Giorgio Vuoso
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ANALISI LETTERARIA DEL TESTO      

 

 

   Come Eschilo nei Sette contro Tebe così Sofocle nell'Edipo Re fa del prologo, scenografico e fastoso, una movimentata scena di massa. La tragedia esordisce facendoci vedere una folla numerosissima composta di persone di ogni età, giovani, vecchi, vecchissimi e anche bambini, il capo coperto di bende, con rami di ulivo nelle mani, in atteggiamento supplice dinanzi agli altari che stanno di fronte alla reggia. Subito Edipo, uscito dal palazzo, prende a parlare; con grande benevolenza egli chiede ragione della supplica, pieno di umanità e di compassione verso i suoi cittadini.

   “O figli, progenie nuova dell'antico Cadmo, perché qui ve ne state seduti con supplici rami cinti di bende? La città è piena di fumi di incenso, è piena di canti e di pianti. Queste cose io non ritenendo giusto apprendere da messaggeri, o figli, di persona qua sono venuto, io da tutti chiamato Edipo illustre ... Io sono pronto a soccorrervi in tutto. Perché sarei senza cuore se non avessi pietà di questo consesso di supplici” (vv. 1- 13).

   Bastano questi pochi versi perché il poeta ci faccia amare subito Edipo, fin dall'inizio della tragedia. "Da questo momento" come nota il Perrotta "tutta la simpatia e l'interesse del lettore sono per lui”. E l'amore e la simpatia non vanno all'uomo sventurato e infelice -sia lo spettatore antico che il lettore moderno sanno che Edipo alla fine del dramma si ritroverà l'uomo più infelice del mondo- ma al re potente e pieno di gloria, di questa orgogliosamente consapevole, che, senza superbia, senza alterigia, ma pieno di dedizione alla città e al suo popolo, si presenta personalmente dinanzi ad esso senza bisogno di intermediari, come un padre dinanzi ai suoi figli, pronto a soccorrerlo nel momento del bisogno. 

   La risposta del sacerdote, viva e toccante, piena di vigore poetico e di passione, si può dividere in due parti. Prima una breve ma vigorosa descrizione della calamità che affligge la città: “La città, lo vedi tu stesso, è come sbattuta tra i flutti e più non può sollevare il capo dai vortici della mortale tempesta: periscono le mandrie dei bovi alla pastura; perisce nei vani parti delle donne la semenza dei figli non nati. E il dio del fuoco, il dio della febbre, la pestilenza nemica, si avventa sulla città e la devasta; e le case dei Cadmei si svuotano, e le nere vie dell’Ade si riempiono di gemiti e di lamenti” (vv. 22-30, trad. Valgimigli). Poi una preghiera supplichevole ad Edipo nella quale è messa in evidenza tutta la potenza del re e che, indirettamente, conferma che Edipo non è né superbo né altero: "questi figli ed io ci prostriamo supplici al tuo focolare non già perché vogliamo fare te simile a un dio, ma perché ti reputiamo il primo degli uomini" (vv. 31-33), affinché voglia salvare la città e i suoi abitanti come già fece in passato: "come appena giunto alla città di Cadmo dissolvesti il tributo della cantatrice crudele, senza conoscere nulla di più né essendo stato da noi informato, ma con l'aiuto di un dio, così anche ora trova un rimedio al male che ci travaglia".

   Le parole di Edipo in risposta a quelle del sacerdote ci confermano ancor più quella che è la sua caratteristica principale, messa in evidenza fin dal primo verso, la sua profondissima umanità; tutti i suoi sudditi soffrono, ma il suo dolore è più grande di quello dei sudditi perché lui soffre per tutta la città e non per uno solo, Egli stesso, nella sua nobile magnanimità, ha pianto per i suoi concittadini né si vergogna di dirlo in pubblico: “Io so bene che voi tutti soffrite; eppure non c'è nessuno tra voi che soffra al pari di me. Il dolore vostro è, per ognuno di voi, il dolore suo solamente, non anche di altri; ma il mio cuore sulla città piange e su me e su te insieme” (vv. 60-64). Il resto del discorso, invece, ci svela quella che è un'altra qualità di Edipo la sua pietà. “ Il rimedio unico che riuscii a trovare e subito adoperai è questo: spedii Creonte al santuario di Apollo Pitico in Delfì perché chiedesse che cosa facendo o dicendo io potessi liberare questa cittá” (vv. 68-72).

   A dire il vero, già prima il sacerdote di Zeus aveva messo in evidenza la pietà di Edipo e ne aveva fatto l'elogio dicendo che lui era l'unico capace di capire i casi voluti dagli dei e che aveva già salvato Tebe certamente con l'aiuto degli dei. Ora nella logica del sacerdote uno che godeva il favore degli dei non poteva non essere un uomo pio; ma il suo ragionamento e l'elogio che ne è la conseguenza poteva essere il risultato soltanto di una sua convinzione non corrispondente alla verità, ed invece ecco che Edipo stesso dissipa ogni dubbio. Certo, egli vuole salvare la città o con la forza del suo braccio o con quella della sua mente ma, prima di iniziare alcunché manda a consultare l'oracolo di Apollo, chiede cioè che il dio lo aiuti indicandogli il modo con cui compiere la sua opera di liberazione.

   Un'altra cosa che risulta dall'esame delle parole di Edipo bisogna far rilevare: il senso amaro di ironia tragica. Certamente all'orecchio dell'ascoltatore che sapeva già che proprio Apollo era il dio nemico della stirpe di Laio, devono aver suonato dolorosamente, tragicamente ironiche le parole di Edipo che annunciavano che proprio ad Apollo, al dio che lo avrebbe reso infelice, egli aveva chiesto aiuto e che lo aveva fatto dopo aver molto riflettuto.

   La seconda parte del prologo contiene il dialogo tra Edipo e Creonte. Certamente essa è assai meno poetica della prima parte, ma non è costruita senza finezza e abilità. Alla tristezza dei sudditi imploranti la fine della peste e all'ansia che si è impossessata dei personaggi sulla scena nell'attesa di conoscere il responso della divinità, e fatta risaltare dalle ultime battute tra Edipo e il sacerdote, fa da netto contrasto il gioioso ritorno di Creonte, il capo tutto incoronato d'alloro, che porta il messaggio salvatore di Apollo. Questi parla dapprima molto oscuramente, non sapendo se deve riferire l'oracolo davanti a tutto il popolo. Invitato espressamente da Edipo, dichiara poi a quale condizione la volontà degli dei e l'oracolo di Delfi garantiscono la liberazione di Tebe dal morbo. Bisogna che la città si purifichi della macchia del sangue versato; che si uccida o si scacci lontano l'assassino impunito di Laio.

   Segue qualche domanda di Edipo sulle circostanze di un omicidio già antico di cui tutti affermano di sapere una sola cosa: che Laio è stato ucciso, sulla via di Delfi, da briganti. Senza dubbio si tratta di un indizio piccolissimo, ma Edipo si impegna a seguire questa traccia con zelo nell'interesse di una causa che è anche la sua, come lui stesso afferma. Quindi, congedati i supplicanti, anche lui si ritira per cercare in che modo dar l'avvio alla realizzazione delle promesse fatte.

   Da notare, in questa seconda scena, l'ironia tragica che scaturisce da alcune affermazioni di Edipo quando dice, parlando dell'assassinio di Laio: “l’ho sentito dire, ma io non lo vidi mai” (v. 105), il lettore sa invece che lui oltre ad averlo visto lo ha anche ucciso e, specialmente quando, impegnandosi solennemente davanti a tutti di ricercare l'assassino del vecchio re, dice che in fondo egli agisce anche nel proprio interesse e “che recando aiuto a quello, io giovo a me stesso” (v. 141). E noi sappiamo bene quale giovamento Edipo arrecherà a se stesso. Certamente espressioni di tal genere che il personaggio sulla scena pronunciava in un senso ma lo spettatore e il lettore intende anche in un altro, hanno molta efficacia scenica e indubbiamente dovevano produrre molta impressione sullo spettatore antico.

