il cardinal Legato di Romagna, il milanese Antonio Dugnani, avvisa il governatore di Rimini avvocato Luigi Brosi, "d’esser imminente l’avvanzamento" di un corpo di truppe francesi, da accogliere "in adempimento delle sovrane intenzioni di Nostro Santità", provvedendolo cioè "di alloggi, di viveri, e di foraggi". Il Legato sollecita pure il governatore ad adoprarsi per "mantenere il buon ordine e la conservazione della pubblica tranquillità", rassicurando che "il contegno delle Truppe Francesi, che si sono innoltratte in questa Provincia è tale, che non si deve assolutamente costernare veruna Popolazione" [AP 496]. Contemporaneamente la Municipalità riminese chiede lumi al cardinal Dugnani su come comportarsi: l’invasione straniera ed il ritiro delle truppe pontificie dalla Romagna hanno "prodotto in tutti i Concittadini un sordo mormorio che indica l’universale timore, e costernazione, dimodocche si è fino durata fatica impedire l’emigrazione di molti degli abitanti del Porto. Questa costernazione chiaramente ci manifesta, che le provvidenze da noi date fin qui non contentano abbastanza la popolazione, e ci fa conoscere necessari altri più efficaci provvedimenti" [AP 502, 24.6.1796]. Come ad esempio l’invio di una "Deputazione ai Comandanti Francesi per renderli con questo passo più umani, più dolci, più premurosi col nostro Popolo" [ib.]. La Municipalità spiega al Legato che la proposta non intende essere "un atto di deffezione dalla S. Sede", aggiungendo che si chiede la di lui approvazione per "tutto quello che faremo, o saremo per fare in così critica, e dolorosa circostanza": "desideriamo anzi, che per questo passo non divenga giammai per verso Vostra Eminenza sospetta la Fedeltà, l’Amore, l’attaccamento di Noi, e di questo Popolo per il nostro Sovrano" [ib.].

All’apparire dei francesi in Emilia, nessuno si è preoccupato di dare ordini alle nostre città: "Nelle attuali critiche circostanze siamo privi fin ora d’Istruzioni per parte dei Signori Supperiori, né per ciò abbiamo potuto fissare verun piano che riguardi la pubblica salvezza e tranquillità". È la lettera inviata il 21 giugno dalla Municipalità di Rimini ai Gonfalonieri ed ai Priori di Pesaro che avevano chiesto chiarimenti: "Quello solo che abbiamo creduto non dovere omettere è di procurare l’espulsione dalla Città nostra de vagabondi esteri mediante una Patulia di Soldati della prima Compagnia dell’infanteria, e la provvista della maggior quantità di farina, che sia stata possibile" [AP 502, 21.6.1796].

Sempre il 24 giugno il vescovo di Rimini mons. Vincenzo Ferretti indirizza a tutti i parroci della diocesi una circolare, con la quale ordina loro di esortare i fedeli alla quiete ed alla rassegnazione. L’ordine è venuto dal Legato, con una lettera inviatagli attraverso il governatore: bisognava "opportunamente inculcare negli Abitanti, e di Città, e di Campagna il più quieto, e regolato contegno" [AP 496, 23.6.1796]. Sulla stessa lunghezza d’onda, due giorni dopo [AP 999], la Municipalità raccomanda "al Popolo di rimanere quieto, e di conservare tutto il buon’ordine per non esser egli stesso responsabile di quanto potrebbe avvenire, e per di lui colpa, di cui si esigerebbe la più rigorosa ragione". Se è già un’impresa difficile rimediare i rifornimenti per i militari, del tutto impossibile appare quella di convincere i fedeli, anzi i sudditi, che per loro non si profila nessun pericolo. La cacciata del Legato da Ravenna, assieme al suo vice, dimostra che le ipotesi ottimistiche sono chimere diffuse per ingannare la pubblica opinione.

Il generale divisionale Pierre-François-Charles Augerau scende in Romagna il 25 giugno ed incontra a Faenza il cardinal Dugnani, pubblicando "la Pace". Dugnani ed il suo vice Giustiniani il giorno dopo sono costretti ad andarsene "da un semplice uffiziale", come scrive un cronista di Cervia sotto il titolo emblematico di "Memoria luttuosa a’ Posteri" [FOSCHI]. Augerau è figlio di un domestico, non ha ancora trentanove anni: in poco più di dodici mesi, nel ’92, è passato dallo stato di volontario al grado di generale. Ben rappresenta l’ambizione e l’orgoglio delle armi francesi in Italia. Il Legato Dugnani domenica 26 giugno sosta a Rimini, al convento de’ Servi, nel viaggio diretto a Pesaro. Prima di esser allontanato dalla sua sede, ha convocato a Ravenna le delegazioni delle singole città per "concertare" quanto necessario in quelle infelici contingenze. Nella sua lettera alla Municipalità di Rimini, datata 25 giugno [AP 880], Dugnani ricorda di aver avuto quella stessa mattina "una lunga conferenza" con Auguerau, il quale gli ha "dichiarate le sue idee intorno a ciò che gli bisogna in questa Provincia". Il Legato sottolinea che il "termine prefisso dal suddetto Generale è ristrettissimo".

