Aurelio de' Giorgi Bertòla, un poeta per l'Europa
Forzato in monastero, ebbe come vera vocazione la letteratura.
["il Ponte", Rimini, n. 3, 19.01.1992]
«Sei tu che non sai vivere
E dài la colpa al mondo».
«Uno de' più cari piaceri della vita... è passare qualche ora a leggere o a scriver de' versi».

Forzato in monastero, ebbe come vera vocazione la letteratura. Le liriche ed il celebre «Viaggio sul Reno». Dopo il 1789, anche lui ha idee "francesi" dalla famigliari e scrittori di casa nostra.
Il debutto letterario. Nel 1774, muore Clemente XIV, il santarcangiolese papa Ganganelli che l'anno prima ha abolito la Compagnia di Gesù. Nel 1775, Bertòla pubblica in sua memoria le «Notti Clementine», ricevendo gli elogi di Metastasio: Bertòla fa l'imitazione di un autore allora in voga, l'inglese Young, uno dei padri del preromanticismo europeo. Nel 1783, il cardinal Garampi lo raccomanda per la cattedra di Storia all'università di Pavia. Abate olivetano a 15 anni, si pente subito della scelta. La madre lo difende: è stato l'altro figlio a volere Aurelio in monastero, con «brutali minacce». La stagione napoletana in una corte chiacchierata. Parini e Beccaria, amici lombardi. E a Venezia, conosce Foscolo che lo ricorderà nell'«Ortis».

Quel bambino, nato il 4 agosto 1753, si chiamerà Severino. Suo padre è Antonio Bertòla, anziano "capitano di soldati", appartenente ad una famiglia di origini mercantili lombarde, stabilitasi a Rimini all'inizio del XVII sec., ed ora in gravi difficoltà economiche. La madre è Maddalena Masini ved. Valentini. Anche il cap. Bertòla è alle seconde nozze. Dalle prime (la moglie si chiamava Isotta), gli è nato Cesare, molti anni fa.
Severino è gracile, lascia presagire un fisico inadatto alla vita militare che sarà seguìta invece da Cesare. Padre e fratellastro forse pensano che, per sistemarlo nella vita, c'è pur sempre la carriera ecclesiastica. Il vescovo di Todi, mons. Francesco Pasini, è un loro parente, e potrà aiutarli con un'autorevole protezione.
Le cose vanno nel senso desiderato. Severino cresce bene negli studi liberali, ed offre precoci dimostrazioni di un talento eccezionale. Mons. Pasini viene informato su quel ragazzino che divora libri: nel seminario di Todi, potrebbe avviarsi verso l'abito talare, oltre che coltivare quegli interessi letterari che costituiscono, per la verità, la sua unica vocazione.
Severino ha poco più di 10 anni quando lascia Rimini e la famiglia, per recarsi a Todi, dove continua a dar prova del suo brillante intelletto. A 13 anni, nel 1766, traduce dal tedesco «Le quattro età della donna», di Guglielmo Zaccaria. È una specie di premonizione, per la scelta linguistica, e per l'argomento del testo.
Il 10 novembre 1768, Antonio Bertòla muore. Severino ha 15 anni. Il fratellastro, conosciuto come un vecchio scapolo libertino (1), conferma i progetti per il ragazzo. Un altro parente può aiutarlo ad entrare nella carriera ecclesiastica, l'abate di S. Maria di Scolca al Covignano, padre Giacinto Martinelli. Maddalena Bertòla, timida e debole, s'arrende alla proposta di Cesare. Vede «in questa risoluzione», come scriverà lei stessa, «una specie di bene al quale non seppi oppormi». (2)
L'abate Martinelli, racconta ancora la madre, va a prendere Severino «onde condurlo seco alla sua abbazia». Dopo una settimana, l'abate assicura alla pia donna che il figlio «era animato da una vera vocazione». (3)
Severino, confesserà Maddalena Bertòla, «aveva ricusato a lungo di vincolarsi, entrando in religione». Ma fu costretto a prendere i voti «da chi aveva avuto cuore di sacrificarlo alle mire della propria ambizione». (4)
La madre ammette che avrebbe dovuto assicurarsi su quella vocazione, «non esaminata se veniva dal cielo, o se era una velleità ispiratagli dalle insinuazioni del cugino», abate Martinelli. (5)
La donna ricorda quanto il figlio le aveva confidato, cioè «che, nell'atto ancora di proferire i solenni voti religiosi, la lingua sola articolava quelle irrevocabili parole, ma l'assenso della volontà non vi interveniva». (6)
Da quel momento, a 15 anni, Severino diventa Aurelio Bertòla, monaco olivetano. Davanti al notaio, egli lascia la metà delle sue entrate al cugino Domenico, il quale revocherà il 30.12.1769 la rinuncia a sua favore, girandola al «nob. sig. capitano Cesare», forse costretto da quest'ultimo. Tre anni dopo, Cesare, «infermo di corpo», riconoscerà come eredi due domestici, Gaspare ed Antonia Donini.