   Sgombratasi la scena, fa il suo ingresso il coro, composto di vecchi tebani rappresentanti la parte più nobile della città. Il loro canto, la parodo, rafforza l'impressione dolorosa del prologo. Essa è costituita da tre coppie di strofe. La prima, ricca di metri dattilici lenti e solenni, è una solenne preghiera alla divinità. Si invoca Fama, figlia di Zeus e di Elpis, che da Delfi ha portato la notizia dell'oracolo del dio; poi Atena, Artemide e Apollo affinché vengano in soccorso della città come già fecero quando inferociva la Sfinge. La seconda coppia si snoda nella alternanza di dattili e, più numerosi, di giambi, descrivendo il flagello della peste in un tono doloroso e lento di sofferenza: “Ahimé, innumerevoli mali io patisco. Preso è dal contagio il popolo tutto; arma nessuna d’intelligenza vale a difesa. Frutto non cresce più dalla terra ferace; dai parti non hanno sollievo di loro doglie le donne. Cadono gli uni sugli altri, e tu li vedi che come stormi di alati, per l'impeto del male che si appiglia più veloce del fuoco, traggono alle rive del dio occidentale. Di questi morti, che la città più non novera, la città perisce. Giacciono essi al suolo, senza destare pietà e senza compianto, portatori di morte essi stessi. E le giovani spose e le madri canute, qua e là sui gradini degli altari, piangono e supplicano fine a così luttuoso travaglio. Limpido suona il peana e concordi risuonano voci di lamento” (vv. 167-186, trad. Valgimigli). L'ultimo verso della seconda coppia, contiene, poi, ritornando con un movimento ciclico del pensiero all'inizio della parodo, di nuovo un'invocazione a Fama perché mandi il suo aiuto. La terza coppia, infine, ricca di giambi misti a trochei e cretici, in un ritmo più eccitato e movimentato quindi, contiene nuove invocazioni agli dei chiamati in aiuto nella grande battaglia contro il male: Zeus con la folgore, Apollo con l'arco d'oro e le frecce invincibili, Artemide e Bacco con le fiaccole ardenti si scaglino tutti contro Ares, il dio della peste, il dio che è spregiato da tutti gli dei. La parodo si chiude così dopo una meravigliosa serie di immagini una più bella dell'altra: la partenza continua di un morto dietro l'altro verso la dimora dei dio occidentale, la descrizione dell'Atlantico e del golfo tracio, la pittoresca presentazione degli dei lici, infine il combattimento tra la peste trasformata in divinità e gli dei protettori di Tebe termina il coro in una splendida apoteosi.

   Finita la parodo, Edipo ricompare sulla scena per proclamare il bando contro l'uccisine di Laio. Ordina a chiunque sappia da chi sia stato ucciso Laio, a chiunque sia stato complice dell'assassino o lui stesso l'assassino, di confessare ciò che sa o che ha fatto. Il colpevole non patirà altro male che di essere mandato in esilio, incolume. Poi pronuncia contro di lui, se non vorrà consegnarsi o nessuno vorrà denunciarlo, chiunque egli sia, abiti pure il suo palazzo, una specie di maledizione terribile che deve separarlo dal consorzio umano: “nessuno l'accolga nella sua casa, né parola gli rivolga, né partecipe lo abbia di suppliche agli dei o di sacrifici, né dell'acqua lustrale gli faccia parte, ma ognuno dalle case lo cacci come contaminazione per tutti. Così, in questo modo, io mi faccio alleato del dio e dell' uomo ucciso e sul capo del colpevole io invoco la maledizione, che egli consumi e finisca miseramente la sua miserabile vita” (vv. 238 e seg.). Quindi rimprovera ai tebani l'indifferenza che ha fatto loro trascurare per così lungo tempo la vendetta del re e si impegna a compierla con tutte le sue forze. come quella di un uomo di cui occupa il trono, di cui ha sposato la moglie, i cui figli sarebbero i suoi se ne avesse avuti, come quella del suo proprio padre. Senza dubbio queste parole sono di grande effetto: Edipo, senza saperlo, vi fa la sua storia, e ogni espressione svela quasi il mistero della sua nascita e dei suoi crimini.

   In tutto il discorso di Edipo ritorna, poi, la nota della saggezza e della pietà del re. Sua preoccupazione principale è la salvezza della città, perciò la punizione dell'assassino consisterà solo nell'esilio, mentre alla divinità, della quale egli si dichiara alleato, affida la punizione del colpevole, scagliando su di lui la maledizione, nel caso che questi non si presenterà spontaneamente. Ritorna pure, intensissima, l'ironia tragica, particolarmente là dove, domandando nel principio del discorso aiuto alla ricerca, Edipo giustifica questa richiesta dicendo che lui era ignaro dell'uccisione -dell'uccisione da lui stesso compiuta! - e dove promette riconoscenza a chi gli riveli il nome del colpevole - il suo nome! - e dove ordina che nessuno rivolga la parola all'uccisore di Laio - a lui stesso dunque! - e nessuno lo accolga nella sua casa e lo faccia partecipe di preghiere e sacrifici, e, più ancora, là dove promette di combattere per Laio, il padre ucciso, “come per un padre”.

   Segue a questo punto il contrasto tra Edipo e Tiresia. Con esso comincia l'azione vera e propria dell' Edipo Re, l'inchiesta.

   Invitato dal coro a consultare Tiresia, Edipo risponde che egli ha mandato a cercarlo su consiglio di Creonte, circostanza, questa, che egli non dimenticherà e della quale anche noi dovremo ricordarci quando l'inattesa accusa dell'indovino gli suggerirà l'idea di un complotto tramato contro il suo trono e la sua vita.

   L'arrivo di Tiresia, l’unico tra i mortali che possiede la conoscenza della verità, tanto atteso e tanto desiderato, è un vero colpo di scena. Quando Tiresia apprende perché Edipo l'ha fatto venire, si rammarica d'essere venuto, chiede che gli sia concesso di riandarsene via, si rifiuta di parlare. Edipo ascolta con meraviglia e stupore le parole del vate, non riesce a capire il perché del rifiuto dell'indovino di dire ciò che sa per aiutare la città e gliene fa un rimprovero dapprima garbato: “non giusto parli né mostri amore per la città che ti nutrì, privandola di questa tua parola” (vv. 322-23), poi, via via, sempre più risentito: “che dici, pur sapendo tu non parlerai? Ma vuoi tradire noi e perdere la città?” (vv. 330-31), finché, preso dall'ira per la sua irremovibilità, passa dalle preghiere alle minacce, dal rispetto all'insulto e lo accusa di essere complice dell'assassinio di Laio.

   Che l'accusa di Edipo, fatta all'indovino prima che questi lo abbia accusato di alcunché, sia stati dettata dall’ira, è molto probabile. D’altra parte a me sembra che quest'ira non sia né trovata scenica del poeta -per quanto non posso mettere in dubbio che una volta le sia stata contrapposta quella di Tiresia tutta la scena diventi di grande effetto drammatico- né che sia peculiare del carattere di Edipo, ma che scaturisca dallo svolgimento dell'azione, determinata dal comportamento di Tiresia. Se questi si rifiuta, senza nessun valido motivo, di dire il nome degli uccisori di Laio che egli conosce, salvando in questo modo la città dalla peste, salvezza che sta a cuore in questo momento sommamente al re, non vorremo noi giustificare la collera di Edipo? Ma, a parte l'ira, come spiegare il rifiuto di parlare di Tiresia se non supponendo che egli col suo silenzio volesse proteggere qualcuno? E che Edipo nutra dei sospetti contro qualcuno, contro Creonte per l'esattezza, non è che il poeta non l'abbia fatto risaltare qua e là nei versi precedenti.

   Fin dalla prima scena Edipo si meraviglia della lentezza di Creonte. Più giù egli congettura che i briganti che si dice siano stati gli assassini, siano stati assoldati da qualcuno che egli non nomina ma che per lui sicuramente è Creonte. Quando maledice i colpevoli, chiunque essi siano, si preoccupa di comprendere anche quelli che potrebbero abitare il suo palazzo, e questa accortezza non può riguardare che Creonte. E poi, non ha saputo Edipo l'oracolo di Apollo attraverso Creonte? Non è su consiglio di Creonte che ha fatto venire Tiresia? Come si vede, sospetti Edipo ne aveva sul cognato, e tutti abbastanza validi. E poi, non aveva Creonte dei validi motivi per uccidere Laio e farne cadere la colpa su Edipo? Non era lui che per la sua nascita vantava dei diritti sul trono di Tebe e la morte o l'esilio di Edipo, preservandolo da ogni spiacevole sorpresa, non favorivano di nuovo i progetti della sua ambizione?