Auguerau cerca di conquistare la Romagna non con le armi, ma con una specie di referendum: preferite vivere con la Francia o con il Papa? È un viaggio inutile, come osserva Antonio Bianchi: "Il generale francese propose la libertà di sottrarsi dal regime pontificio sotto la protezione della Francia; i deputati riposero che giacché gli veniva accordata la libertà di eleggere, amavano di continuare a vivere sotto il governo pontificio a scanso degl’indispensabili inconvenienti a cui si sarebbe andato incontro con un cambiamento di governo" [A. Bianchi, Storia di Rimino, p. 169].

Il 26 giugno [AP 999] la Municipalità riminese, garantendo che le truppe francesi hanno finora rispettato religione, proprietà e persone, raccomanda "al Popolo di rimanere quieto, e di conservare tutto il buon’ordine per non esser egli stesso responsabile di quanto potesse avvenire, e per di lui colpa, di cui si esigerebbe la più rigorosa ragione". Il 27 giugno anche a Rimini appare il bando che ordina di deporre le armi da fuoco e di non indossare divise militari, per evitare minacciose accensioni di fiamma. Inizia ad andar per la città la Guardia civica, "composta di Nobili, Cittadini, Mercanti e Persone Prove": sono due picchetti di cinque persone l’uno, che "guardano" il palazzo pubblico, mantenendo quieto il popolo perché non nascano sussurri e sollevazioni [Giangi]. Il pagamento della contribuzione imposta dai francesi ha eccitato gli animi: "Sediziosi, e Prepotenti" agitano la pubblica quiete, soprattutto nella campagna, tra fine giugno ed inizio luglio 1796. A Rimini cominciano a manifestarsi quelli che Carlo Tonini [Storia di Rimini, VI, l, p. 779] chiama "i principii di una deplorevole insurrezione trattenuta soltanto dallo spettro orribile e minaccioso delle sopravvegnenti schiere di Francia", mentre la campagna si trova "esposta a grande pericolo per la moltitudine dei soldati dispersi, dei Birri fuori di posto, e di vagabondi" [AP 502, 28.6.1796].

In base all’armistizio, il governo pontificio (cioè il suo popolo) deve sborsare in moneta francese una contribuzione complessiva di ventuno milioni di lire, ordinata con bando della "Congregazione Provinciale" del 27 giugno. Per il bene della pace. E senza tante storie, come precisa la nostra Municipalità nella "Risposta ai dubbi" dei Priori di Monte Scudolo: "Ora non è tempo di sorpresa, ma di azione. Si minaccia da un’Armata vittoriosa il Sacco generale se immediatamente non si contribuisce quanto essa dimanda" [AP 502, 30.6.1796]. Non tutti gradiscono. La campagna appare "infestata da Forusciti", comunica il 30 giugno la Municipalità di Rimini al dottor Clitefonte Genghini di San Savino [AP 502]. Nello stesso giorno giunge a Rimini la "nova" che i francesi libereranno la Romagna "subito che avranno avuto la contribuzione": sono 480 mila scudi in "Ori, Argenti, e moneta di Banco" per tutta la provincia. Rimini è resa responsabile anche della raccolta nei luoghi circostanti, annessi amministrativamente. La cifra totale da raggiungere è di 114 mila scudi, dei quali 38 mila per la sola città. Per tutta la nostra diocesi, sono invece 57 mila [Giangi]. Sempre il 30 giugno arriva la notizia "di una insurrezione popolare a Cesena la quale dicesi vada dilatandosi nei convicini Paesi", come si legge nell’epistola indirizzata dalla nostra Municipalità all’abate Giambattista Martelli di Ravenna [AP 502]. Con la medesima data è anche la lettera della Municipalità al signor Deschamps, Commissario della Repubblica francese in Romagna, ove nel post scriptum gli si riferisce di "un avviso pervenutoci sul momento, di una insurrezione seguita a Cesena". Il primo luglio parte da Rimini alla volta del Gonfaloniere di Pesaro un "Avviso di generale tumultuazione": "Ieri sera giunsero in questa città sopra venti persone di Forlì che si credono quelle che hanno eccitato il tumulto popolare in Cesena. Qui pare cominciavano a sollevare la Gente: ma noi col mezzo della Guardia Civica ne li abbiamo espulsi, per non aver come ritenerli". Molti di quegli insorti si sono incamminati verso Pesaro.

