Giorgio Vuoso
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L’EDIPO RE

interpretazioni

 

Il problema fondamentale che si presenta alla risoluzione dei lettore dell' Edipo Re è quello dell'innocenza o della colpevolezza di Edipo. È chiaro che dalla diversa risoluzione di questo problema e di altri che da esso scaturiscono, deriva una diversa interpretazione e valutazione del personaggio di Edipo in primo luogo, e, in definitiva, di tutta la tragedia.

Edipo, figlio di Laio e Giocasta, che l'avevano messo al mondo contro l'espresso divieto della divinità, appena dopo la nascita venne esposto sul Citerone affinché con la sua morte rendesse inattuabile la profezia divina: uccidere il padre e sposare la propria madre. Il fanciullo invece non morì, ma venne raccolto da un pastore che lo portò alla corte di Corinto presso il re Polibo che, insieme alla consorte Merope, lo allevò come proprio figlio. Qui Edipo visse allegro e spensierato e stimato l'uomo più grande tra i suoi concittadini, fino al giorno in cui, in un banchetto, un convitato ubriaco gli disse che lui non era figlio di suo padre.  Edipo, non avendo avuto chiara risposta dal re Polibo e dalla regina, ai quali aveva chiesto spiegazioni circa la sua nascita, si partì da Corinto e a Delfi l'oracolo che lui aveva interrogato per sapere chi fossero i suoi genitori gli profetò, lasciando senza risposta la sua domanda specifica, il terribile responso:

wJ mhtri; me;n creivh me micqh`nai, gevnos d’ / a[tlhton ajnqrwvpoisi dhlwvsoim oJra`n, / foneu; d ejsoimhn tou` futeuvsanto patrovs.” (vv.791-793), “che era destino che io mi unissi alla madre, mostrassi agli uomini una stirpe intollerabile a vedersi, e fossi assassino del padre che mi aveva generato”.

Spaventato dalla terribilità della predizione Edipo non osò ritornare più a Corinto, ma fuggendo dalla sua città per evitare di macchiarsi delle terribili colpe che l'oracolo gli aveva predetto, egli sempre più, senza saperlo, si andò avvicinando al luogo al tempo in cui quella profezia avrebbe realizzato.  E infatti, giunto nei pressi di Tebe, la sua vera città, in un trivio, per una questione di precedenza venuto a lite con uno sconosciuto - suo padre Laio - e da questi percosso, lo uccise insieme coi suoi servi.  Poi, risolto l'enigma della Sfinge, il mostro che funestava la città facendo morire tutti quelli che non erano capaci di risolvere l'indovinello che essa proponeva loro, come ricompensa ottenne di sposare la vedova del re - sua madre Giocasta - e di diventare egli stesso re della città.

   Sono questi gli avvenimenti che costituiscono l'antefatto della tragedia.

   Che sia necessario, per poter giudicare l'uccisione di Laio da parte di Edipo, rifarsi ai criteri dei tempo di Sofocle, è evidente.

   In base a quei criteri l'assassinio di Laio è « un esempio indiscutibile di uccisione secondo le leggi, che sfugge ad ogni pena » (1).  Quindi per il diritto attico antico Edipo è innocente del fatto compiuto e nessuno penserebbe mai di rimproverarglielo.  D'altra parte non credo che al lettore moderno possa riuscire difficile considerare l'omicidio di Edipo, così come ce lo racconta Sofocle, commesso per legittima difesa e quindi non solo non punibile dalla legge, ma anche moralmente non condannabile dal momento che Edipo in una situazione in cui la propria vita era in pericolo ha preferito uccidere piuttosto che essere ucciso.

Quindi giudizio antico e giudizio moderno, si può affermare, coincidono nell'assolvere Edipo omicida per legittima difesa.

Vediamo ora se Edipo può essere considerato innocente anche delle ben più gravi ed orribili colpe del parricidio e dell'unione incestuosa con la propria madre. O, per dir meglio, se Sofocle lo considera innocente e tale ce lo rappresenta nel suo dramma.

Non è sufficiente affermare che c'era l'oracolo di Apollo, che c'era la predizione, per assolvere Edipo e incolpare il dio.  Poteva benissimo darsi il caso che Edipo fosse  malvagio e scellerato per natura e che quindi le infamie che compie e le nefandezze di cui si macchia fossero conseguenza della sua indole malvagia.  E si potrebbe anche affermare che previsione e predizione non voglion dire determinismo. Il fatto che la divinità nella sua onniveggenza preveda quello che accadrà non significa necessariamente che lo predetermini.