   Ad ogni modo, a ragione o a torto, dettata dall'ira o da più validi -per Edipo- motivi, l’accusa è stata fatta: e l'accusa produce in Tiresia l'effetto che non avevano avuto le preghiere e le suppliche. Il contrasto scoppia potentissimo. Tiresia all'accusa risponde con l'accusa. “Io dico che tu ti tenga fermo al decreto che prima proclamasti e dal giorno d'oggi non rivolga parola né a questi né a me; tu sei di questa terra l'impuro contaminatore” (vv. 350-54). Ma questa accusa, venuta dopo che l'indovino s'era ostinato a non voler parlare non fa che confermare i sospetti di Edipo. Ormai egli è sicuro, poiché è sicuro di non aver mai visto Laio, né di averlo mai ucciso, di trovarsi di fronte a un complotto; glielo confermano le affermazioni menzognere e bugiarde di Tiresia. E quando l'indovino, andando ben oltre le richieste fattegli e per le quali era venuto, nella collera ingrandita dalle minacce gli rivela l’incesto, la turpe relazione con i parenti più stretti nella quale egli vive, Edipo gli risponde, ed è risposta piena di tragica ironia: “cieco e d'orecchie e di mente e d'occhi tu sei” (v. 371). Non si riconosce nelle parole del vate, lui che pure aveva avuto il terribile oracolo a Delfi, neppure quando Tiresia preso quasi da una gioia folle di rivelargli i misfatti compiuti e le sue prossime sventure, gli fa un discorso che avrebbe dovuto illuminarlo di tutta la sua orribile luminosità. Edipo che accusa Tiresia di cecità è cieco egli stesso. Ma la sua cecità non è la cecità di un semplicione, di uno che non capisce le cose più semplici, più chiare; è invece la cecità che deriva da un ragionamento logico e consequenziario fondato però su presupposti sbagliati (che appariranno tali solo in seguito). Edipo sa di aver ucciso da solo un uomo, un uomo qualsiasi, non un re, non Laio; sa pure, perché fu detto da un testimone, che Laio, il re, è stato ucciso da molte persone, briganti o viandanti che fossero, non da un uomo solo; ora se Tiresia si ostina ad accusarlo dell'assassinio di Laio, nonostante tutte le prove dimostrino il contrario, è evidente che mente e, se mente, è perché ha interesse a mentire e tutto il suo discorso allora vuol dire che è una menzogna abilmente costruita per buttarlo giù dal trono.

   Così, senza dubbio, deve aver ragionato Edipo e così avrebbe ragionato qualsiasi uomo si fosse trovato nella medesima situazione. Perché, è vero, Tiresia ha ragione ed Edipo ha torto, ma la verità di Tiresia è quella ispiratagli dalla divinità che non può sbagliare, la verità di Edipo è quella costruita sulla conoscenza dei fatti, che è l'unico modo di conoscere da parte dell'uomo, e la prova dei fatti, allo stato dei fatti, dà ragione a Edipo e torto a Tiresia. E quando sarà dimostrato il contrario non vorrà dire ciò che il ragionamento di Edipo è sbagliato, ma che il suo modo di conoscere e di giungere alla verità non è perfetto. ma è soggetto allo sbaglio, all'errore, perché imperfetta è la conoscenza umana di fronte a quella divina. Genialissima è quindi l'intuizione di Sofocle, d'aver fatto che la rivelazione avvenga subito nel primo episodio e in modo che nessuno le presti fede. Infatti era necessario che nessuno ci credesse perché Edipo continuasse a cercare, per scoprire da sé, alla fine, la terribile verità; perché, come a me pare, la tragicità del dramma sta proprio nella scoperta, cercata e voluta generosamente, impavidamente, eroicamente, che Edipo giusto, onesto, pio, e soprattutto dotato di molta consapevolezza umana e profondità di giudizio, farà delle sue colpe involontarie, della sua sventura e della sua infelicità, cioè della sua infinita debolezza, della sua nullità che sono, in fondo, la nullità e la debolezza di tutti gli uomini come canterà il coro nel quarto stasimo. 

   Il primo stasimo della tragedia, che divide il contrasto con Tiresia da quello successivo con Creonte, è un commento del coro agli avvenimenti del primo episodio. I vecchi di Tebe hanno appreso da Tiresia cose orribili, e il canto esprime appunto l’ansia dolorosa, l'atroce dubbio del coro. Ma questo non parla subito dell'accusa di Tiresia, invece per una buona metà risale all'oracolo di Apollo. Così nella prima coppia di strofe è descritta con grande vigore e potenza drammatica la misera vita del colpevole sconosciuto inseguito dal figlio di Zeus armato del fuoco e della folgore, e dalle terribili Furie; “egli  erra infatti in selva selvaggia e per gli antri e per le rocce come un toro, infelice con infelice piede nella sua solitudine sfuggendo agli oracoli dell'ombelico della terra. Ma quelli sempre vivi, attorno gli volano”. Nella seconda parte dello stasimo, più lenta e pacata, il coro pensa ancora alle accuse mosse da Tiresia a Edipo e non può credere che il vate abbia detto la verità; poi si fa strada nella sua niente l'idea che solo Zeus ed Apollo sanno la verità e che gli indovini possono anche sbagliare. E allora, poiché i fatti sono tutti a favore di Edipo (“ né prima seppi né poi che lite fosse tra Laio e i figlio di Polibo”) e grande è il suo debito di riconoscenza verso il re che lo salvò dalla Sfinge, il coro non può non concludere che. finché le parole del vate non saranno dimostrate vere, egli si guarderà bene dall'accusare il suo benefattore.

   Informato delle accuse che contro di lui, nel diverbio con Tiresia, ha mosso Edipo, viene in scena Creonte. E con Creonte si ha qui un secondo contrasto.

   Che questa scena sia la più razionalistica e la meno poetica di tutta la tragedia, è giusta osservazione (1). Accusare Sofocle, però, di aver voluto con essa allungare l'intreccio troppo semplice del dramma è fare offesa al poeta (2). Perché, se anche si può ammettere che l’azione non ne riceve alcuno sviluppo, non si può negare che tutto il dramma perderebbe senza di essa molto del suo effetto, perché con questa scena è motivata e prolungata la cecità di Edipo, è ritardata e resa più toccante la scoperta dei suoi misfatti e delle sue sventure, ed anche questo contrasto, come il precedente e i successivi, contribuendo a rimandare continuamente la catastrofe fa in modo che l'angoscia che incombe sullo spettatore

   “I contrasti -afferma il Romagnoli (3)- sono i punti sui quali Sofocle si ferma con predilezione. Li afferra, li svolge, poi indaga quali altri contrasti si possono con ovvia induzione far scaturire dalla materia mitica. E se questa non offre addentellati, inventa episodi e intrecci che ne giustifichino l’introduzione”. Perché dove non c'è contrasto “non c'è vero urto di volontà che modifichi gli eventi e i personaggi sembrano tutti veramente mossi dal poeta. Nel contrasto invece le volontà si manifestano, si esasperano. Appaiono nelle parole, via via, i motivi delle azioni. Queste non sembrano più prestabilite ed imposte, bensì rampollano col procedere degli eventi”.

   Edipo accusa Creonte di aver ordito un complotto contro di lui d'accordo con Tiresia. Il suo ragionamento è di una logica perfetta. Se Tiresia non lo aveva denunciato come assassino di Laio né quando questo fu ucciso, né quando lui proprio di Laio aveva preso il posto sposandone addirittura la moglie, era perché non aveva ragione d'accusarlo. Il silenzio antico del vate era una prova, non minore della intima certezza di Edipo, della sua innocenza e della menzogna presente di Tiresia. Il quale, se solo adesso lo accusava, e di una falsa accusa, era perché, prezzolato da Creonte e di questo divenuto complice, ne assecondava il tentativo di scacciarlo da Tebe e di impossessarsi del trono. Non c'erano dubbi quindi per Edipo: Creonte era l'autore dell'insidia, il colpevole della menzogna di Tiresia. il nemico che bisognava mettere a morte.