 

1.2 Il "grandissimo disturbo" di Cesena

A Cesena il 29 giugno è avvenuto un "grandissimo disturbo" per una sommossa di sessanta "Patriotti" che "volevano impedire al pubblico a ciò non dassero la contribuzione alli Francesi", consistente in quarantamila scudi di denaro. Soltanto alla sera, al secondo tentativo, al vescovo di Cesena riesce di fermare i rivoltosi: "i cattivi deposero le armi. Alcuni forastieri, e fra questi molti forlivesi, erano venuti in Cesena chiamati dai suddetti sollevati quali fu gran fatica a rimandarli alla loro terra" [Sassi]. I "vagabondi" di Forlì (che "dissero essere stati chiamati da’ Cesenati pazzi"), erano venticinque: volevano le armi per combattere i francesi, poi accettarono di farsi accompagnare fuori città dopo aver ricevuto una "sovvenzione" [Fabbri]. A guidare la rivolta ci sono il nobile Francesco Ceccaroni ed il calzolaro Giovanni Giulianini. Quest’ultimo è arrestato il 30 giugno come uno dei responsabili del tentato omicidio dell’aiutante generale Giovanni Antonio Verdier e di un altro ufficiale francese. Costoro sono già stati rilasciati quando il generale Augerau minaccia il sacco di Cesena per ottenerne la liberazione. Lo stesso giorno penetrano a Cesena "varj contrabandieri" che "con poca fatica" si lasciano persuadere a recedere dai loro propositi, "e non fecero alcun rumore, e le cose erano calmate" [Fiandrini]. Per la paura dell’imminente arrivo dell’armata francese, "una gran parte de’ buoni cittadini si darono alla fuga dalla città andandosi a ricoverarsi sui più alti monti", imitati dai villani che abbandonarono la cura dei campi e scapparono "chi da una parte chi dall’altra". Tutta colpa dei giacobini italiani e delle loro "secrete intelligenze" con il nemico, secondo don Gioacchino Sassi.

Chi è rimasto in città se ne va all’arrivo dei soldati di Napoleone il 2 luglio, seguendo l’esempio del rifugio "sulle più alte montagne". Un mugnaio "fuggendo precipitosamente schioppò sulla strada di San Marino". Tra quei forastieri venuti a Cesena da Forlì a dar manforte ai rivoltosi gridando "Armatevi, in nome di Maria", c’è anche un giovanotto, detto Sabolone: il suo cognome è Veroli. E proprio da Forlì partono le ricerche per catturarlo come perturbatore della pubblica tranquillità: "per comando de’ Signori Commissarj Francesi", i gonfalonieri e governatori di quella città scrivono il primo luglio ai "Signori Conservatori" di Cesena, i quali chiedono aiuto ai consoli di Rimini, invitandoli ad interessare pure i pubblici rappresentanti di Cattolica, Pesaro, Fano, Senigallia ed Ancona.

La Municipalità di Rimini spiega ai colleghi cesenati: sono arrivate "venti persone unite da Forlì alle quali la nostra Guardia Civica fece arresto per la pubblica tranquillità. Tutta notte si sono tenute dalla medesima in custodia: poscia questa mattina sono state scortate fuori della Porta Romana" (arco di Augusto). "Giunto a noi qualche sospetto del loro carattere sedizioso", prosegue la lettera, "ne abbiamo sùbito per staffetta avvanzato l’avviso" a Pesaro, "per le opportune misure". Circa Sabolone, "che verisimilmente era in detta Compagnia" di ribelli cesenati, si garantisce che se fosse stato trovato nel nostro distretto, sarebbe stato arrestato e consegnato [AP 502, 1.7.1796]. Contemporaneamente la Municipalità di Rimini avverte mons. Saluzzo, Presidente di Urbino, della caccia data a Sabolone, "uomo di statura alta, di faccia bronzina con camicioletta rossa". Nel ’99 Sabolone si proclamerà "direttore generale dell’insurrezione della Romagna". Il 2 luglio a Rimini è tratto in arresto dalla Guardia Civica "un altro sogetto armato" appena arrivato in città. Copia del suo verbale di interrogatorio è immediatamente inviato ai conservatori di Cesena [AP 502, 2.7. 1796], ai quali poi si riferisce che non hanno sortito alcun effetto le ricerche fatte a Pesaro e ad Urbino per la cattura di Sabolone [AP 502, 3.7.1796].

 

1.3 Luglio ’96, oro e soldi allo straniero

Il 29 giugno al Monte di Pietà di Rimini "riscuotono in tanta folla che non si è mai più veduta per pavura che li Francesi portano via tutto" [Giangi]. È già accaduto nelle altre città romagnole che gli invasori facessero man bassa dei pegni. Il popolo può riscattare soltanto quelli leggeri: per i più consistenti, non giungendo le sue forze alle somme necessarie per riaverli, chiede un aiuto pubblico. I consoli di Rimini li incorporano nella contribuzione francese, al solito frutto del cinque per cento. A Forlì, invece, i responsabili del Sacro Monte concedono la riscossione dei pegni "appena per la metà del debito contratto". A Faenza ed a Ravenna i francesi restituiscono gratuitamente gli effetti "che non servono al lusso" e che appartengono ai poveri. La razzìa delle gioie, degli argenti e degli ori fatta a Forlì ha uno strascico a Cesena, dove i commissari francesi sono "da un certo numero di quella popolazione insultati seriamente".