Edipo è innocente invece per un altro motivo.  E' innocente perché, pur se ha commesso materialmente i delitti di cui è accusato, non li ha commessi volontariamente.  Anzi ha cercato in ogni modo di evitare di macchiarsi di tali colpe.  Avuto il vaticinio, non è più ritornato a Corinto, che credeva la propria città, presso coloro che era convinto fossero i suoi genitori, ma è andato in volontario esilio per fuggire delitti e colpe che non voleva assolutamente commettere e di cui non si voleva macchiare.  Edipo, quindi, pur avendo compiuto atrocità e nefandezze indicibili, quali possono essere l'assassinio del proprio padre e le nozze con la propria madre non ne è responsabile perché le ha compiute senza averne l'intenzione, senza averne la volontà.

Anzi si può affermare che Edipo dev'essere senz'altro considerato puro e di cuore e di mente, se è vero, ed è vero, che prima ha fatto ogni sforzo per evitare di realizzare la profezia e dopo ne ha accettato piamente tutte le conseguenze e, quando il sospetto l'ha preso che l'assassino di cui si andava in cerca era forse proprio lui, non ha cercato di insabbiare le indagini, cosa che avrebbe potuto fare benissimo se si fosse davvero sentito colpevole, ma ha continuato ad esserne il promotore più accanito.

Che Edipo quando si scopre parricida e sposo incestuoso di sua madre si accusi e si maledica e si accechi per vedere nell'ombra quelli che non bisognava vedere e per non vedere quelli che aveva desiderio di conoscere, non vuol dire che Sofocle consideri il suo eroe colpevole.  E' logico e comprensibile che Edipo annientato dalla rivelazione terribile della verità si accusi e si maledica.  I fatti atroci e spaventosi sono stati commessi, lui li ha commessi, quindi è colpevole.  La verità è così spaventosa che, anche se ad un certo punto intuita, nel momento in cui si abbatte su Edipo, fa sì che egli si senta colpevole e tale si proclami.  Del resto in momenti simili più che la forza della ragione è la forza dei sentimenti a prevalere e l'orrore delle azioni è tale che Edipo non poteva comportarsi diversamente da come si comporta.

Nell’Edipo a Colono, l'opera ultima di Sofocle scritta pochi anni dopo l’Edipo Re, Edipo più d'una volta proclamerà la sua innocenza adducendo come argomento ]'involontarietà delle sue azioni e noi non abbiamo alcun motivo per pensare che il poeta dall'una all'altra tragedia cambiasse opinione circa la responsabilità del suo eroe.

Un passo anzi della nostra tragedia ci rivela senza alcuna possibilità di dubbio che Sofocle ha sempre considerato Edipo innocente.  Alla fine dei quarto stasimo, nel quale si lamenta l'infelicità di tutti gli uomini, il coro riesaminando la grandezza di Edipo, le sue benemerenze verso Tebe e la sua presente sciagura gli si rivolge così: «  jEfhu`rev s ajvkonq oJ pavnq oJrw`n crovnos» - il tempo  che  tutto  vede  trovò te  che  contro  tua  voglia  hai  commesso  tali colpe» (v. 1213).

E' un accenno brevissimo ma sufficiente tuttavia a far capire qual è il giudizio dei vecchi tebani, e con essi dei poeta, delle colpe di Edipo.  Giudizio di assoluzione piena sintetizzato nella sola parola - àkonta », contro tua voglia.  Edipo è dunque innocente perché quei delitti che ha commessi li ha compiuti - akòntos -, involontariamente. - La responsabilità è dunque delle cose, non delle persone.  La persona di Edipo ha subito l'azione senza averla mai voluta, perché non l'ha costruita coi suo spirito, ha compiuto l'azione senza un possibile intervento della sua libera coscienza per cui è, evidentemente, irresponsabile - (2).

Quanto alla brevità dell'accenno, al fatto che il coro, non dico non sviluppi più dettagliatamente il suo giudizio sull'innocenza di Edipo, ma non vi faccia più cenno per tutto il resto della tragedia; che lo stesso Edipo non parli mai della sua innocenza anzi, come s'è detto, si ritenga colpevole; tutto questo trova una spiegazione plausibile se noi ci rifacciamo ad un'altra convinzione dell'uomo greco del quinto secolo, cioè anche di Sofocle.