   A queste accuse precise, Creonte risponde con un largo discorso, dicendo che sarebbe stato davvero stolto a insidiare la vita del re, lui che aveva avuto tutto da Edipo, aveva la sua parte di potere senza avere però le preoccupazioni che l'essere re comporta, era onorato da tutti, amato da tutti senza avere nessun nemico. Ma Edipo non ammette ragioni; e al coro che gli consiglia di non essere precipitoso nel condannare, risponde che la sua salvezza dipende proprio dalla sua capacità di prendere rapide decisioni di fronte a uno che tramando di nascosto agisce velocemente.

   D’altra parte, ragionamenti come quelli di Creonte non avrebbero persuaso un bambino, e aveva ben ragione il Voltaire di osservare acutamente che “un prince qui serait accusé d'avoir conspiré contre son roi, et qui n'aurait pas d'autre preuve de son innocence que le verbiage de Créon, aurait besoin de la clémence de son maitre” (4).

   Edipo, inoltre, ha un altro ben valido motivo di accusare Creonte, e lo dichiarerà quando, pregato dal coro e da Giocasta. permetterà al cognato di allontanarsi libero: “E allora sappi che tu facendo per costui tale richiesta, richiedi per me la morte o l’esilio” (vv. 657-58). Perché delle due l’una: o Tiresia   ha mentito e allora colpevole dell'assassinio di Laio e del complotto contro Edipo è Creonte, o ha detto la verità e allora Edipo stesso è colpevole. Altra via d'uscita non c'è. Un'alternativa alla menzogna non esiste per Edipo, perché per Edipo non esiste la possibilità che un indovino sbagli. Il coro ha mostrato di credere possibile che Tiresia sbagli involontariamente, per semplice errore: “che un indovino conosca il vero meglio di me, è giudizio non vero; un uomo può superare con la sua sapienza la sapienza di un altro”.(vv. 500-503). Edipo pensa diversamente. L'arte mantica, l'arte dei vati sacerdoti di Apollo, non è comparabile con le altre arti, è arte divina. Perché, se è un uomo colui che l'esercita, l'uomo è strumento del dio, ispirato dal dio. E dunque se Tiresia non ha detto il vero, non ha parlato come indovino; la sua perciò è una menzogna, non un errore. Quindi se i notabili credono di poter assolvere Creonte senza condannare Edipo, sono stolti. Perché l'assoluzione di Creonte comporta l'assoluzione di Tiresia, e l'assoluzione di Tiresia, implicando che il suo responso non è una voluta menzogna, comporta che è responso verace, e quindi che lui, Edipo, è l'uccisore di Laio. Insomma Edipo, quando dichiara al coro che, chiedendo l'assoluzione di Creonte, esso condanna lui, e quando dice: "Ebbene se ne vada, anche se bisogna che io muoia o che sia cacciato da questa terra con disonore" (vv. 669-670), si distingue ancora una volta per chiarezza di intelletto e per compiutezza di pietà.

   Ottenuta salva la vita, grazie all'intercessione del coro e di Giocasta, Creonte si allontana dalla scena ove rimangono solo i due sposi. Comincia a questo punto la scena cosiddetta della doppia confidenza, la più bella e la più drammatica di tutta la tragedia.

   Giocasta vuole liberare Edipo dall'idea del complotto e il fratello dall'accusa di averlo ordito. Stante però il dilemma come l'aveva posto Edipo, la questione era irrisolvibile: se Tiresia diceva la verità era colpevole Edipo, se mentiva era colpevole Creonte. In un caso o nell'altro il colpevole era uno di loro due. Solo nel caso in cui Tiresia non avesse mentito ma si fosse sbagliato, solo cioè ammettendo che gli indovini non fossero perfetti nell'esercizio della. loro arte ma soggetti all'errore, era possibile che tutti e due fossero innocenti. E proprio questo tenta di dimostrare Giocasta, che li indovini, in quanto uomini, possono sbagliarsi, con una prova che, secondo lei, era inconfutabile. Così racconta l'oracolo ricevuto da Laio.

   “Un giorno Laio ebbe un vaticinio: non dirò che l'ebbe da Febo direttamente, ma da uno dei suoi ministri. Diceva così: che era suo destino morire ucciso da un figlio; da un figlio nato da lui e da me. Orbene Laio -e questa è almeno la voce comune- lo uccisero dei ladroni forestieri in un incrocio di tre strade: e il bambino, il figliolo, non erano passati tre giorni dalla sua nascita che il padre, legategli le caviglie dei piedi, lo fece gettare in un monte inaccessibile. Qui dunque Apollo non portò a  compimento la profezia, perché né il figlio uccise il padre, né il padre morì ucciso dal figlio ”(vv. 711-722, trad. Valgimigli).

   Ma proprio questo discorso che, nell’intenzione di Giocasta, doveva rassicurare il marito, getta nell'animo di Edipo preoccupazione e timore. Un particolare infatti, insignificante in apparenza e che Giocasta aveva messo lì nel discorso senza farci neppure caso, l'accenno al trivio in cui Laio fu ucciso, colpisce subito Edipo. Egli, tutto agitato, peiché s'è ricordato d'avere, tanto tempo prima, ucciso un viandante proprio in un trivio, incalza la moglie con una serie di domande che a quella riescono incomprensibili; vuol sapere il luogo, il tempo, l’aspetto e l’età di Laio, il numero delle persone che l’accompagnavano, e a mano  a mano che Giocasta risponde gli si fa sempre più  chiara nella mente con terrore e sgomento la convinzione che Tiresia aveva ragione, che lui è l’assassino di Laio. Ogni particolare infatti coincide tranne uno. E a questo particolare Edipo si  appiglia perché se dal cuore gli viene la certezza di essere l’assassino di Laio, la sua logica  gli dice che tutto, nonostante tutto, è ancora possibile; che può anche essere successo che due omicidi, quello del viandante   commesso da lui, e quello di Laio, siano avvenuti nello stesso luogo, nello stesso tempo, con le stesse modalità, e che di uno solo si sia saputo. Ma per quanto dettata dalla logica è sempre soltanto una speranza, una fievole speranza quella di Edipo, perché per un particolare che non coincide, moltissimi altri, invece, gli dicono che l’uomo che lui uccise è Laio.

   Dopo il drammatico dialogo Edipo, supplicato dalla moglie di metterla a parte dei motivi delle sue preoccupazioni e della sua angoscia, comincia un lungo racconto. Figlio di  Merope e di Polibo, re di Corinto, egli a Corinto era vissuto felice fino al giorno in cui, in un banchetto, un convitato ubriaco gli aveva detto che lui era falso figlio di Polibo. Il giorno dopo il re e la regina lo avevano rassicurato, ma lui non contento della loro risposta (“tuttavia l’offesa mi rodeva sempre”, v. 786) se ne era andato a Delfi ad interrogare Apollo circa la sua origine. Il dio non aveva risposto, però, alla sua domanda, ma gli aveva predetto il suo destino, orrendo destino. Gli aveva detto, infatti, che avrebbe ucciso il suo proprio padre, avrebbe sposato sua madre, e avrebbe generato dei figli con lei. Atterrito da queste predizioni, egli non era ritornato a Corinto, per non macchiarsi delle orrende colpe predette dall’oracolo, ma fuggendo lontano da quella città era giunto sul luogo dove aveva ucciso un uomo e dove, adesso l’aveva saputo, era stato ucciso anche Laio. Infatti, venuto a diverbio con uno sconosciuto e coi suoi servi per una questione di precedenza, avendo quelli cercato di cacciarlo fuori strada, egli, siccome lo sconosciuto dal cocchio lo aveva anche colpito con la sferza, li aveva uccisi tutti.

