Rimini moderna (secc. XV-XVIII)

1. 2. Profilo di una città, 1429-1469

La successione, 1429
Il 14 settembre 1429, il potere passa nelle mani dei tre nipoti di Carlo: Galeotto Roberto, Sigismondo Pandolfo e Domenico Malatesta Novello. Essi sono figli naturali di Pandolfo III signore di Brescia, fratello di Carlo, deceduto nel 1427.
Carlo, senza prole da parte della moglie Elisabetta Gonzaga, li ha fatti legittimare dal pontefice Martino V nel 1428. Si legge solitamente che fu il solo Galeotto Roberto a subentrare allo zio Carlo nel governo di Rimini. E che a Sigismondo e Domenico toccarono rispettivamente Fano e Cesena (cfr. Tonini, V, 1, p. 80).
Ma come osserva Anna Falcioni in base ad una precisa documentazione (Galeotto, p. 110), appare certo che essi «non governassero indipendentemente i tre vicariati» ma anzi esercitassero il loro dominio congiunto sulle città di Cesena, Rimini e Fano, sino alla scomparsa dello stesso Galeotto Roberto, (10 ottobre 1432). A loro tre si unì la vedova di Carlo, Elisabetta Gonzaga.
Galeotto Roberto ha diciotto anni ed è il più anziano dei tre. Sigismondo ne ha dodici e Novello undici. Per questo fatto, a Galeotto Roberto è riconosciuta la direzione della Signoria.
Nonostante la giovane età, Galeotto Roberto ha modo di manifestarvi tutta la sua abilità diplomatica nei rapporti con Roma (Delvecchio, Sigismondo II, p. 35).

Opposizione aristocratica
Contro Galeotto Roberto (ed i fratelli, dunque), a Rimini immediatamente si coagula «una pericolosa opposizione interna di matrice aristocratica in seno al consiglio» da lui stesso nominato (Falcioni, Politica, p. 142).
È un'opposizione che tra sabato 5 e mercoledì 9 maggio 1431 (come scrive Falcioni) sfocia «nell'iniziativa sovversiva di Giovanni di Ramberto Malatesti», un discendente di Giovanni lo Sciancato detto Gianciotto.
Il suo tentativo di colpo di Stato «fallì l'obiettivo ma riuscì a gettare la città nel caos», mettendo a repentaglio la stabilità dello Stato malatestiano.
Giovanni di Ramberto gli era stato affiancato come consigliere data la giovine età di Galeotto Roberto.
Galeotto Roberto sventa l'azione dei suoi avversari anche grazie alle informazioni riservate ricevute da Nicolò III d'Este. Il quale nel 1428 gli aveva concesso in moglie la figlia Margherita. Nel 1433 Sigismondo, fratello di Galeotto Roberto, sposa Ginevra sorella di Margherita.
L'avviso fornito da Nicolò d'Este, la decisa reazione di Sigismondo che, ardimentoso benché soltanto quasi quattordicenne, affronta il nemico a Cesena, la lealtà dei sudditi e le pressioni di Venezia «rigorosa custode dell'equilibrio in Romagna e nella Marca d'Ancona», fanno fallire il moto di rivolta (Falcioni, Galeotto, p. 142).

Il coraggio di Sigismondo
Circa il coraggioso comportamento di Sigismondo Pandolfo Malatesti, vale l'osservazione di Anita Delvecchio nel suo bel saggio biografico a lui dedicato (Sigismondo II, p. 37): l'intero episodio è stato «senza dubbio, accresciuto ad arte con elementi non estranei al favoloso», e dovuti ad «una pomposa retorica cortigiana» che idealizza il comportamento di un ragazzo non ancora quattordicenne (era nato il 19 giugno 1417).
E, aggiungiamo, lo trasforma in un exemplum quasi da manuale di pedagogia rinascimentale per l'educazione dei giovani principi.
Sull'intervento di Venezia, va detto che Galeotto Roberto ne riconosce il ruolo egemone nell'Adriatico (Falcioni, Politica, p. 143). Due giorni dopo il moto sedizioso Venezia invia dal porto di Cesenatico verso Rimini alcune galere (Delvecchio, Sigismondo II, p. 36).
Galeotto Roberto, nato nel 1411, scompare il 10 ottobre 1432, poco dopo la zia Elisabetta Gonzaga deceduta il 22 luglio. Gli succedono i due fratelli che già lo avevano sino ad allora affiancato, Sigismondo Pandolfo (1417-1468) e Domenico Malatesta Novello (1418-1465). Essi nel 1433 si suddividono il potere: Sigismondo resta signore di Rimini, a Novello tocca il governo di Cesena.