Questa convinzione è quella che considerava un uomo colpevole di un delitto - responsabilmente o irresponsabilmente non aveva importanza - un impuro, che con la sua sola presenza riusciva a contaminare anche un'intera città, Per evitare ciò l'impuro veniva bandito dalla città, gli si proibiva di avvicinare chicchessia, di accostarsi alle cose sacre o ai luoghi dei culto.  Nella nostra tragedia è proprio questa idea di impurità che ha il sopravvento sull'altra dell'innocenza.  L'idea dell'impurità è sentita a tal punto che si confonde con quella di colpa.  D'altro canto partecipare alle cerimonie religiose era tanto importante per un greco che l'esserne allontanato poteva indurre a considerare colpa la causa della impurità che dell'allontanamento era stata pretesto.

E' per questo motivo che Edipo si considera empio, colpevole e desidera solo di essere scacciato dalla città; che il coro, che pure ha affermato l'innocenza di Edipo, non osa poi guardarlo in faccia; e che Creonte teme addirittura che il Sole venga contaminato dalla presenza di Edipo.

Molti critici, sia tra i più che tra i meno recenti hanno voluto vedere in Edipo l'autore di altre colpe, invece che il parricida e lo sposo incestuoso.

Già Plutarco nel suo trattato Sulla Curiosità vedeva in lui un esempio di perierghìa  colpevole; e procedendo su questa via si vide significata in Edipo la tragedia dei desiderio umano di conoscere.  Edipo fu considerato il simbolo dell'umano pensiero, ardito, che vuole conoscere il mistero che lo circonda, e incurante dei pericoli s'avventura e, vittima del suo ardimento, soccombe.  Ma non c'è colpa nel desiderio di conoscere da parte di Edipo.  Naturale e legittima è l'aspirazione alla conoscenza da parte dell'uomo.  Anzi l'impaziente curiosità di Edipo di conoscere se stesso non solo è innocente e naturale, ma meritoria, come religiosa premura di ubbidire all'oracolo(3).

Il Turolla ha sostenuto la colpevolezza di Edipo che “s'è avventurato senza l'aiuto di dio”, “uomo nuovo, che vuole andare per nuove vie, far di nuovo”, fratello di Creonte in quanto andrebbe contro la religione degli oracoli come quello dell' Antigone va contro la religione dei sepolcri; l'uno e l'altro, sempre secondo il critico, hybristài, tracotanti, insolenti; l'uno e l'altro tiranni e perciò l'uno e l'altro colpevoli (4).

   Ma neanche quest'accusa può essere considerata giusta.

Se è Edipo, sia pure per consiglio di Creonte, a far venire Tiresia; se è stato lui a mandare Creonte a Delfi per consultare l'oracolo, ciò dimostra che Edipo crede negli oracoli e li rispetta e li teme invece che disprezzarli e negarli.  Se poi nello scontro con il vate lo accusa di cecità nell'arte mantica e di non essersi presentato, quando la Sfinge inferociva, a liberare i cittadini, è perché a sua volta è stato accusato dall'indovino dell'uccisione di Laio, di un delitto dei quale egli si crede innocentissimo.  Anzi egli pensa, e le apparenze sono tutte a suo favore, che Tiresia sia d'accordo con Creonte, che abbiano ucciso il re insieme ed ora cerchino di attribuirgliene la colpa per spodestarlo. le accuse non sono rivolte quindi al ministro dei dio, all'indovino Tiresia, ma all'uomo Tiresia che fa un cattivo uso della sua arte profetica per fini malvagi.

Né mi sembra che le accuse di violenza, di tirannia, di empietà, di spregio degli oracoli soprattutto, contenute nel secondo stasimo siano rivolte contro Edipo.

   Lo stasimo prende le mosse da una frase di Edipo (v. 823): «non sono io forse tutto impuro?». Il coro, così, chiede di ottenere in sorte di conservare sempre purità di atti e di parole, senza allontanarsi da quelle leggi divine che gli uomini come non potettero creare così non potranno mai coprire d'oblio.  Poi, passando dalla forma ottativa alla riflessione gnomica, si sofferma a fare delle considerazioni sulla hybris, cioè sulla violazione delle leggi divine, che genera la tirannide e fa precipitare nel più profondo abisso di mali; quindi si augura che gli empi, i tracotanti, gli spregiatori della giustizia, coloro che non rispettano né le sedi, né le immagini degli dei, anzi osano porre le mani su cose intangibili, siano puniti dagli dei, altrimenti, dice il poeta, “quale uomo ancora in queste circostanze si augurerà di tenere lontano dal suo animo i dardi dell'ira? Se tali azioni sono onorate, perché io dovrei continuare a formare i cori?” (vv. 892-95).