   Era stato felice Edipo nel compiere la giusta vendetta; e una certa gioia traspare ancora dal suo racconto. Ma ora invece che ha scoperto che lo sconosciuto era forse proprio Laio, che l’assassino che contamina la città con la sua presenza è, forse, proprio lui, Edipo, che macchia il letto del morto con le stesse mani con le quali egli l’uccise, ora è atterrito e spaventato e dal profondo del cuore un grido di dolore, umanissimo, gli sale alle labbra: “e se io sono l’assassino di quest’uomo, chi è ora più infelice di me? ”(vv. 814-815).

   Perché in felicissima davvero sarà la condizione di Edipo; bandito dalla sua città, solo, dovrà andare ramingo, non avrà alcun rifugio, neanche a Corinto, la sua patria, potrà tornare per evitare di realizzare la terribile predizione avuta e per la quale fuggì.

   Unica, tenue speranza rimane il servo di Laio, l’unico testimone che sia rimasto dell’assassinio del vecchio re. Se questo, che Edipo chiede con insistenza sia fatto venire dai campi dove si è ritirato a vivere, non confermerà ciò che già disse una volta, che furono dei briganti ad uccidere il suo re, ma dirà che fu un viandante, un uomo solo, allora non ci potranno essere dubbi: lui, Edipo, è l’omicida, l’uomo che egli stesso ha votato al pubblico orrore, all’abbandono universale, alla miseria dell’esilio.

   Giocasta risponde che il servo disse proprio che gli uccisori erano stati parecchi, e che ora non potrà negare quello che allora affermò, perché tutta Tebe, non solo lei, lo avevano sentito. Poi aggiunge delle strane parole che sono apparse a molti incomprensibili: “Ma se pure in qualcosa egli -il servo- deviasse dal racconto di prima, giammai dimostrerà che l'uccisione di Laio sia avvenuta come il Lossia predisse: che bisognava che morisse per opera di mio figlio. Ebbene quell'infelice giammai uccise Laio, ma egli stesso morì prima. Sicché mai per una profezia, d'ora in poi, io rivolgerei il mio sguardo né da una parte né dall'altra” (vv. 851-858). Sarebbe più logico che Giocasta si interessasse, più che del compimento degli oracoli di Laio, se Edipo sia o non sia l’assassino di Laio (5), invece i suoi pensieri si discostano dalla preoccupazione più immediata e si rivolgono ancora a dubbi di ordine generale. In realtà le parole di Giocasta trovano la loro giustificazione non tanto in motivazioni di ordine psicologico bensì nei fini artistici perseguiti dal poeta, come ha giustamente osservato il Perrotta affermando che “esse hanno lo scopo di fare entrare in una nuova fase l'azione, in essa non è più il punto centrale l'uccisione di Laio, ma il compimento degli oracoli. Da ora in poi, Edipo, più che occuparsi dell'uccisione di Laio, sentirà l'angoscia e il desiderio di conoscere il segreto della sua nascita. In questa nuova azione, la uccisione di Laio scompare, per far posto al parricidio e     all’incesto di Edipo”. (6)

   Giocasta, cioè, mira a rassicurare Edipo e a togliergli ogni preoccupazione circa l'oracolo che egli ebbe a Delfi perché, ella dice, se pure il pastore, modificando il suo racconto, riuscirà a persuadere che davvero Edipo fu l'uccisore di Laio, non potrà mai dimostrare che l'oracolo di Laio si è avverato. E allora perché temere di un oracolo, quando già un altro non si è dimostrato vero? Questo discorso tranquillizza solo apparentemente Edipo, infatti egli risponde: “Tu pensi bene, ma tuttavia manda qualcuno a cercare il pastore, non tralasciare questo” (vv. 859-860). Perché in Edipo, come negli uomini su cui grava qualche disgrazia, c'è un essere che vorrebbe poter trovare pace e serenità, tra non riesce nemmeno a credere a quello che altri riesce quasi a dimostrargli per rassicurarlo; gli manca proprio quella pace che non abiterà in lui se non alla fine della sua vita infelice.

   Così finisce la scena, una scena piena di drammaticità, di ironia tragica, di contrasti, ma soprattutto di “suspense”, come si direbbe oggi; una scena che pareva ad ogni momento dovesse decidere ogni cosa facendo precipitare la catastrofe, e invece non risolve nulla, raddoppiando l'attenzione e l'ansietà dello spettatore.

   Il secondo stasimo prende le mosse da una frase di Edipo: "non sono io forse tutto impuro?"(v. 823).  Il coro, così, chiede di ottenere in sorte di conservare sempre purità di atti e di parole, senza allontanarsi da quelle leggi divine che gli uomini come non poterono creare così non potranno mai coprire d'oblio. Poi, passando dalla forma ottativa alla riflessione gnomica, si sofferma a fare delle considerazioni sulla hybris, cioè sulla violazione delle leggi divine, che genera la tirannide e fa precipitare nel più profondo abisso di mali; quindi si augura che gli empi, i tracotanti, gli spregiatori della giustizia, coloro che non rispettano né le sedi né le immagini degli dei, anzi osano porre le mani su cose intangibili, siano puniti dagli dei, altrimenti, dice il poeta, "quale uomo ancora in queste circostanze si augurerà di tenere lontano dal suo animo i dardi dell'ira? Se tali azioni sono onorate, perché io dovrei continuare a formare i cori?". (vv. 892-895).

Che qui non è più il coro a parlare, ma il poeta che condanna l'empietà dei suoi tempi, l'abbiamo già messo in evidenza, per cui è inutile ripeterlo (7).

Con l'ultima strofa, però, ritorniamo alla situazione del dramma. I vecchi tebani, scossi nel loro più profondo sentimento, nella loro devozione verso gli dei, dalle parole di Giocasta che si è mostrata empiamente incredula circa gli oracoli, chiedono, atterriti, che gli dei la puniscano facendo avverare proprio quegli oracoli che ella disprezza. Certo, se gli oracoli si compiono, Edipo sarà colpevole, ma al coro non interessa più la sorte di Edipo che pure egli ama e stima; piuttosto che la morte di dio ("e[rrei de; ta; qei`a" v. 919) sia pure infelice Edipo.  Anzi il coro arriva a minacciare addirittura di abbandonare gli antichi riti, di non consultare più gli oracoli egli stesso, se l'empietà non sarà denunciata da tutti i mortali, se la colpevole non sarà punita dagli dei.

A questo stasimo molto bello, segue una scena che a sua volta è tra le più belle della tragedia.  Dal palazzo esce, portando incenso e corone, Giocasta, dirigendosi verso il vicino altare di Apollo, dove, deposte le offerte, prega che il dio porti finalmente la salvezza: "vedendo Edipo turbato" -essa dice- "tutti sono pieni di timore come marinai che vedano spaventato il pilota della nave" (vv. 922-923).

È stato detto (8) che Giocasta "qui tout à l'heure parlait si mal des oracles d'Apollon, s'en va maintenant, par une inconséquence naturelle au malheur et peut-être à la légèreté de son sexe, adorer le dieu qui les a rendus". Io non direi così. Giocasta non è una negatrice della divinità e la preghiera che, preoccupata per lo sposo, ella rivolge ad Apollo, le nasce dal profondo del cuore. Certo a lei è bastato che l'oracolo di Laio si sia dimostrato -apparentemente!- falso, per affermare che a tutte le profezie non bisogna prestare affatto fede. Ma il suo non è uno scetticismo teoretico, sistematico. Le sue parole scaturiscono dall'esperienza fatta e sono ispirate dal desiderio di liberare il suo sposo dai dubbi e dal turbamento dai quali è assalito e che, nonostante abbia fatto del suo meglio per allontanare dall'animo di Edipo, questi è riuscito a trasmettere anche a lei.

L'arrivo del messaggero corinzio con le sue buone notizie, sembra quasi esaudimento della preghiera or ora innalzata.  Quando il vecchio nunzio dice che Polibo è morto, che lui è venuto perché i suoi concittadini chiedono che Edipo assuma il regno di Corinto, l'esclamazione che Giocasta fa agli oracoli: " o oracoli degli dei, dove siete?" (v. 946), è più che naturale sulla sua bocca: la notizia che le è stata appena portata è la dimostrazione di quello che essa sosteneva.