Disagio della plebe
I fatti del 5 maggio 1431, secondo lo storico Clementini (Raccolto, II, pp. 245-246), vanno collegati alla «penuria, ch'era al presente de' viveri». In quelle condizioni di disagio, «la plebe, che facilmente inchina al male» ed è «pronta al risentimento», si sollevò «pigliando l'arme» contro la sede della «gabella» ed il «Palagio del Podestà».
Il giorno successivo, domenica 6 maggio, si verifica un altro assalto durante il quale i «beccarini», ossia i macellai, «saccheggiarono le case, e i banchi degli Ebrei» al lavoro nel giorno di festa non per loro ma per i cristiani.
«Beccarini» è un diminutivo, nel Clementini, della forma conosciuta «beccari», la cui attestazione riminese è nell'omonima via del centro storico che porta a sinistra dall'attuale corso d'Augusto partendo da piazza Cavour verso il ponte di Tiberio, quasi sul retro del palazzo comunale.

Censi dovuti alla Chiesa
Nella biografia di Sigismondo Pandolfo Malatesti composta da Francesco Gaetano Battaglini (Della vita etc…. Albertini, Rimini 1793, pp. 280-281), incontriamo un altro aspetto che completa utilmente il quadro d'assieme della rivolta del maggio 1431. Il defunto Carlo Malatesti non aveva pagato «grosse partite di censi» alla Chiesa, per cui, allo scopo di rappacificarsi con essa era necessario trovare «cospicue somme».
A questo scopo «erano volte tutte le diligenze» della vedova di Carlo, Elisabetta Gonzaga, coinvolta in quella che Anna Falcioni chiama la «signoria consortile» malatestiana su Cesena, Fano e Rimini (Galeotto, p. 111).
L'espressione usata da Battaglini («le diligenze»), indica una forma di rispetto per i successori del marito, e la preoccupazione presente in Elisabetta di sanare una situazione pericolosa sotto il profilo politico.
Il denaro che si esigeva dalla Curia romana, «parte dagli Ebrei fu pagato, che molto ricchi vivevano e faceano loro traffico in Rimini, in Cesena, e in Fano» (Battaglini, p. 281). Galeotto Roberto, dopo esser stato salvato dall'aiuto dei prestatori israeliti, cerca di punirli poco dopo (1432) con il fargli imporre dal papa l'obbligo del «segno».

Galeotto e gli Ebrei
Francesco Gaetano Battaglini racconta che Galeotto Roberto non poteva «tollerare, che gli Ebrei già in grande numero stanziati nel suo dominio, vantando non so quale indulto impetrato da Papa Martino, vivessero e praticassero confusi tra i Cristiani senza distinzione di segno alcuno; contro la quale licenza ricorrendo al Pontefice Eugenio fece sì che con Breve de' dieci di giugno commissivo al vescovo di Rimino, fu proveduto sopra tutti gli Ebrei dello Stato de' Signori. Valse ciò a Galeotto per qualunque segnalata vittoria avesse potuto coronare i suoi giorni» (pp. 300-301).
Il papa Martino qui ricordato è Martino V, in carica dal 1417 al 1431. Egli mitigò le misure prese contro gli Ebrei dal suo predecessore Gregorio XII (1406-1415), strettamente legato alle vicende dei Malatesti di Rimini. Infatti Carlo Malatesti fu da lui inviato al Concilio di Costanza come suo delegato, «ad sacram unionem perficiendam». L'Eugenio del Breve è papa Eugenio IV.