Che qui non è più il coro a parlare ma il poeta, che leva alta la sua voce contro l'empietà dei suoi tempi, lo riconoscono molti critici (5) e, se anche non vogliamo accettare quanto afferma il Diano che le accuse di Sofocle sono rivolte ad un personaggio reale, un personaggio dei suo tempo, Alcibiade (che nel 415 s'era reso colpevole della profanazione dei misteri eleusini e chiamato a scoparsi da questa accusa mentre era alla guida della spedizione ateniese in Sicilia preferì rifugiarsi presso lo Spartano e, mentre il poeta componeva l'Edipo Re, nel 411, aspirava alla tirannia di Atene servendosi dell'oro persiano e in combutta con Pisandro e gli altri cercava di dissolvere - la gara utile alla città ., cioè di abbattere l'ordinamento democratico), si deve escludere certamente che queste accuse siano rivolte ad Edipo.

Solo con l'ultima strofe ritorniamo di nuovo alla situazione dei dramma; il poeta cede di nuovo la parola al coro che, sbigottito, dice che non andrà più a venerare l'inviolabile ombelico della terra se l'empietà di Giocasta (è lei che nella scena precedente, cosiddetta della doppia confidenza, mostra di non credere nei vaticini; Edipo mai dice una parola contro di essi e neanche è dei tutto convinto delle parole della moglie madre) non sarà mostrata a dito da tutti i mortali e chiede che la divinità punisca l'empia facendo avverare proprio quegli oracoli che ella disprezza e schernisce.

Questa è l'interpretazione, mi sembra, più convincente di tutto lo stasimo, nel quale, quindi, come s'è visto, alla figura di Edipo non si fa riferimento mai.

In realtà queste colpe (di empietà, di curiosità, di violenza), anche a voler vedere in esse un fondo di verità, sono commesse dopo il parricidio e l'incesto, quindi non apportano nessun fatto nuovo nello svolgimento dei fatti e perciò sono fuori discussione.

 

TRAGEDIA DEL DESTINO ?

 

Rifiutata come tragedia della colpa, deve dunque l'Edipo Re essere considerata come la tragedia dei destino?

Se Edipo si macchia delle terribili colpe senza volerlo, contro la sua volontà, non bisogna allora ammettere l'esistenza di una volontà superiore alla sua, che annulla la sua, e lo costringe a fare quello che essa desidera?  Non diremo quindi Edipo vittima di un destino cieco e crudele che tutto predetermina, nelle mani dei quale l'uomo è come una marionetta mossa dai fili, senza personalità, senza anima, senza volontà?

Sembrerebbero queste delle conclusioni inevitabili una volta accettata l'innocenza di Edipo.  Tuttavia ad una attenta lettura ci si accorge che una tale concezione dei destino nella nostra tragedia non c'è.  Certamente che Edipo uccida suo padre e sposi sua madre è voluto dagli dei.  Ma gli dei, facendogli compiere queste azioni, fanno di Edipo uno sventurato, non lo privano dei suo libero arbitrio, della sua facoltà di liberamente volere.

Edipo non è un malvagio né uno scellerato; al solo pensiero dell'oracolo che gli ha predetto il parricidio e l'incesto esclama sbigottito: « Ah no, no, sacrosanta maestà degli dei, che io non veda mai questo giorno, e piuttosto che io mi dilegui dagli uomini, che io scompaia dal mondo, prima che io scopra sopra di me la macchia di una così turpe calamità! » (vv. 830-33, trad. Valgimigli), Nonostante tutto, quando si scopre autore di quei delitti, rimane onesto e pio e non insolentisce contro gli dei.