Il 3 luglio a Cesena è versata ai francesi in ori, argenti e moneta la prima rata della contribuzione riminese, 63.822 scudi contro i 114 mila richiesti: è quanto si è "potuto in tanta angustia di tempo, e nella comune miseria estorcere" da cittadini e territoriali [AP 502, 2.7.1796]. L’Amministrazione centrale il 27 giugno ha avvertito tutti i possidenti di consegnare immediatamente ori ed argenti, e di pagare le somme per loro stabilite. Nel caso di persone morose o negligenti, le magistrature locali avrebbero deciso "riparti provisionali sopra i loro Cittadini, e Territoriali nella maniera" ritenuta opportuna "per soddisfare alla imposta Tassa, e usare della via di fatto, e della forza per detta esigenza". I "Pubblici rappresentanti di Rimino" hanno intimato agli interessati di versare, entro tre giorni dal ricevimento della lettera di notifica, la somma richiesta "corrispondente all’Estimo" esistente nel bargellato "ed alla totalità della stessa Contribuzione". (Il bargellato era costituito da "ville", dette anche "fondi", come ad esempio Bellaria, Santa Cristina o Scolca.) Il 28 giugno il Segretario municipale Niccol’Antonio Franchi ha notificato ai "generosi Cittadini" che, per la consegna degli ori e degli argenti richiesti dai francesi, la comunità riminese avrebbe corrisposto il frutto del cinque per cento [FGSR].

Il 2 luglio [AP 502] i consoli riminesi comunicano ai priori di Albereto: "L’oggetto primario, che si deve aver in città nell’esigere la Contribuzione, è quello di non turbare i poveri ne loro tugurj per costringer solo colla forza, quando il bisogno lo richiede le persone più facoltose della Comunità. Siamo però [perciò] rimasti scandalizzati nel sentire che le SS. VV. abbiano usata l’inumanità di levare alle povere Donne il poco oro di loro ornamento, e che abbiano pure portato via le Fibbie ai poveri contadini". Si ordina, su autorizzazione francese, la restituzione di questi ori e di "altre cose che fossero state levate ai Poveri della loro Comunità": soltanto i "Possidenti" debbono provvedere alla contribuzione. Il 3 luglio i consoli riminesi scrivono [ib.] ai priori di San Giovanni in Marignano: "Siamo al momento di aver già i Francesi, e di vedere stabilito nel Governo l’Eminentissimo Legato, dagli uni, o dall’altro de’ quali verrà sicuramente punito chi turba la pubblica quiete, e non si presta all’obbedienza delle Pubbliche Rappresentanze". Si raccomanda infine "la più ferma prudenza per tener dolcemente in freno codesti sediziosi, e prepotenti".

Con i consoli di Talamello la Municipalità di Rimini il 3 luglio [ib.] si dice d’accordo per la misura presa con zelo e prudenza di "sospendere la spedizione della rata unita della contribuzione per non esporla al furore de’ malcontenti" e d’inviarla con sicurezza "in un momento di quiete": "A questo fine potrebbe contribuire la presenza del Parroco, facendo da esso accompagnare il convoglio". Il seguito della lettera minaccia però altro tipo di interventi: "Ma quando simili provvidenze non si credessero abbastanza efficaci, ci avvisino perché possiamo prendere delle misure più forti, avvertendo frattanto i dissindenti dell’imminente arrivo in questa città delle Truppe Francesi, e del prossimo ritorno dell’Eminentissimo Legato alla sua Residenza, onde in riguardo di quelle, e di questo, cessino dalla colpevole loro opposizione al comun destino". Il 5 luglio i consoli di Rimini pubblicano la "consolante notizia", fornita da Ravenna dal "Sig. Conte Nicola Martinelli uno dei nostri deputati", sull’"Articolo addizionale al Trattato d’Armistizio" firmato a Firenze: i francesi se ne sarebbero andati subito dal nostro territorio, e la seconda rata della prevista contribuzione sarebbe stata pagata dal Papa. Nella popolazione possono così rinascere "tranquillità e calma". Soprattutto i piccoli paesi si sono trovati nella difficoltà di raccogliere "Ori, Argenti, e moneta di Banco". A Petrella non c’era nemmeno il "numerario con cui soddisfare i pubblici Operaj, e le altre minute spese", e si possedevano soltanto "cedole Bancali venute in oggi a tanto scredito, che nemeno colla perdita della metà si trova di cambiarle" [AP 502, 8.7.1796]. A Mulazzano, Monte Scudolo, Albereto, Monte Colombo, San Giovanni in Marignano, San Mauro e Santarcangelo, hanno tentato di tassare le proprietà di riminesi che hanno già pagato la loro contribuzione nel luogo di residenza e che pertanto hanno il diritto di andare esenti da tasse per altre comunità [AP 502, 4.7.1797].