Antefatti
La presenza di Carlo al Concilio di Costanza è il momento più alto nei rapporti tra i Malatesti e la Chiesa. Con cui essi avevano fatto pace l'8 luglio 1355, ricevendo in vicariato le città di Rimini, Fano e Fossombrone con i loro contadi.
Da quel giorno i Malatesti sono rientrati nel gran gioco della politica, non soltanto come condottieri di armate mercenarie. Pandolfo II nel 1357 è a Praga e a Londra in veste di inviato pontificio, anche se gli storici ne sottovalutano il ruolo, riducendo le sue missioni a vendetta privata contro il violento e feroce Bernabò Visconti da cui aveva ricevuto l'offesa dell'arresto. A Praga risiedeva l'imperatore Carlo IV che conosceva bene la famiglia Malatesti: nel marzo 1355 aveva nominato suo vicario per Siena proprio il fratello di Pandolfo II, Malatesta Ungaro.
Liberato da Galeazzo, fratello di Bernabò Visconti, Pandolfo era fuggito da Milano partecipando ad un intrigo internazione in cui agisce da provetto politico. Contro di lui i Visconti scatenano il povero Francesco Petrarca, costringendolo a scrivere in epistole ufficiali, che il Malatesti era dominato da un sentimento di perfidia verso Bernabò che invece lo aveva amato come un fratello.
Pandolfo è fatto muovere invece dall'obbedienza al papa che nello stesso 1357 lo invita ad Avignone. Impedito dagli impegni militari con i fiorentini, Pandolfo spedisce suo padre alla corte pontificia.
Per completare il discorso sulla presenza di Carlo a Costanza, un particolare di non poco conto, è che proprio in quel Concilio si decide la sorte di una giovane Malatesti, Cleofe, nipote di Pandolfo II e figlia di Malatesta “dei sonetti”, che papa Martino V fa sposare a Teodoro despota di Morea e figlio dell'imperatore bizantino Manuele II.
Le nozze sono celebrate il 19 gennaio 1421 assieme a quelle di Sofia di Monferrato con Giovanni VIII Paleologo. Cleofe e Sofia sono unite dallo stesso progetto di papa Martino V per riunire la Chiesa latina e quella greca, separate sin dal 1054. Come per la missione di Carlo, «ad sacram unionem perficiendam».
Ritorniamo a Galeotto. Egli scompare il 10 ottobre dello stesso 1432.
La biografia di Sigismondo pubblicata da Battaglini nel 1793 riprende la notizia del «breve» di Eugenio IV apparsa in altra opera dello stesso autore, le Memorie istoriche del 1789 (p. 228), con la precisazione che dell'esistenza del documento pontificio l'autore era stato informato dall'abate Giovanni Cristofano Amaduzzi, savignanese di origine ma formatosi a Rimini alla scuola del medico Giovanni Bianchi il quale poi lo aveva avviato a Roma.

Ebrei, questione politica
Il documento pontificio obbliga a rileggere in maniera diversa quanto narrato da Clementini sugli eventi del 6 maggio, cioè l'assalto durante il quale i «beccarini» saccheggiano case e banchi degli Ebrei.
I Malatesti, costretti ad affrontare una rivolta popolare provocata dalla penuria dei viveri, allo scopo di portare la pace sociale nel loro dominio ricorrono ad un provvedimento demagogico e fortemente in contraddizione con la realtà politica in cui vivevano.
Lo spirituale e francescano Galeotto Roberto vuole punire gli Ebrei, quegli stessi Ebrei dai cui prestiti i signori riminesi erano stati aiutati nel salvare il loro potere minacciato dalle ritorsioni ecclesiastiche per le partite di censi non versate da Carlo. Galeotto Roberto fa obbligare dal papa gli Ebrei al «segno» distintivo.