D'altra parte se è vero che sono gli dei che indicano la via che doveva condurre al riconoscimento di Edipo impuro e infelice, non è men vero che per giungere a questa meta « Edipo ha percorso quella via di sua volontà, e tutto il suo agire, errare e cercare la verità smarrirebbe il suo significato se volessimo vedere in lui lo strumento di un destino abulico»  (6).  E l'accecamento che Edipo si infligge non costrettovi da alcun ordine divino, da alcuna superiore necessità, ma spintovi dalla propria riflessione e dalla sua sensibilità, perderebbe ogni significato riducendosi ad uno sterile ed inutile atto di protesta inserito in una visione fatalistica del dramma, mentre invece è proprio esso la riaffermazione della libertà di Edipo, la prova della sua capacità di autodeterminarsi, oltre che interamente nella dimora interiore della coscienza, anche di fronte alla realtà esterna, di fronte al destino che ci limita e ci ostacola.

Io non dirò certo che nell'Edipo Re c'è una concezione dell'uomo che determina in tutto e per tutto la propria vita, il proprio destino, agendo liberamente e autonomamente, ma non posso neanche definire fatalistica una concezione dell'uomo che di fronte alla realtà esterna che lo limita e lo impedisce e lo costringe si pone in posizione critica e distingue e sceglie liberamente il bene piuttosto che il male, il giusto invece che l'ingiusto, il pio invece dell'empio.

 

SONO INGIUSTI GLI DEI DI SOFOCLE ?

 

A questo punto è necessario chiarire un altro problema.  Per quale motivo gli dei fanno di Edipo l'assassino del padre e lo sposo della madre; cioè perché costringere un uomo, fornito, come s'è visto, di volontà e di libertà di giudizio a macchiarsi di colpe che egli ha in orrore?  Sono dunque ingiusti gli dei di Sofocle?

Per rispondere a questa domanda bisogna che ritorniamo un momento indietro a I Sette contro Tebe di Eschilo.  Nel secondo stasimo di questa tragedia il coro lamenta i mali nuovi della casa di Edipo commisti ai mali antichi, alla vecchia colpa commessa da Laio che aveva disubbidito all'ordine di Apollo che gli aveva imposto di morire senza figli per salvare la città.  Ma Laio fu vinto dalla sconsigliatezza e da sé si generò la morte, mettendo al mondo Edipo che sarebbe stato il suo uccisore. Nelle Fenicie di Euripide il divieto di Apollo è riferito da Giocasta in modo ancora più chiaro: « O re di Tebe, disse il dio, non spargere il tuo seme dentro il solco che porta figli, non fare violenza al volere dei numi.  Che se tu diventi padre, il figlio che ne avrai ti ucciderà e tutta la tua casa cadrà nel sangue».  Anche in Euripide dunque Laio disubbidisce ad un ordine ricevuto e viene punito.  In Eschilo come in Euripide infatti si tratta chiaramente di un divieto impartito dal dio, non di una predizione di una fatalità inevitabile alla quale Laio non poteva sottrarsi.

Lo stesso oracolo - ammonimento Sofocle, nella nostra tragedia, fa riferire da Giocasta in una forma però molto più succinta: « era suo destino - di Laio - morire ucciso da un figlio nato da lui e da me .. Questi versi sono stati sufficienti per indurre molti critici ad affermare che qui non si tratta più dell'oracolo di Eschilo che proibiva a Laio, come s'è detto, di avere figli, ma di un altro oracolo che predice semplicemente a Laio che sarà ucciso dal figlio.  Questa errata convinzione li ha spinti quindi a concludere che nell'Edipo Re ci troviamo di fronte ad una concezione fatalistica (Rhode), o ad affermare che Edipo dipende pienamente da un volere superiore che - mutatis verbis - è in effetti dire la stessa cosa.

Che Sofocle conosca e accetti lo stesso oracolo di Eschilo e di Euripide è dimostrato da parecchi passi nei quali si fa riferimento alla colpa di Laio.

I versi 1182-85 che contengono il grido di dolore di Edipo quando ormai ha scoperto tutto dicono chiaramente che la colpa, all'origine, è stata di Laio. " jIou; ijou;: ta; pavntè a]n ejxhvkoi safh`. \W fw`", teleutai`ovn se prosblevyaimi nu`n, o{sti" pevfasmai fuv" tè ajfè w|n ouj crh`n, xu;n oi|" tè ouj crh`n oJmilw`n, ou{" tev mè oujk e[dei ktanwvn ". « Ahimé, ahimé, tutto è chiaro ormai. O luce del sole, ch'io ti veda ora per l'ultima volta! Io che da chi non dovevo nascere sono nato, io che con chi non mi dovevo congiungere mi sono congiunto, io che chi non dovevo uccidere ho, ucciso -. Se Edipo non doveva nascere da chi è nato vuoi dire che c'era un divieto che l'impediva, e questo divieto non può essere se non l'ordine di Apollo, lo stesso cioè contenuto nell'oracolo dei Sette e delle Fenicie.