Alla contribuzione per i francesi sono stati sottoposti pure gli Ebrei: "Dovemmo a un tempo procedere al loro arresto onde sottrarli da quegli insulti che una certa malafede del Popolo, avrebbe potuto accagionargli" [AP 502, 22.7.1796]. Da parte loro quegli "Ebrei dimoranti con negozio da lungo tempo in Rimini" [sono cinque ditte, intestate a Moisé di Bono Levi, Samuel ed Elcana Costantini, fratelli Foligno, Samuele Mondolfo, ed Abram e Samuel Levi] avevano temuto che nel "passaggio delle Truppe Francesi" potessero esser "molestati per raggion d’avere per Comando Pontefficio il solito segno nel Capello", che fu loro concesso di togliere dopo il versamento alla comunità riminese di un "dono gratuito" di cinquecento scudi: in realtà, il "dono" fu fatto, come scrivono i consoli di Rimini [AP 502, Al Presidente di Urbino, 11.9.1796], "in luogo di darci conto del loro peculio, e del valore de rispettivi negozj, come da noi esigevasi". La municipalità, soddisfatta della generosa offerta, versata oltretutto in moneta e non in oggetti preziosi, tralascia di sottolineare che essa andava contro le leggi: l’importante era riempire le casse pubbliche il cui stato diviene sempre più "lagrimevole".

Nel diario riminese di Nicola Giangi sotto la data dello stesso 5 luglio si legge che i francesi hanno lasciato Cesena e Ravenna. L’8 luglio un "falso allarme" induce "i Contadini delle vicine Campagne, e gli Abitanti de’ Luoghi limitrofi" nel nostro territorio "ad abbandonare le rispettive Case, ed incombenze" [AP 999, 9.7.1796]. La pubblica rappresentanza cerca "di ricondurre i fuggitivi alla quiete, ed ai proprj esercizi con assicurarli" che si trattava soltanto di un equivoco. Giangi spiega che cos’è accaduto: quel pomeriggio giungono a Rimini da Cesena "molte persone, e poi da tutte le parti fugitivi per una voce falsa che li Francesi reclutavano a forza. Un bisbiglio, una premura in tutti tanto grande non si è avuta giammai, e da qui sono fugiti moltissimi". Una conferma del racconto del diario di Giangi, si trova in una lettera della municipalità di Rimini che l’8 luglio [AP 502] scrive ai Priori di Verucchio: "Per una falsa voce che le Truppe Francesi si sieno introdotte nelle vicinanze, e vi abbiano fatte delle reclute, molti Contadini hanno abbandonate le loro case ed i loro lavori per mettersi in sicuro dalla temuta violenza sulla Montagna". Alcuni di quei contadini si sono diretti proprio a Verucchio. Per rasserenare gli animi e garantire l’ordine, la Municipalità di Rimini assicura: "da Imola in giù non vi sono Francesi". Anche a San Vito c’è, l’8 luglio, un "tumulto". All’arciprete don Giovenardo Giovenardi la municipalità di Rimini il giorno successivo scrive [AP 502] che in quei frangenti è stato "un bene" che i contadini non abbiano potuto armarsi. Per "calmare i quali i Signori Ecclesiastisti si sono data poca cura, anzi taluno è stato loro di esempio colla propria fuga".

 

1.4 I terribili giorni di Lugo

Sul far della sera dello stesso 8 luglio, annota Giangi, a Rimini si apprende che la notizia sull’arruolamento forzato non è vera, ma contemporaneamente se ne diffonde un’altra: i francesi sono "entrati in Lugo". È un fatto effettivamente accaduto. Il giorno prima [AP 502], i consoli riminesi si sono dimostrati scettici, comunicando al concittadino Martinelli (in missione a Ravenna): "Saremo cauti nel prestar fede ai rapporti, che ci verranno dalle parti vicine all’Armata ribelle di Lugo, ed Annessi, e vieppiù impegnati per la quiete delle nostre Popolazioni". Alcuni cittadini di Lugo, per impedire ai francesi di ritirare la contribuzione dell’intera provincia ferrarese a cui appartengono, hanno arruolato la "gioventù scapestrata" e pubblicato una notificazione "con la quale invitavano ogni buon Cristiano ad unirsi con essi per la difesa della religione" [Fiandrini]. I francesi hanno gettato nel mucchio del bottino anche il busto del veneratissimo sant’Illaro. Inutile è stato l’appello alla moderazione da parte del vescovo di Imola, il cardinale cesenate Barnaba Gregorio Chiaramonti, futuro papa Pio VII. "I Partigiani" del governo pontificio "erano riusciti ad armare più di 2.000 paesani, e siccome i Popoli di Romagna sono sempre stati estremamente coraggiosi, così fu necessario di spedirgli delle forze per reprimere quella sommossa ne’ suoi principj" [Baccarini].