Il ruolo di Roberto
Dopo la morte di Sigismondo (9 ottobre 1468), suo figlio Roberto, nato dalla fanese Vannetta de Toschi, si presenta quale pretendente al governo di Rimini in competizione con Isotta e con il fratellastro Sallustio (1450-1470), partorito dalla bolognese Gentile de Ramexinis e destinato a tragica fine di lì a poco.
Roberto ha ricevuto dal padre non soltanto un'educazione all'arte militare ma anche all'esercizio politico ed ai negozi diplomatici. Come condottiero ha mietuto brillanti successi, ma il 13 settembre 1463 ha subìto una dolorosa capitolazione proprio nella natìa Fano, mentre combatteva contro il papa per recuperare prestigio alla famiglia che Pio II stava massacrando con le carte, le scomuniche e le armi (Masetti, Roberto, p. 219).
Nel Natale 1460 il papa ha pronunciato un anatema contro Sigismondo. Il 16 gennaio 1461 ha declamato una «schiacciante requisitoria» contro di lui, offrendogli la possibilità di difendersi in un processo affidato a Nicola Cusano: «la baldanzosa risposta di Sigismondo è la continuazione di una guerra che gli doveva apparire ormai inevitabile».

Antefatti romani
Nel febbraio 1462 i sudditi riminesi sono stati sciolti dal vincolo di fedeltà. Il 26 aprile 1462 «tre fantocci raffiguranti Sigismondo» sono stati bruciati in altrettanti diversi punti di Roma, ed il giorno seguente il papa ha emanato la «bolla» Discipula veritatis per scomunicare ed interdire il signore di Rimini (Arduini, pp. 13-14).
Il 2 dicembre 1463 la Chiesa romana ha lasciato allo «splendido» (come lo chiama Maria Bellonci) Sigismondo una città «privata per lo più dei territori che aveva governato fin dai tempi del Comune» (Falcioni, Politica, p. 193).
Negli affari di Stato Roberto si è comportato sovente in assoluto antagonismo rispetto al padre. Ha preferito stare dalla parte dello zio Malatesta Novello signore di Cesena, con cui Sigismondo non andava molto d'accordo.
Novello aveva avuto forti simpatie per il governo veneziano, ed era stato trattenuto dal fratello dal concludere con esso un trattato. Poi Novello aveva ceduto Cervia alla Serenissima.
Novello aveva anche sospettato Sigismondo di essere l'ideatore di una congiura per ucciderlo. L'accordo di Ferrara fra i due fratelli (9 luglio 1453) non aveva eliminato i motivi di attrito politico che tornano a ripresentarsi sino alla morte di Novello, sopraggiunta il 20 novembre 1465.

Ebrei, il caso cesenate
Del governo di Novello a Cesena, a proposito dei rapporti con la comunità ebraica, va detto che nel 1433 egli è al centro di un episodio da meditare. Con un bando podestarile del 27 febbraio, a Cesena, Bertinoro e Meldola si ordina agli Israeliti sia donne sia uomini di non girare senza il solito contrassegno giallo sul petto, introdotto in sèguito alle decisioni del concilio lateranense del 1215 sotto Innocenzo III (Fabbri, Novello, pp. 54-55, 295-296).
A Novello si rivolgono con una supplica due banchieri ebrei, Masetto Angeli e Leone Zenatani. Essi chiedono una revoca del provvedimento e di potersi comportare «se non come semo usati».
L'espressione indica che gli Ebrei rifiutavano «uno 0 giallo» introdotto dal bando podestarile, al posto del consueto segno, un cappello giallo per gli uomini ed un velo dello stesso colore per le donne. Velo che era lo stesso imposto alle prostitute.
Novello il 2 aprile accorda agli Ebrei quanto da loro richiesto ed ordina al podestà di non molestarli più. Con tutta probabilità, la prima decisione del 27 febbraio era stata adottata per accontentare il mondo ecclesiastico locale.
Osserva Fabbri (Novello, p. 54), che la direttiva podestarile riguarda tutto il territorio della signoria malatestiana con i tre comuni di Cesena, Bertinoro e Meldola, e che «l'unico in grado di farla diramare ero lo stesso» Novello, per cui «si potrebbe pensare ad una leggerezza commessa» da costui «quando cedette alle pressioni di chi voleva mettere al margine gli ebrei».
La scelta di Novello del 2 aprile invece rientra nel quadro dei rapporti di buon vicinato con la società ebraica tanto utile con i propri traffici mercantili e monetari.
Novello aveva seguìto l'esempio del fratello Galeotto Roberto che, come si è visto, nel 1432 aveva ottenuto da papa Eugenio IV il «breve» diretto al vescovo di Rimini che reintroduceva per gli Ebrei presenti in città il previsto «segno» di distinzione. Con la differenza che Galeotto Roberto aveva fatto intervenire il papa attraverso il vescovo, mentre Novello agisce in prima persona.