Alla colpa di Laio fanno riferimento anche i versi 1360-61: " Nu`n dè a[qeo" mevn eijmè, ajnosivwn de; pai`", oJmogenh;" dè ajfè w|n aujto;" e[fun tavla"". - Ora io sono abbandonato dagli dei, figlio di esseri empi, compagno di generazione di coloro da cui misero nacqui ». È  chiaro che con  «esseri empi » si intende Laio, mentre con l'altra frase «compagno di generazione di coloro da cui nacqui » ci si vuol riferire a Giocasta.  Non si capisce per quali motivi alcuni critici vogliano riferire l'espressione «figlio di esseri empi» alla sola Giocasta.  E perché mai sarebbe empia Giocasta?  Forse perché disprezza gli oracoli degli dei?  Ma non sono certo queste sue colpe la causa delle sventure e dell'infelicità di Edipo.  Né è empia perché ha sposato suo figlio.  Delle nozze incestuose lei è innocente come lo è Edipo, in quanto neanche lei sapeva, sposandolo, di sposare suo figlio.  Tutt'al più si può accettare l'interpretazione di coloro che intendono riferire a Laio e Giocasta tutt'e due le espressioni (non negano quindi il riferimento alla colpa di Laio).  Empio è Laio in quanto violatore del divieto divino, empia Giocasta sua complice nel mettere al mondo Edipo. «Compagno di generazione di coloro da cui nacqui », invece, si riferirebbe a Laio e Giocasta - in quanto Edipo divide con Laio la paternità dei figli di Giocasta e di Giocasta stessa egli è insieme marito e figlio » (7).

Infine la stessa cosa è confermata dal verso 1397: «colpevole or mi rinvengo e figlio di altri colpevoli». Kakòi sono Laio e Giocasta, quest'ultima complice, come s'è detto, dei marito nel disubbidire all'ordine di Apollo.  Si ripensi al verso del secondo stasimo dei Sette: «L'insania che toglie la mente congiunse i due sposi ».

Tutti questi passi ci dimostrano dunque che l'oracolo di Sofocle è lo stesso di quello degli altri due poeti tragici.

D'altra parte non è senza un motivo se Giocasta riferisce l'oracolo ricevuto dal marito nella forma succinta che abbiamo visto.  Certo non doveva provar piacere a mettere in evidenza la colpa del marito che, lo abbiamo detto, avrebbe significato ammettere anche la propria colpa.  Adesso che tutto si era concluso per il meglio - secondo lei -, che il figlioletto, esposto appena nato, era morto sul Citerone; che Laio era stato ucciso dai briganti (questi fatti senz'altro le avevano causato dolore, ma la avevano anche liberata da un'angoscia indicibile, dal terrore che il vaticinio si avverasse); non era più opportuno sorvolare su quei particolari che per tanti anni l'avevano fatta vivere nel terrore e nell'angoscia? È proprio per questo motivo - non riportare alla luce particolari orrendi di tutta la vicenda che lei e il marito avevano vissuta - che ella tace pure la seconda parte dell'oracolo, quella che la interessava più direttamente ma che era anche più spaventosa e immonda, che cioè il figlio suo e di Laio, ucciso il padre, si sarebbe unito in matrimonio proprio con lei, con la madre.  Per quale motivo rivelare queste cose al nuovo sposo, alla presenza di tutti quegli estranei (i vecchi dei coro)?

Chiarito questo particolare dell'oracolo risulta evidente a questo punto che il parricidio e l'incesto non sono voluti da una divinità ingiusta e crudele che si prende gioco di un innocente, ma sono la punizione inflitta a due colpevoli da una divinità giusta.  Edipo è quindi lo strumento di cui si serve la giustizia divina per poter compiere la sua opera.