Il 7 luglio le truppe di Augerau hanno saccheggiato Lugo, mettendola a ferro e a fuoco, dopo otto giorni terribili di lotta. La truppa comandata da Augerau è conosciuta come la "Divisione Infernale", scrive il capitano Antonio Paravia nel suo diario veronese, dove lo stesso Augerau è definito "indecente, vile, ed abietto nel suo parlare, come nel procedere". Per tutta la Romagna si spargono le popolazioni in fuga. È gente di ogni sesso e condizione, sono turbe di contadini raccapricciati dallo spavento [Zanotti]. A Ravenna questi profughi sono cacciati: non possono dividersi con loro i pochi generi alimentari disponibili. Era "uno spettacolo assai compassionevole il vedere Persone che continuamente arrivavano da Lugo piangenti, donne gravide, e lattanti in quantità, con Regolari d’ogni sesso, d’ogni età e condizione, e persino una Monaca rocchettina professa, carri di ebrei ed ebree con le loro famiglie tutti mesti e piangenti ed afflitti che esclamavano con gran dolore di essere stati sacrificati tutti da una turba di ubriachi, pazzi e fanatici" [Fiandrini]. Molti di loro giungono anche a Rimini, per andar verso Pesaro o alla montagna. Il 9 luglio la Municipalità di Rimini avverte "che i Popoli amutinati, incapaci di resistere alla forza dell’Armata Francese, hanno dovuto cedere colla perdita del loro sangue, col sagrifizio della Patria, e delle proprie sostanze". Per evitare la loro sorte, occorre "contenersi nella dovuta rassegnazione a Chi veglia alla pubblica quiete, tranquillità e sicurezza, senza dar corpo a sospetti, ed a rumori che ora si rendono tanto più irragionevoli, e falsi, quanto più accertata è la lusinga di vedere quanto prima evacuata questa provincia di Romagna dalle Truppe Francesi" [FGSR].

I "Popoli amutinati" non hanno né eseguito le intenzioni del Santo Padre né secondato "le insinuazione de’ Superiori, e de’ rispettivi Magistrati", sostiene il proclama della Municipalità riminese. Ma anche il più semplice contadino del più sperduto paese conosce le istruzioni impartite, sin dal ’93, nello Stato della Chiesa per la preparazione alla resistenza. Nel gennaio ’94 sono passate di qui le prime truppe papali inviate a Faenza. Si è parlato tanto di guerra, che diventa impossibile credersi in pace, oltretutto con l’invasore alla porte. Un semplice armistizio non può cancellare dalle menti gli ordini di un sovrano il quale oltretutto è anche il capo della propria religione. A Rimini si svolge una manifestazione sotto il Palazzo pubblico. La gente grida al tradimento ed accusa i magistrati di favorire i francesi per non irritarli e per mantenere la tranquillità. La Forza interviene e ripristina la "calma". Un "disordine, che nelle attuali circostanze potea turbare la pubblica tranquillità per quanto esser potea legero", succede a Verucchio dove la cavalleria civica è costretta ad intervenire su istanza "de Molinarj, e del Popolo" allo scopo di "provvedere alla deficienza dell’aqua necessaria alla macinazione nelle Fosse Patara, e Viserba". La popolazione di Verucchio si è organizzata in drappelli "di gente armata", per garantire "i deviatori delle acque", dalla cui parte si schiera anche il governatore di Verucchio che avrebbe dovuto conoscere la legittimità dell’intervento riminese al fine di ristabilire il rispetto delle convenzioni stipulate. È una rivolta che rivela un nascente stato di anarchia nelle campagne.

La Municipalità di Rimini precisa ai priori di Verucchio [AP 502, 10.7.1797] che non si aveva "in mira di ledere gli altrui diritti, ma unicamente" di cercare "coi debiti mezzi di assicurare la sussistenza della Popolazione mediante le farine nella quantità maggiore prescritta da’ Signori Superiori". Al Legato si spiega che l’intervento è stato compiuto secondo le attribuzioni del governatore di Rimini quale "Soprintendente dei molini a grano anche de Territorj di Santarcangelo, di Verucchio e Scorticata". In un momento di siccità e di "evidente pericolo della Fame", era stato necessario "impedire agli abitanti di detti luoghi ogni deviamento per lor orti e risaje" [AP 502, 12.7.1797].