Tra Sforza e Montefeltro
Roberto oltre che con lo zio Malatesta Novello signore di Cesena, si era alleato con il milanese Francesco Sforza, primo suocero del padre.
Sigismondo fu accusato di aver strangolato Polissena Sforza, sua seconda moglie. Giuseppe Malatesta Garuffi spiega che se anche l'avesse fatto, Sigismondo avrebbe agito «per giusta ragione di Stato» avendo lei rivelato al padre, in lettere intercettate dal marito, «alcuni militari segreti del consorte».
Alla scomparsa di Novello, Roberto non è riuscito a succedergli occupando militarmente Cesena. Il conte di Urbino su incarico del nuovo papa Paolo II, a cui spettava la città in base ai patti firmati da Malatesta Novello il 12 novembre 1463, doveva prenderne possesso.
Roberto giocò d'anticipo, ma cambiò programma dopo l'arrivo sotto Cesena delle milizie di Federico da Montefeltro e soprattutto dopo aver ascoltata la promessa (poi rispettata sia da Urbino sia dal pontefice) di ricevere in concessione Meldola e Sarsina assieme ad altri territori.
Pio II il grande nemico di Sigismondo era morto il 15 agosto 1464. Il successore Paolo II, Pietro Barbo ex vescovo di Cervia, era stato padrino di Roberto al fonte battesimale (Donne, p. 411).
Paolo II, eletto in un conclave veloce durato soltanto dal 28 sera al 30 agosto, utilizza Roberto per evitare che Rimini cada in mano dei veneziani che già vi hanno una guarnigione di duecento fanti (richiesta dallo stesso Sigismondo, cfr. Tonini, V, 1, p. 307) per mantenere la pace durante l'assenza del signore impegnato condottiero in Morea.
Sparsasi a metà gennaio 1465 la notizia della morte di Sigismondo, il papa invia Roberto a Rimini dove però all'inizio di febbraio arriva la smentita del decesso di suo padre.

Isotta e Sallustio
Mentre la città è al centro di questo scontro d'interessi e della contesa politica fra papato e Venezia, il potere è esercitato saldamente da Isotta affiancata dal figliastro Sallustio.
I maggiorenti riminesi sono divisi tra chi appoggia Roberto e quindi, più o meno consapevolmente, pure il papa suo sostenitore, e chi è a favore di rapporti privilegiati con Milano (Roberto è al servizio di Francesco Sforza) o con Firenze. Isotta presentandosi invece come garante della Serenissima, ha quasi tutti contro.
L'assenza di Sigismondo da Rimini per la condotta in Morea contro i Turchi, spinge Roberto a ipotecare anche il governo di Cesena, quale successore di Novello. Contro il quale Isotta nel marzo 1465 prepara una congiura, facendo arrestare e torturare un famigliare del cognato, tale Giacomo.
Da Giacomo, Isotta voleva una falsa confessione per colpire Novello, delegittimandolo agli occhi delle corti italiane e per eliminare Roberto dalla scena politica.
Sigismondo fa però sapere ai diplomatici di Venezia che la successione a Cesena spettava a lui e non al figlio. Di Roberto non ci si poteva fidare, sostiene pubblicamente Sigismondo, perché avrebbe potuto tradire il casato e cedere il governo di Cesena al duca di Milano.
Il 5 ottobre 1465 l'ambasciatore milanese a Venezia scrive a Sforza che Sigismondo voleva rientrare in patria per raddrizzare le proprie cose con il papa allo scopo di riavere tutto od in parte il suo stato, ed anche perché aveva saputo dell'aggravarsi di Novello. Appreso che Roberto era stato inviato da Sforza a Cesena, Sigismondo temeva che Milano volesse impadronirsene.