Nelle  prime  battute  di  questa  scena  ritorna,  molto  intensa,  l'ironia  tragica. Alla richiesta dell'umile vecchio, già pastore di Polibo, di indicargli la casa di Edipo, il coro risponde presentandogli Giocasta, "la moglie, madre dei suoi figli" (v. 927).  La vicinanza delle due parole "moglie" e "madre", volutamente allusive alla condizione della regina, e che il corifeo doveva pronunciare certamente facendo pausa dopo "madre", senz'altro avranno prodotto nell'ascoltatore una terribile impressione.  Analogamente l'augurio del messaggero: " Felice allora tu sia e in compagnia sempre di felici, essendo di Edipo perfetta consorte"(vv. 929-930), per chi ascoltava e sapeva la catastrofe che gravava pesante sull'infelice casa e su Giocasta, deve aver avuto un senso gravido di tragicissima ironia.

E così siamo giunti all'inizio della catastrofe.

Edipo, mandato a chiamare da Giocasta, si fa ripetere di nuovo il racconto dal messaggero;  egli chiede più particolari di quanto non abbia fatto la moglie, e questo non è che psicologicamente non trovi la sua giustificazione: Edipo era molto più turbato e inquieto di Giocasta, ed è naturale che voglia essere informato più dettagliatamente.  Poi con Giocasta e come Giocasta, anche lui, in un impeto naturalissimo e comprensibilissimo di gioia trionfa degli oracoli "senza alcun valore" che Polibo ha portato con sé nella tomba.  Ma si tratta di un attimo di gioia e di un corto trionfo.  Perché Edipo è l'uomo di sempre, l'uomo pio, rispettoso degli dei e degli oracoli degli dei che conosciamo da tempo.  A differenza di Giocasta che arriva all'empietà manifesta ("che cosa dovrebbe temere l'uomo che ha compreso che è il caso a governare il mondo, e non c'è prescienza certa di nulla? La migliore cosa è vivere come capita, come si può" vv. 977-979), negando non più soltanto veridicità agli oracoli, ma addirittura l'esistenza degli dei -ma forse senza averne veramente l'intenzione- Edipo non si sente autorizzato, anche se un oracolo, o per dir meglio parte di un oracolo, non si è avverato, a negare veridicità a tutti gli oracoli.  Se prima ha definito vani i vaticini, quell'espressione gli è stata dettata dalla gioia, si è trattato cioè dell'effetto di una impressione momentanea, non di una convinzione profonda.  Profonda è invece in lui l'altra convinzione: che gli oracoli sono veritieri.  Perciò ritornano di nuovo i dubbi e i timori.  Edipo, come aveva fatto già prima (v. 859: "tu dici bene, però manda a chiamare quel vecchio"), ancora una volta dà ragione affettuosamente alla moglie ma non cessa di temere: finché è viva la madre c'è sempre la possibilità che l'oracolo s'avveri nella seconda parte che prevede l'incesto.

   Il vecchio messaggero, che finora aveva assistito in silenzio prima allo scoppio di gioia dei due sposi e poi ai timori e alle preoccupazioni espresse da Edipo, interviene e chiede di sapere di quale donna essi hanno paura e perché.  Edipo stesso gli risponde che si tratta di sua madre Merope, con la quale, secondo quanto un vaticinio gli predisse, egli dovrebbe unirsi in nozze incestuose.  A queste parole il vecchio capisce che c'è la possibilità per lui di ottenere una buona ricompensa, egli infatti sa in che modo liberare Edipo da ogni preoccupazione e così aggiunge al suo messaggio una parte improvvisata, che certo non aveva previsto quand'era partito da Corinto.

   Tragico è, nella nostra tragedia, che chiunque voglia rassicurare Edipo, ottenga sempre l'effetto contrario di far aumentare i suoi dubbi e i suoi timori. Così adesso il messaggero, così già primi Giocasta col particolare del trivio in cui fu ucciso Laio.

   Il messo, infatti, attraverso una lunga sticomitia, informa Edipo che lui non è figlio di Polibo e Merope, ma che egli stesso lo trovò sul Citerone dove stava a pascolare le greggi, lo salvò e lo porto a Corinto dove il re lo adottò come proprio figlio. Poi, indotto dalle insistenti domande di Edipo, il vecchio è costretto a confessare ciò che prima aveva omesso di dire, senza dubbio per darsi più importanza: egli non trovò il fanciullo ma lo ebbe da un altro pastore, da un pastore di Laio.

   A questo punto Edipo vede finalmente quasi a portata di mano la soluzione del problema che lo tormenta dalla giovinezza, quello della sua nascita, perciò egli non presta attenzione a tutto il resto.  Invece Giocasta è stata colpita fin dalle prime parole del messo che inaspettatamente avevano annunciato che Edipo non era figlio di Polibo.  Essa in silenzio e con crescente orrore, via via che l'identificazione tra Edipo e il neonato esposto da Laio procedeva senza possibilità di dubbio, ascolta tutte le altre informazioni e i particolari del messaggero di Corinto e, quando Edipo le si rivolge direttamente, ella trasale: "Non chiedere questo se la vita ti è cara.  E' abbastanza che soffra io" (vv. 1060-1061).  Non ha altro desiderio che quello di impedire che la verità atroce si scopra, ma non per nasconderla e continuare la sua vita col figlio anche dopo la scoperta dell'incesto, ma per risparmiare ancora sofferenze e dolori all'animo tormentato di Edipo.

   Eroica generosità non immonda acquiescenza all'incesto bisogna vedere in questi disperati tentativi di Giocasta di impedire che Edipo apprenda la tremenda verità.  Quando poi si dà conto che Edipo, incrollabile nella sua decisione di svelare il mistero, insiste nella sua indagine, gli grida: " Ahimé, ahimé, disgraziato!  Con questo solo nome ti posso chiamare e con nessun altro mai più" (vv. 1071-1072), e s'allontana.

   Scompare così dalla scena questa pateticissima figura di donna.  Essa, che in tutta la sua vita non ha conosciuto altro che il dolore, vittima innocente come Edipo, travolta e vinta dalle vicende della vita, come tante creature di Sofocle, come Deianira, non sa fare altro che uccidersi.

   Edipo, invece, ormai completamente cieco, fraintende sua moglie.  Egli crede che Giocasta abbia tentato di impedire il confronto tra i due vecchi pastori perché si vergogna di ritrovarsi moglie di un trovatello e, al coro che preoccupato teme che la fuga della regina nasconda qualcosa di grave, come sarà in realtà, risponde di non preoccuparsi per lei, che, molto superba in quanto donna, si vergogna dei suoi bassi natali.  Poi aggiunge fieramente, lietamente di sentirsi figlio della Fortuna, di quella Fortuna che per tutta la vita lo ha guidato e che finora gli ha riservato il successo, e che, in ogni caso, una nascita modesta non potrà mai cambiarlo al punto che lui rinunci a conoscere la sua origine.

   Anche il coro, contagiato dalla letizia di Edipo, passa repentinamente dalla preoccupazione alla gioia e intona un canto lieto e gioioso che fa da contrasto con la catastrofe imminente e che ci commuove intimamente.  Il terzo stasimo consta di una sola coppia di strofe.  Sul ritmo vivace, quasi frenetico, dell'iporchema, si celebra il Citerone compatriota e padre d i Edipo, le danze sotto la luna, le divinità erranti sui monti in cerca di amori silvani e Dioniso mescolato in amore con le ninfe dell'Elicona. Certamente il coro pensa, e così si augura -lo stasimo è infatti una preghiera ad Apollo affinché quanto il coro chiede sia dal dio concesso, " " ("possa questo ch'io dico esserti caro, o Febo Ieio") (vv. 1096-1097)- che l'origine di Edipo risulti regale, anzi divina, che il re sia figlio di Pan, o di Apollo stesso, o di Ermes. o anche di Dioniso.