Le prepotenze dei verucchiesi, come si denuncia in un esposto al Legato [AP 502, 10.8.1796], fanno correre il rischio all’Annona riminese di esser messa in ginocchio: se il furto delle acque fosse continuato, essa si sarebbe trovata costretta ad inviare a macinare il grano nella città di Fano. Le deviazioni compiute oltre che a Verucchio anche (seppur in misura minore) a Scorticata e Santarcangelo, aggravano una situazione di forte siccità e di "evidente pericolo della fame" [AP 502, 12.7.1796]: si è al momento di vedere impedito del tutto l’esercizio dei mulini "ed affamata una numerosa popolazione, senza speranza che le farine altrove proccurate con molta spesa dall’Annona possano supplire al bisogno di tutti quelli che non possono macinare e che sono perciò costretti provvedersi ai pubblici spacci di quel pane che in diverso caso fabbricherebbero le proprie case" [AP 502, 10.8.1796]. Il Legato, pur facendo intendere la sua "disapprovazione intorno alle violenze" commesse, sembra dar ragione a Verucchio, obbligando Rimini, prima di altri interventi, a passar d’accordo con quel giusdicente e di "servirsi degli esecutori della Legazione" [AP 496, 13.7.1796]. Poi il Legato pone un ulteriore freno: il governatore di Rimini, "si compiacerà di non insistere ulteriormente senza preventiva sua intelligenza" [ib., 10.8.1796].

 

1.5 Il Legato torna a Ravenna

Il Legato Dugnani, "da Fossombrone ove si era rifugiato", giunge a Rimini il 7 luglio, diretto a Ravenna [Giangi]. Gli amministratori della città inviano una delegazione a complimentare l’eminentissmo, ed a presentar istanza "per la restituzione delle armi da fuoco": "Gli abitanti specialmente della campagna insistono per riaverle a loro diffesa di mal viventi. Per loro quiete sembra nelle attuali circostanze non doverseli negare con quelle cautele, che ne assicurino il buon uso" [AP 502, 8.7.1796]. I priori di Monte Gridolfo e di Saludecio hanno esposto la necessità di riavere le armi per difendersi dai saccheggi compiuti dai "Forusciti" [AP 502, 4.7.1796].

A Ravenna il Legato è accolto da un tumulto antinobiliare del "basso popolo". Secondo l’abate Andrea Corlari, è "gente tutta scalza" che inneggia al porporato, mentre "correano per la Piazza in armi fanatici patentati" ed "una ciurma di briganti" entrò nell’appartamento del prelato: "Il buon Cardinale [li] accolse, e cominciò a dispensare abbracciamenti e baci a quegli bricconi ed a ringraziarli delle dimostrazioni di gradimenti per il suo ritorno". Nella piazza la "tumultuante canaglia gli faceva gli evviva ed urlavano da disperati".

Alla sera festa per tutti con falò dinanzi al palazzo del Legato, mentre "uomini in camicia" e ragazzi scapestrati cantano: "Pagnotta grossa, pagnotta grossa, evviva il Cardinale, evviva il Cardinale". Alla gente si era dato ad intedere che se la nobiltà fosse rimasta al potere, come dopo la fuga del Legato, "il peso del pane sarebbe diminuito ed accresciuto il prezzo della farina".

Il rientro del cardinal Dugnani nella sua sede significava, dunque, che tutto era finalmente tranquillo? A dimostrazione di una recuperata normalità, a Rimini il 16 luglio inizia la restituzione ai cittadini delle armi requisite, ed il 22 termina la Guardia civica: "il Comando", scrive Giangi, è di nuovo nelle mani del governatore Luigi Brosi.

 

1.6 Ottobre ’96, la caccia ai giacobini

La corte di Roma, "uditi i vantaggi degli Austriaci sul Reno conseguiti, e l’accrescimento delle forze imperiali verso l’Italia, che davano risoluti segni di voler recuperare gli Italiani possedimenti, cominciò a detestare gli umilianti articoli della tregua come nei giorni dello spavento li aveva prudentemente ricevuti" [Tomba].

In settembre il governo del Papa apprende di "un tradimento tramato dai francesi" e rompe le trattative di pace in corso con Parigi a Firenze, cercando di "stabilire a Vienna un trattato di alleanza". Napoleone minaccia: "Infelici Ravenna, Faenza, Rimini". Dal 2 agosto è a Rimini presso gli Olivetani di Scolca, al colle di Covignano, il Legato Dugnani. Vi resterà sino all’11 novembre.

Il 28 settembre il Pontefice chiama a raccolta i sudditi "per la difesa del suo Stato dall’aggressione de’ Francesi". Si rinnovano gli avvisi di preparazione alla resistenza. Sono fallite le trattative con Parigi, dove Pio VI ha inutilmente inviato un suo rappresentante, l’abate Pieracchi, con un "breve" che invitava i francesi a riconoscere le autorità costituite. Il direttorio pretendeva di più: la revoca di tutti gli interventi del Papa nelle questioni francesi dopo il 1789 e, quindi, anche la sconfessione della condanna della Costituzione civile del clero. In un secondo momento, a Firenze, la stessa richiesta francese porta al medesimo risultato di rottura, ed allo spostamento dell’asse politico romano verso quell’Austria che, tempo prima, sotto Giuseppe II non aveva mancato di procurare dispiaceri al pontefice, con la dottrina della superiorità dello Stato nei confronti della Chiesa.