La scomparsa di Novello
Il 21 novembre (Novello è morto la sera prima, ma l'ambasciatore ovviamente non lo sa ancora), il diplomatico milanese scrive un rapporto in cui ipotizza un accordo fra Roberto ed i fiorentini per cedere loro Cesena nel caso fosse riuscito nei suoi intenti di salire al potere. Il 25 novembre, dando la notizia della scomparsa di Novello l'ambasciatore riferisce che a Venezia si dà per certo che lo Sforza sta dalla parte di Roberto.
Il colpaccio di Roberto di conquistare il potere a Rimini attuato in proprio o per conto del papa, è respinto da Isotta. La quale fa processare, torturare ed impiccare un consigliere di Sigismondo, Iacopo Anastagi, accusandolo di essere un traditore in quanto fautore di Roberto. (Cfr. Campana, Isotta, Donne, p. 378).
La cosiddetta «congiura di Giacomo Anastagi» consiste nella proposta da lui fatta a Isotta di richiamare Roberto a Rimini. Scacciato dalla corte, Giacomo fu accusato d'aver voluto assicurare la successione a Roberto. La confessione gli fu estorta mediante tortura. (Cfr. Soranzo, Morea, pp. 243-247.)

Una libreria
Iacopo Anastagi lascia una bella biblioteca di cui conosciamo l'inventario (in R. Banker, A legal and humanistic library in Borgo San Sepolcro, «Rinascimento», II s., XXXIII, 1993, pp. 163-191). In essa si trovava l'orazione ufficiale tenuta da Giannozzo Manetti (Oratio Iannottii Manetti vulgaris ad Sigismondum, n. 185) a Vada nel 1453 quando al signore di Rimini sono confermati da Firenze «l'autorità del governo e 'l bastone» del proprio esercito.
Manetti è autore dei dieci libri Adversos Iudaeos et gentes pro catholica fide, ed assume Dante a simbolo della dignità umana, paragonandogli per i tempi più remoti la figura di Socrate (cfr. GARIN, L'umanesimo italiano, p. 70).
La presenza dell'orazione di Giannozzo Manetti nella biblioteca di Iacopo Anastagi, permette di ipotizzare che questi (strettissimo e fidato collaboratore di Sigismondo), abbia fatto confluire nella propria raccolta personale alcuni testi appartenenti al principe per cui lavorava. Anastagi possedeva anche due codici del De re militari di Roberto Valturio.

Roberto, Isotta e Sallustio
Roberto Malatesti dopo la morte del padre non si getta immediatamente nella mischia, ma prima accetta di amministrare la città assieme a Isotta ed al fratellastro Sallustio.
Isotta e Sallustio nel 1466 erano stati dichiarati da Sigismondo eredi di tutti i suoi beni. Il governo di Isotta, Roberto e Sallustio passa alla storia per un illuminato bando che concede la libertà di commercio d'importazione a tutti i mercanti cittadini e forestieri (Donne 2, p. 596; Masetti, Roberto p. 229).
Gli avvenimenti successivi al 9 ottobre 1468, giorno della scomparsa di Sigismondo, rivelano i contrasti esistenti in città ed all'interno di casa Malatesti. Isotta e Sallustio informano Venezia della «continua intelligenza» di Roberto con il signore di Milano (Masetti, Roberto, p 228) e delle continue insidie ed azioni dei fiorentini per controllare la situazione riminese.
Venezia risponde mandando un suo messo, Giovanni Elmo che, con la sua presenza, era garanzia indispensabile alla linea di Isotta.