Certo a noi non può parere giustizia quella di un dio che si serve di un uomo, non di una marionetta, di un uomo fornito di una libera volontà e di capacità di discernimento, per compiere il suo atto di giustizia.  Ma per un greco del quinto secolo  non c'erano dubbi.  Edipo era colpevole come i suoi genitori, i figli di Edipo colpevoli anche loro, e questo indipendentemente da colpe individuali ma perché la colpa di Laio doveva essere scontata da tutta la stirpe.  Per questa credenza non contavano gli individui, le persone, ma la famiglia, il ghenos.  Macchiato che si fosse di una colpa il capostipite o anche un membro di una famiglia, la colpa si trasmetteva anche sui suoi discendenti i quali dovevano ugualmente scontarne le pene.  Questa concezione è accettata interamente da Eschilo.  Anzi l'elemento tragico dei suoi drammi è da ricercare proprio in questo nesso di causalità tra le colpe dei padri e le punizioni dei figli.  Né gli Oreste né gli Eteocle protestano mai contro l'ingiustizia della sorte.

   Anche Sofocle, nel dramma più antico tra quelli rimastici, nell'Antigone mostra di credere anch'egli alla giustezza di questa teoria che voleva i figli condannati ad espiare le colpe dei padri.  Nel secondo stasimo di questa tragedia fa dire dal coro:

    «...ma una volta

   che una casa investì l'urto di un dio, 

   continua il compimento dei flagello,

   su l'intera progenie, inarrestabile ». (trad.  E. Cetrangolo)

 

 

Ma tra l'Antigone e l'Edipo Re c'è uno stacco di circa trent'anni, e in questi trent'anni il poeta dovette cambiare molti suoi convincimenti. Certamente modificò il suo atteggiamento nei riguardi della teoria dei figli condannati ad espiare la colpa dei padri.  In tutte le altre tragedie che di lui ci sono rimaste non si fa mai più cenno a questa teoria.  Evidentemente essa doveva essere in contrasto con l'idea che egli si era fatta della divinità.

Sofocle ha un'idea della divinità più pura.  Egli, che a differenza di Euripide - che sotto l'impulso delle idee sofistiche era portato a tutto criticare e tutto mettere in dubbio, anche gli dei e la religione tradizionale -  vede, proprio nel momento in cui tutti i valori tradizionali sono scossi e vacillano, negli dei un rifugio, un'ancora di salvezza, un punto luminoso nel buio che lo circonda, non può poi attribuire agli dei un tal modo di comportarsi, sarebbe come accusarli di ingiustizia.

Ecco perché nella nostra tragedia la colpa di Laio è messa nell'ombra ed essa traluce soltanto qua e là, come abbiamo visto. A voler dare evidenza alla colpa di Laio sarebbe anche parsa manifesta l'ingiustizia degli dei. È questo il motivo ben più importante e valido (rispetto a quello di Giocasta di ordine psicologico e intrinseco ai fatti stessi dei dramma, che si è messo in evidenza più su) che Sofocle aveva per mutare il vaticinio avuto da Laio: non fare apparire gli dei ingiusti.

E così il parricidio e l'incesto non sono più i delitti imposti dalla divinità per punire due colpevoli, ma sono eventi che fan parte dei presupposto mitico; e l'oracolo che li comandava è messo nell'ombra e quasi sempre dimenticato. Le sventure e l'infelicità di Edipo non sono determinate da colpe personali o ereditarie ma sono solo condizione inerente alla sua natura di uomo, una necessità implicita nel suo procedere per le vie della vita.

   E allora nel mito di Edipo interpretato da Sofocle noi non vedremo l'esempio di  un colpevole punito, né di un uomo privo di volontà oggetto di trastullo nelle mani del fato, né di un uomo giusto succube degli dei maligni, ma piuttosto un esempio di quella che è la condizione umana: Edipo è uomo e come tale soggetto agl'infiniti mali che possono abbattersi su un essere umano.

   Nel quarto stasimo, solenne, si leva il canto del coro, doloroso lamento sulle infelici generazioni dei mortali: «Ahi, progenie di mortali, come simile al nulla è vostra vita!  Di felicità non più che un'apparenza ha ciascuno, e anche questa, appena avuta, subito declina e cade.  Solo che a te come ad esempio io guardi e alla tua vita, Edipo miserando, cosa nessuna io reputo dei mortali felice.  Mirabilmente colpisti col tuo arco nel segno e fosti in tutto signore della fortuna: facesti morire la vergine dagli adunchi artigli, la cantatrice di enigmi, e nella mia terra sorgesti baluardo contro la moria; e da quel giorno anche di re ti demmo il nome e di sommi onori ti onorammo e regnasti nella grande Tebe.  Ma chi oggi si può sentir dire che sia più sventurato di te? Chi più di te fra sciagure atroci e angosce ebbe travolta la vita? ».