   Giunge il vecchio servo di Laio, il pastore che ebbe l'incarico di far morire, infante, Edipo, sul Citerone, lo stesso che poi fu testimone della uccisione di Laio da parte di Edipo e, unico superstite, ne portò la notizia a Tebe e che, quando Edipo divenne re della città e sposo di Giocasta, per non assistere alla contaminazione della casa reale da parte dello straniero omicida, si ritirò a vivere isolato in campagna. I due pastori sono messi a confronto.  Uno, quello di Corinto, che ha nel cuore la speranza di una buona ricompensa per le buone notizie fornite, parla con piacere e con prontezza; l'altro, quello di Laio, che già sapeva che Edipo fu l'uccisore del vecchio re, e che or ora ha appreso dal suo antico compagno d'alpeggio, con sgomento, che l'uccisore di Laio è il figlio di Laio, che il marito di Giocasta è il figlio di Giocasta, pieno di paura che la terribile verità si scopra, parla poco, lento, a tratti.

   Tuttavia la tragicità della scena sta tutta nella figura di Edipo, tutto teso ostinatamente, caparbiamente, a voler conoscere quella verità che gli altri fanno di tutto per tenergli nascosta.

   E così egli è costretto a strappare la verità al servo reticente a furia di minacce, di insistenza, di domande incalzanti, parola su parola, brano su brano, finché il velo si squarcia ed essa s'illumina della sua tragica luce:

        "Servo: Ahimé, sono sul punto di dire la terribile cosa.

        "Edipo: Ed io di udirla; pure debbo udirla ". (vv. 1169-11 70).

   I dubbi, le speranze, le illusioni cadono una dopo l'altra. Edipo adesso sa anche lui. "Tutto è chiaro ora". Non gli resta che fuggire nel palazzo, piangendo disperatamente, commoventemente il suo dolore: "Ahimé, ahimé! 0 luce del sole, ch'io ti veda ora per l'ultima volta!  Io che da chi non dovevo nascere sono nato, io che con chi non mi dovevo congiungere mi sono congiunto, io che chi non dovevo uccidere ho ucciso!" (vv. 1182-1185).

   Con  la   scoperta  della  verità  da   parte  di   Edipo,  termina   la   prima  parte  della  tragedia, -preparazione della catastrofe- che è separata dalla seconda -attuazione della catastrofe- mediante lo stasimo. Infatti, dopo la fuga di Edipo, rimasta vuota la scena, il coro intona un canto doloroso sulla sorte infelice di Edipo che è l'esempio dell'infelicità di tutti gli uomini. Il destino di Edipo è la rappresentazione di tutto il destino umano. Come Edipo, infatti, che raggiunse i più grandi onori, divenendo addirittura re, così ogni uomo ha della felicità solo l'apparenza, e appena l'ha avuta precipita sempre. Nella seconda coppia di strofe, il coro contrappone alla gloria di prima, esaltata nella prima antistrofe, l'infelicità presente del re, accentuandone il contrasto facendo riferimento alla orrenda colpa, l'incesto. Ma questa colpa il coro riconosce che Edipo ha commesso contro sua voglia, involontariamente, per cui non rancore, non odio prova contro il suo re, ma dolore, profondo, immenso dolore per la sua sventura.

   La seconda parte del dramma si apre con la venuta in scena di un personaggio nuovo, di un nunzio che narra la morte di Giocasta e l'accecamento di Edipo.  Appena rientrata nella sua casa  -è il terribile racconto del messaggero- Giocasta "nel suo delirio, attraverso il vestibolo, si diresse verso la sua stanza nuziale, strappando con le due mani la chioma; e, come fu entrata, richiuse con forza le porte, invocava Laio, l'uomo morto da lungo tempo, ricordando l'antica generazione del figlio, per mano del quale egli stesso sarebbe morto e avrebbe lasciato lei disgraziata procreatrice di figli ai propri figli.  E malediceva il letto, dove, infelice, aveva generato da un marito il marito e figli dai figli" (vv. 1241- 50).  Nessuno vide la sua morte, ma Edipo venne urlando contro la porta e cori forza ne scrollò i cardini e si precipitò nella stanza.  Dall'alto pendeva appesa Giocasta.  "E come l'infelice la vede, terribilmente ululando, allenta il laccio che la sorregge.  E come a terra giacque la misera, terribile fu  il seguito a vedersi. Strappati dalle sue vesti gli aurei férmagli con cui si adornava, sollevate le palpebre, colpì con essi le orbite, gridando che non avrebbero visto né quanti mali aveva sofferto né quanti aveva fatto" (vv. 1265-1272).

   Ed ecco, Edipo, le orbite vuote e il viso macchiato di sangue, compare sulla scena.  In quale stato riappare davanti ai suoi sudditi questo re poco fa così felice e così grande, il loro salvatore, il loro rifugio, che essi onoravano come un dio!

   In metri lirici, prevalentemente docmi e giambi, Edipo lamenta prima la sua infelicità "Ahimé, ahimé!  Dove sono io trascinato, infelice? Dove la voce mi vaga nel vuoto? 0 demone, (9) a che punto sei precipitato? " (vv. 1307-1311 ). "O mia nube di oscurità, orrenda, che mi invadi, indicibile, indomabile, spianta da cattivo vento" (vv. 1313-1315) poi esprime la sua disperazione per la scoperta delle sue colpe, per il ricordo dei mali commessi: "Quale mi penetrò ad un tempo l'assillante puntura di queste punte, e il ricordo dei mali commessi!" (vv. 1317- 1318).  Il ricordo, anzi, dei mali compiuti, la convinzione di essere impuro e in odio agli dei  -"cacciatemi fuori da questo paese al più presto, conducete via il grande malanno, il più maledetto, l'uomo più di tutti odiato dagli dei" (vv. 1340-1346) divengono poi il motivo dominante dei lamenti di Edipo, e le tenebre della cecità che prima egli aveva lamentato come un male, gli appaiono adesso non più odiose ma quasi benefiche, perché gli impediscono di vedere i mali in cui vive: "Che cosa c'è ch'io posso ancora vedere, ancora amare, quale parola io posso udire ancora con piacere?" (vv. 1337-1339).  Poi, dopo aver maledetto colui che lo salvò e che fu la causa di tutti i mali e di tutti i dolori, suoi e dei suoi amici, quietatosi un poco il suo animo, il tono del lamento si fa più pacato, più calmo, e il discorso ritorna nuovamente ai trimetri.  Si tratta di rispondere all'obiezione del coro il quale ha affermato che, secondo lui, sarebbe stata preferibile la morte piuttosto che continuare a vivere da cieco.  La morte, risponde Edipo, sarebbe stata una punizione inferiore alle colpe connesse.  E poi, come avrebbe potuto egli, se fosse sceso nell'Ade con gli occhi sani, vedere in faccia Laio e Giocasta?  Come avrebbe potuto alzare gli occhi su Laio, il padre ucciso, o su Giocasta, la madre con cui si era congiunto? Ma neppure adesso, mentre era in vita, poteva riuscirgli gradita la vista dei figli, di quei figli nati dalla sua turpe relazione. No.  In morte o in vita egli non poteva guardare nessuno, né genitori né figli.  Neanche sulle cose inanimate egli poteva alzare lo sguardo: impuro com'era non aveva il diritto né di guardare la città, né le sue torri, né i suoi templi.  Era giusto quindi che egli fosse cieco, e accecandosi aveva agito bene non male, anzi, se l'avesse potuto, si sarebbe condannato anche a non più sentire, oltre che a non più vedere.

   Poi Edipo va con la memoria ai ricordi della sua vita passata, quasi che, nella sofferenza che quei ricordi gli procurano, egli trovi sollievo al suo dolore.  Ecco il Citerone dove avrebbe dovuto morire; poi Corinto, la falsa patria che lo allevò, lui che nascondeva in sé, sotto un'apparenza di bellezza, un male profondo; e ancora il trivio e la valle nascosta e il bosco che furono spettatori muti, ma pur vivi per Edipo, del suo delitto e che bevvero il sangue del padre versato dalle sue mani. I luoghi, nel suo grande dolore, sono quasi fatti persone, ad essi l'infelice Edipo si rivolge per chieder loro se si ricordano ancora di lui e del suo terribile delitto, quasi a volerli rimproverare di non averglielo impedito.  Poi ancora quello che c'è nella sua tragedia di più turpe: le nozze con Giocasta, l'incesto con sua madre, "la cosa più turpe di quante cose tra i mortali avvengono" (v. 1408).  Poi il misero Edipo non può più continuare, sommerso dalla infinita grandezza dei suoi mali: grida "nascondetemi o uccidetemi o gettatemi in mare" (v. 1411).  E tuttavia mai in tutti i suoi lamenti, così come anche nel commo precedente, si ode dalle sue labbra una imprecazione contro gli dei, mai una bestemmia o un’ingiuria.  La pietà di Edipo, nonostante la sua infelicità, i suoi dolori, le sue sofferenze, rimane salda, ferma, incrollabile.