Roberto dal papa
Intanto Paolo II convoca Roberto a Roma, facendosi promettere di restituirgli la città e quindi implicitamente di aiutarlo a cacciare Isotta ed i suoi alleati veneziani.
Roberto accetta, allettato dalla promessa di altri vantaggi territoriali dopo quelli ottenuti con la ricordata vicenda di Cesena del 1465. Roberto ha la segreta certezza di riuscire a non rispettare i patti, e di servirsene per poter prendere il potere a Rimini. Dove poi rientra da Roma.
Le cronache scrivono che il suo arrivo a Rimini avvenne segretamente, e forse lo fanno per creare attorno alla sua figura un alone di mistero allo scopo di segnalare la sua sagacia politica e la sua abilità strategica. («Sagace», è detto in cronaca veronese, Masetti, Roberto, p. 229.) Roberto non aveva bisogno di nascondersi, dato che aveva accettato di unirsi ad Isotta ed a Sallustio nel governo della città.
L'accordo con il papa è ancora una volta (come per Cesena) un fatto strumentale alla successiva mossa alla quale Roberto stava pensando: destituire Isotta, restando al potere soltanto con Sallustio.
In un secondo momento (aprile 1469) Sallustio è allontanato da Rimini con una condotta militare a Napoli nella lega antipapale guidata da Milano, Firenze e lo stesso re partenopeo.

1469, le bombe del papa
Il pontefice scalpita, rendendosi conto di essere stato beffato da Roberto che non ha mantenuto la promessa di prendere Rimini in nome della Chiesa. Paolo II invia a giugno i propri soldati contro Roberto.
Rimini vive un momento drammatico che avrà conseguenze gravissime nei tempi successivi. Un intero quartiere, il Borgo Nuovo di San Giuliano, è letteralmente cancellato (come racconta Luigi Tonini, Mille…).
Nell'agosto dello stesso 1469 le truppe papali entrano in città attraverso il fiume Marecchia. Roberto riesce a ricacciarle indietro, impedendo loro di proseguire verso l'antico foro romano.
Dal Borgo Vecchio di San Giuliano (che s'estendeva dal ponte di Tiberio sino alle mura poste dietro l'omonima chiesa), i pontificii bombardano Rimini, e poi ripiegano nella campagna dopo aver distrutto con le fiamme quasi completamente il Borgo Nuovo.
La gloria militare di Roberto risplende nelle cronache che ne esaltano il valore per aver combattuto ferocemente con le poche forze armate a disposizione. Ma il destino della città è segnato in maniera terribile dal quel fuoco che avvolge il Borgo Nuovo.

Cambia il volto della città
Questi avvenimenti, accaduti tra giugno ed agosto 1469, cambiano il volto della città. Ad essi però, da parte degli studiosi, non è stata prestata la necessaria attenzione.
Nel 1469 Rimini è dapprima bombardata con 1.122 colpi (Paci in Tonini V, 1, p. 335) dalle truppe pontificie appostate lungo il Marecchia (J. AMMANNATI, Commentari, Minuziano, Milano 1506, pp. 409-411), e poi vede bruciare «gran parte» del Borgo Nuovo di San Giuliano (Tonini, Mille, p. 152) che sorgeva dalla cinta malatestiana dietro la chiesa omonima lungo un chilometro e mezzo sino alle Celle «ove le strade per Bologna e per Ravenna fanno trivio» (Tonini, IV, 1, p. 443).
Il Borgo Nuovo è attestato dal 1248, ed era sede della fiera che prendeva nome dal luogo (vedi Statuti del 1351).
I bombardamenti del Borgo Nuovo di San Giuliano hanno un precedente nel 1356, con un analogo episodio accaduto in quello Vecchio: come si legge in Tonini, IV, 1, p. 151. Partendo dall'Annalista Cesenate, Tonini scrive: "Aggiunge lo stesso Annalista che ai 17 di Ottobre (1356) Francesco Ordelaffi Capitano di Forlì venne coi cavalli e coi fanti forlivesi e cesenati sin al Borgo San Giuliano di Rimini, facendovi abbruciar molte case, e traendone molti uomini e molta preda".
I bombardamenti e la distruzione del Borgo Nuovo di San Giuliano non sono elementi di sfondo come purtroppo appaiono a chi (e sono quasi tutti quelli che ne hanno scritto) riduce la storia ad una serie di fatti diplomatici e di illustri biografie.
Essi si presentano invece come un totale sconvolgimento la cui portata è avvertibile soltanto se li collochiamo in un contesto più ampio di quei fatti diplomatici e di quelle biografie che solitamente sono presi come contenitori con cui spiegare tutto.