L’8 ottobre il Senato di Bologna dichiara che né la città né il suo territorio appartengono più allo Stato ecclesiastico. Il giorno successivo in tutte le chiese riminesi viene letto il bando per gli arruolamenti volontari, con quartier generale a Forlì. La paga è venti bajocchi al dì; per quelli che vanno a cavallo, altri cinque in aggiunta. Il 10 sera alcuni "briganti" (secondo un sussurro riferito da Giangi), vanno dal vice governatore di Rimini Giovanni Andrea Agli "a reclamare che il fatore di Garampi Giacomo Nicolini scaricasse l’oglio, che aveva caricato per Bologna". Il 12 il cardinal Chiaramonti fugge da Imola "per timore di rimanere catturato nelle mani de’ Francesi". Il 14 cominciano a transitare per Rimini i dragoni pontifici diretti a Faenza. È una processione che si ripeterà.

Il 16 ottobre, per volontà di Napoleone, si riunisce a Modena un congresso con i rappresentanti di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio, deliberando la fondazione della Confederazione Cispadana. Il congresso il 17 ottobre emana l’invito ai popoli della Romagna di unirsi ai repubblicani e di aderire alla Confederazione. I papalini, esaltando il governo della Chiesa come ispirato alla libertà, rispondono ai rappresentanti del congresso: "Noi ambiamo il suffragio vostro: noi dispregiamo quello dei vostri Oppressori". Cioè, dei francesi. Il 18 ottobre Pio VI "per li nuovi sospetti o minacce dell’armi francesi allo Stato Pontificio", ordina "guerra difensiva ai suoi sudditi". A Bologna si pianta l’Albero della Libertà e s’incendia una caserma dei birri.

Da Forlì è iniziata il 16 ottobre in tutta la Romagna la cattura dei giacobini, trasferiti a Rimini il 18 e di lì nel forte di San Leo il 19 [Giangi]. Da Faenza arrivano il conte Achille Laderchi, il suo cameriere Andrea Pasi, il notaio Antonio Placci cancelliere della Comunità, Vincenzo Bonazzoli segretario della Comunità, l’architetto cavalier Giuseppe Pistocchi, il gentiluomo Michele Pasi, il commerciante in cappelli Ercole Mamini, il sacerdote Domenico Brunetti, maestro di calligrafia e Vincenzo Bertoni proprietario di una cartiera. Altri giungono da Ravenna, scrive Giangi il quale alla data del 25 ottobre ricorda il passaggio del conte imolese Giorgio Cristiano Tuzzoni, non nuovo a simili disavventure: in Spagna era stato indagato dall’Inquisizione, ed in Italia carcerato, nel ’93, sempre come giacobino, soltanto per aver lavorato alle dipendenze del re di Francia. Con Tuzzoni erano altre quattro persone. A Cervia il 28 è catturato il dottor Carlo Ressi: "Ieri notte vennero quattro sbirri di campagna, e misero prigione il Sig. Carlo Ressi, con vederli tutte le carte tenute in casa sua, poi lo condussero nella pubblica osteria di Marinelli legato, ed incatenato, avendoli portate via varie lettere, dicendosi che sia Giacobino, ed ivi stette legato tutto il presente giorno; ed alle due della notte lo vennero a prendere due altri sbirri di Rimino, ed in numero di sei lo condussero alla detta città in calesse coperto, e passando avanti casa sua disse ad alta voce buona notte, buona notte alla Madre, e Fratello" [Senni]. Il fratello era un canonico, Francesco: forse fu lui ad evitargli il carcere a San Leo. Carlo Ressi potrà ritornare a Cervia l’8 febbraio ’97, dopo l’arrivo dei francesi a Rimini. Annota don Saverio Tomba che era molto "periglioso" in quei giorni essere qualificato "giacobino". La repressione colpisce intellettuali, professionisti e parecchi nobili che avevano visto nell’arrivo dei francesi un "tramite, magari doloroso, verso la formazione di una diversa classe dirigente finalmente laica ed estranea alle commistioni fra il temporale e lo spirituale" [Varni].

 

Indice

Cap. 2. L’occupazione del 1797

Cap. 3. I "sollevati montanari"

Cap. 4. Politica e religione

Per le sigle e la nota bibliografica

All'indice * Per il Rimino * Posta

Questo è l'unico sito con pagine aggiornate sull'Accademia dei Filopatridi e sul Centro studi intestato a Giovanni Cristofano Amaduzzi di Savignano sul Rubicone: Storia dell'Accademia dei Filopatridi, notizie sull'Accademia. Centro amaduzziano.

© riministoria - il rimino - antonio montanari - rimini - 31.12.2013