   Ed ecco viene in scena Creonte.  Le prime parole che egli pronuncia, "Io non sono venuto per deriderti, né per rimproverarti qualcuno dei tuoi mali di prima" (vv. 1422-1423), sembrano a prima vista nobili e generose, ma in fondo sono prive di vera compassione, mancano di sentimento, sono fredde.  Creonte dice infatti ciò che non prova per Edipo -non prova gioia dei suoi mali né desiderio di vendetta- ma non ha per lui alcun sentimento di compassione, alcuna espressione di dolore per i suoi  mali, alcuna parola di conforto.  Anzi, subito dopo rimprovera ai Tebani di non averlo chiuso nel palazzo, di non essersi preoccupati di contaminare con la presenza dell'impuro la pura luce dei sole.  Ora, se questa sua è una giusta preoccupazione, ingenerose, impietose, sono le crude parole con le quali definisce Edipo: "questa lordura scoperta che né la terra, né la pioggia divina, né la luce accoglierà" (vv. 1427-1428).  Quando poi Edipo lo supplica di cacciarlo via dalla città dove nessuno possa mai avvicinarlo, Creonte, ancora una volta, risponde cori una frase crudele, cattiva: "sappi bene che io l'avrei già fatto, se dal dio prima di tutto non  desiderassi sapere cosa bisogna fare" (vv.  1438-1439).

   Ora, che Edipo, nella condizione in cui si trova, ritenga che per lui non ci sia alcuna speranza di salvezza e chieda di essere bandito, cacciato via, ucciso anche, è comprensibile; incomprensibili sarebbero la durezza e la crudeltà delle parole di Creonte: "sappi bene che io ti avrei già scacciato ", se non ammettessimo che sono dettate da un certo desiderio che egli prova di punzecchiare Edipo continuamente.

   Questi ed altri particolari tuttavia, non riescono a fare di Creonte un vero carattere. Perché al poeta non tanto interessa il personaggio di Creonte, quanto Edipo.  E Edipo di tanto si innalza, anche in questa ultima scena, quanto più Creonte si mostra basso, mediocre, vile.

   Alcuni (10) hanno voluto fare di Creonte un personaggio umano, comprensivo, simpatico. Io non credo che Sofocle abbia mai pensato ad un Creonte siffatto.  Non tanto perché questo Creonte dell'Edipo Re avrebbe rotto l'unità del carattere del personaggio delle tre tragedie di argomento tebano (Antigone, Edipo Re, Edipo a Colono) unità della quale Sofocle non si è mai preoccupato perché, come fa acutamente rilevare il Perrotta (11) nessuna legge poetica poteva obbligare il poeta a mantenere in tragedie diverse, scritte a molta distanza di tempo, intatto il carattere di un personaggio, e l'esempio di Odisseo così diverso nell'Aiace dall'Odisseo del Filottete lo dimostra", e che, del resto, è problematico stabilire se gli stessi critici, del solo Creonte dell' Edipo Re danno le interpretazioni più diverse,-  quanto piuttosto perché un Creonte umano, comprensivo, simpatico, avrebbe sottratto ad Edipo, attirandola su di sé, molta di quella simpatia e dell'interesse dello spettatore e del lettore che Sofocle ha voluto riservare esclusivamente ad Edipo.

   Ed infatti le parole più belle e poetiche, i sentimenti più teneri ed affettuosi è Edipo che li esprime.  Sia quando, raccomandando le figlie al cognato, ricorda con tenerezza tutta paterna che esse “mai videro preparata per me tavola di cibo in disparte da loro, né per loro senza di me, e non v'era cosa che io assaggiassi che non ne avessero anch'esse la lor parte ogni volta (vv. 1463-1465, traduz.  Valgimigli), sia quando, alla presenza delle figlie, dimentico dei suoi mali e delle sue sofferenze, piange soltanto la sorte delle sue creature che saranno costrette a trascorrere una vita triste e squallida senza feste e senza nozze, perché nessuno le vorrà sposare, le figlie dell'incestuoso e del parricida.

   E proprio piangendo l'infelice avvenire delle figlie, che Creonte con parole crudeli gli strappa via dalle braccia, l'infelice Edipo si allontana lentamente dalla scena.

Poi il coro, nella sua infelice rassegnazione, chiude definitivamente la tragedia: “Abitanti della patria Tebe, guardate: quest'Edipo che gli enigmi famosi conosceva ed era di tutti il più potente, che nessuno dei cittadini guardava senz'invidia per la sua felicità, in quale vortice di terribile sventura è caduto. Così bisogna,  attendendo l'ultimo giorno, nessun mortale ritenere felice, prima che abbia raggiunto il termine della vita senza aver sofferto alcun male" (vv. 1524-1530).

   Termina così questa stupenda tragedia.  "Gli spiriti più fini e poetici di ogni tempo si commuoveranno per le sventure di Edipo, innocente e magnanimo, eppure in felicissimo; e insieme col poeta piangeranno, di là dalla stessa sorte di Edipo, la sorte universale degli uomini, senza eccezione e senza rimedio condannati all'infelicità e al dolore" (12).

 

 

NOTE

 

1 ) Cfr. Perrotta, Sofocle, Messina, 1935, pag. 230.

2) L'accusa è in J. F. La Harpe, Cours de littérature ancienne et moderne.

3) Cfr. E. Romagnoli, Il teatro greco, Milano, 1918, pagg. 99-100.

4) Cfr. Voltaire, Lettres sur Oedipe.

5) Non direi, però, col Perrotta, Sofocle cit., pag. 236 –che “Giocasta dovrebbe aver piacere che gli oracoli si fossero dimostrati veri, non falsi”. Infatti se l'avverarsi dell'oracolo nella parte riguardante Laio avesse dimostrato l'innocenza di Edipo, avrebbe anche significato per Giocasta, comportando che il figlio esposto non era morto, ma era sopravvissuto, la possibilità che anche la secondi parte dell'oracolo, ben più spaventosa e immonda, che riguardava solo lei, si avverasse, cioè che lei si unisse in matrimonio col proprio figlio. E questo non certamente poteva farle piacere!

6) Cfr. G. Perrotta. Sofocle cit., pag. 236. Anche il Wilamowitz in Die dramatische Technik des Sophokles, pag. 82, e il Polhenz in La tragedia greca, cit., pag. 246, giustificano le parole di Giocasta coi fini artistici del poeta. Il primo infatti dice che le parole di Giocasta farebbero risaltare di più la veridicità degli oracoli, preparando lo stasimo che segue ispirato tutto a questo tema. Il Polhenz, dal canto suo, afferma che il poeta prenderebbe spunto dalle parole di Giocasta per inserire un canto in cui il coro eleva un'appassionata protesta contro simile mancanza di fede. Ora non c'è dubbio che queste spiegazioni siano vere, ma che lo scopo principale delle parole di Giocasta sia quello indicato dal Perrotta è evidente, perché per inserire il coro bastavano i dubbi che Giocasta aveva manifestato in tutto il suo racconto.

7) Cfr. in Rivista Letteraria, anno VII, n. 3, set.- dic. 85, pagg 21-23, l'articolo L'Edipo Re, il problema della datazione.

8)   Cfr. H. Patin, Etudes sur les tragiques gres: Sophocle, Parigi, 1904, pag. 76.

9)    Il daimon  cui si appella qui Edipo è il suo daimon, il destino che lo ha accompagnato nella sua vita e che coincide, al limite, con Edipo medesimo".  Cfr. 0. Longo, Edipo Re, Firenze, 1970, pag. 330.

10)  per es. H. Patin, in Etudes cit . pag. 90.

11)  Cfr.  G. Perrotta, in Sofocle cit. pag. 246.

12)  Cfr.  G. Perrotta, in Sofocle cit. pag. 256.

 

 

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