Le fiere
L'aspetto economico di questo contesto consiglia di ricordare un dato non secondario. Il Borgo Nuovo sembra timidamente rifiorire all'inizio del 1500 con la «fiera delle pelli» che si tiene per la festa di sant'Antonio dal 12 al 20 giugno. La segue quella di san Giuliano nata nel 1351 nell'omonimo Borgo Vecchio (dal 21 giugno, vigilia della festa del santo, sino al 22 luglio).
Il calendario resta stabile fino all'inizio del 1600, quando soprattutto a causa delle carestie, le due fiere sono spostate fra settembre ed ottobre (cfr. R. Adimari, Sito riminese, Brescia, Bozzòli, 1616, II, p. 9), inglobando pure quella detta di san Gaudenzio nata in ottobre nel 1509.
La concentrazione delle tre fiere in un unico appuntamento (successivamente tra 8 settembre ed 11 novembre), è l'effetto del declino commerciale ed economico della città, a cui non si sa reagire. Nel 1627 esse (come unica «fiera generale») sono anticipate dal 15 agosto al 15 ottobre, e nel 1628 ritornano dall'8 settembre all'11 novembre (C. Tonini, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 1, cit, pp. 416, nota 1, e 455).
Nel 1630 è sospesa la «fiera delle pelli» per la pestilenza (C. Tonini, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 2, cit., p. 459), preceduta da due anni di carestia. Nel 1656 nasce invece la fiera di sant'Antonio sul porto, dal 6 all'11 luglio (riscoperta soltanto di recente).
Il Borgo Nuovo resta soltanto un vago ricordo storico ben sottolineato da Luigi Tonini (Mille, p. 152) che ipotizza la sua estensione sino alla chiesa delle Celle dove forse sorgeva la «porta nuova» di cui si legge in un atto gambalunghiano del 1310: «Anche una sola linea di case di qua e di là della strada poteva formare un bel borgo». Di quelle case, sottolinea Tonini, «si sono viste le fondamenta quando, in questi anni, il fiume si è avanzato fino a corrodere parte della strada maestra».

Sallustio ucciso
Riandiamo al 1469. Il drammatico esito della campagna militare pontificia sembra quasi istigare la popolazione a ribellarsi per disperazione e non per condividere il progetto politico di questa o di quella parte.
Sallustio scompare presto dalla scena. Nella notte dell'8 agosto 1470 il suo corpo è trovato senza vita sopra un mucchio di letame dietro la casa della famiglia Marcheselli a cui apparteneva la giovane di cui egli si era invaghito (Masetti, Roberto, pp. 211, 260, 236 Malatesti). Ed un cui componente, Giovanni Marcheselli, fu accusato del delitto. (Un fratello di Sallustio è il canonico Galeotto, abate di San Gaudenzo dal 1500 al 1527.)
Linciato dal popolo (che era guidato da Gasparino Bianchelli, amicissimo di Sallustio Malatesti: cfr. Clementini, II, p. 509) e ridotto in fin di vita, Giovanni Marcheselli fu lasciato morire vicino all'anfiteatro. Le autorità quattro giorni dopo fecero bruciare il suo cadavere.
I Marcheselli subirono la condanna dell'esilio, mentre su Roberto presero a circolare voci che lo volevano mandante dell'omicidio del fratellastro Sallustio. Roberto si difese accusando i Marcheselli che erano imparentati con un condottiero della Chiesa. Per questo motivo essi risultavano un «mortalissimo» nemico dei Malatesti (p. 237).


Alle origini di Rimini moderna.
1. Storie malatestiane del XV secolo
1. 5. Note e bibliografia
1. 4. Crisi, dalla dinastia alla città
1. 3. Plebe partigiana e delitti politici
1. 2. Profilo di una città, 1429-1469
1. 1. Premessa. Malatesti, Europa e Chiesa
© by Antonio Montanari 2010

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