   Alla fine della tragedia il coro, con rassegnate parole, nelle quali è racchiusa la morale di tutto il dramma, constatata la miseranda infelicità dei mortali: - Abitanti di Tebe mia patria, guardate: ecco qui Edipo, il sapiente che sciolse l'enigma famoso, il signore sopra tutti potente, l'uomo alla cui fortuna tutti i concittadini mirarono con invidia.  E voi vedete ora in che paurosa procella di sventure è caduto. Nessun uomo mortale puoi reputare felice fintanto che di sua vita aspetti l'ultimo giorno, bensì dopo ch'egli ne abbia varcato il termine senza patire dolori .. (vv. 1524-30. trad.  M. Valgimigli).

   Una morale di tal genere non può definirsi se non pessimistica.

   Dunque - il trascorrere degli anni e l'esperienza della vita orientarono Sofocle verso una visione assai meno rosea, dove tutto è sofferenza sopportata con dignitosa virilità: il poeta divenne pessimista ma non empio. Gli dei gli parvero confinati in un mondo sempre più lontano e sempre più irraggiungibile da occhio mortale - (8).  Se gli uomini soffrono e sono infelici senza alcuna loro colpa, anzi i giusti e gli onesti più degli ingiusti e degli empi, non ne daremo certo la colpa agli dei, i quali esistono, sono giusti e agiscono sempre per il meglio, anche se per l'uomo incomprensibilmente, ma alla limitatezza delle nostre possibilità umane.  E anche il più grande di noi, Edipo ne è un esempio, non è nulla di fronte alla potenza degli dei, se da un giorno all'altro, può ritrovarsi infelice proprio a causa della esiguità, della vanità della nostra sapienza e conoscenza pur tanto decantate.

   Ciò nonostante la voce dei poeta non si leva mai ad innalzare un inno in gloria dei cielo: il suo sguardo resta ostinatamente fisso sugli uomini dei quali piange appassionatamente, ostinatamente l'infelicità, come poteva piangerla soltanto un grande poeta ». (9).

 

 

Note

(1) G. PERROTTA, Sofocle, Messina 1935, pag. 189.

(2) M. UNTERSTEINER, Sofocle, Firenze 1935, pag. 202.

(3) Così il Metastasio confutava Plutarco nelle Osservazioni sulle tragedie e commedie greche, cit. da PERROTTA in Sofocle, cit. pag. 189.

(4) E. TUROLLA, Saggio sulla poesia di Sofocle, Bari 1934, pagg. 94-95 e 100-103.

(5) C. DIANO, in Edipo figlio della Tyche in: “Saggezza e Poetiche degli antichi”, Vicenza 1968, pag. 160, parla di uno stasimo che ha il carattere di una vera e propria parabasi. Il Perrotta, Sofocle, cit. pag. 239, dice: - qui ci siamo allontanati dal dramma, qui non parla più il coro, ma il poeta che si lamenta dell'empietà del suo popolo.  M. POHLENZ: La tragedia greca, trad. italiana, Brescia 1961, vol. I, pag. 255: “Non v'avvertiamo tanto la voce dei vecchi tebani, quanto quella del poeta stesso, che irato col suo popolo fa la sua professione di fede religiosa” . Il Reinhardt  -leggo in Pohlenz, op. cit., vol. II, pag. 105-  anch'egli ammette che questo canto corale condanna la miscredenza dei tempi.  V. DE FALCO in La tecnica corale di Sofocle, Napoli 1928, pag. 108, sulle orme del ROBERT, Oidipus, Berlino 1915, vol. I. pag. 301, e dell’antico scoliasta ritiene che il canto si riferisce tutto a Giocasta, anche se il poeta si rifà indietro a considerazioni di carattere generale.

(6)    M. Pohlenz, op. cit., vol. I, pag. 253.

(7)    O. Longo, Edipo Re, Firenze 1970, pag. 338, nota ad loc.

(8) F. Sbordone, Storia della letteratura greca, Napoli 1963, V. ed., pag. 177.

(9) G. Perrotta, Sofocle cit., pag. 211.

 

 

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