Nel 1770, Aurelio ha dei momenti di crisi. A 17 anni, quando natura e fantasia spingono verso un mondo di libertà, soprattutto in un temperamento fervido e sensibile come il suo, vedersi costretto nel monastero contro il proprio volere, lo porta a ripensare quella scelta forzata. Ma se uscisse da S. Maria di Scolca, le sorti economiche di Cesare subirebbero un'inattesa svolta.
La difesa che Maddalena Bertòla fa del figlio è del 1° gennaio 1771: oltre alle parti già citate, in essa c'è anche l'accusa a Cesare di aver parlato ad Aurelio «in modo da fargli vedere impossibile la sua uscita dalla Religione», e di averlo lasciato «pieno di apprensione e di paura con varie e brutali minaccie che nell'animo di un giovinetto dovevano fare la più forte impressione». (7)
Il documento della madre è stato inviato al monastero, per un estremo tentativo di farne uscire il figliolo?
Aurelio vede un'unica via di salvezza, la fuga. «Preso da un assalto di scontentezza», come scrive il suo primo biografo, Pompilio Pozzetti, Bertòla se ne va in Ungheria, a tentar fortuna «nelle marziali divise». (8)
Aveva bisogno di una rivalsa verso il fratellastro, per dimostrare che pure lui poteva emergere nella carriera militare. Ma il fisico debole lo sconfigge: «caduto infermo», viene aiutato a far ritorno in mezzo ai suoi monaci, nonostante «l'innata avversione alla claustral disciplina». (9)
Siamo nel 1772 o '73. Gli Olivetani di Rimini lo accolgono a braccia aperte, a quanto sembra. E lo fanno promuovere lettore di Italiano presso i confratelli di Siena: così si tolgono di mezzo quel ragazzo tanto inquieto.
Nel '74, muore Clemente XIV, il santarcangiolese papa Ganganelli che l'anno prima ha abolito la Compagnia di Gesù. Nel '75, Bertòla pubblica in sua memoria le «Notti Clementine», ricevendo gli elogi di Metastasio: è l'imitazione di un autore allora in voga, l'inglese Edward Young (1683-1765), uno dei padri del preromanticismo europeo.
Quando, nello stesso '75, muore (a 82 anni, per un colpo di freddo preso in Duomo durante una funzione), il medico ed erudito riminese Giovanni Bianchi, Bertòla sulla «Gazzetta Universale» di Firenze scrive che il venerato maestro in vita era stato «ributtante disprezzatore d'altrui», «soggetto alle bassezze dell'ambizione», scienziato un pò approssimativo ed arretrato, che si era posto «contro tutto il mondo illuminato», polemizzando con i sostenitori dell'innesto del vaiolo. (10)
Sono sacrosante verità che colpiscono un dotto quasi venerato a Rimini, da dove rispondono a Bertòla che lui è «uno sfacciato monaco», un «temerario untorello» servile imitatore degli oltremontani, un «giovinastro già screditato per la notissima sua apostasia. (11)
Ma lui se la ride della «grossolana Riminese improprietà», anche se per farsi perdonare scrive un'ode in onore di Bianchi («Rimini mia non piangere, / vive il divin tuo Planco...»), che però non risparmia a Bertòla l'ironica accusa di leggere i «frivoli volumi» degli illuministi francesi Montesquieu e Condillac.
È lo scontro tra due culture. Bertòla sta dalla parte delle nuove idee, anche se la sua vicenda personale lo porta a contatto con il vecchio regime. Dal 1776 all'83, egli vive la stagione napoletana, insegnando Storia e Geografia all'accademia navale, e conoscendo Pindemonte, in un ambiente cosmopolita influenzato dagli illuministi partenopei. Si rivela traduttore e diffusore della cultura tedesca. Ma, assieme agli studi, ci sono anche gli amori con le dame della corte di due re corrotti come Ferdinando IV e Maria Carolina, dediti ad ogni licenza.
Nel '77, Bertòla s'ammala gravemente «di petto», e scrive di essere un «solitario infelice» vicino alla morte. L'anno dopo, vorrebbe cambiar vita: ammogliarsi, o tutt'al più lasciare il saio ed andare a Malta, nella Cappelleria reale. L'abate Gian Cristofano Amaduzzi (tipo inquieto pure lui, ma soltanto per motivi intellettuali), gli scrive di darsi una regolata: «Fissatevi una buona volta seriamente». (12)
Adesso, lo tenta una cattedra di Filosofia morale a Ferrara. Entra in Arcadia, con il nome di Ticofilo Cimmerio, ma si prefigge di ricopiare nei suoi versi la natura «tal quale è, senza il vecchio cerimoniale d'Arcadia». (13)
L'amico duca di Belfort lo definisce «cigno instabile che sempre vola». Non è soltanto una facile rima col cognome, ma un efficace ritratto. Irrequieto, elegante, a 30 anni, nel 1783, Bertòla torna a Rimini, dove ottiene «licenza di vestir l'abito di prete secolare», e poi va a Vienna: tramite il concittadino card. Giuseppe Garampi, nunzio apostolico in quella città, riesce a conseguire la cattedra di Storia a Pavia. Vi rimarrà fino al '97, stringendo amicizia con letterati e scienziati come Bettinelli, Beccaria, Parini, Spallanzani e Volta.
Parlatore elegante, Bertòla esprime ora un fascino fatto di intelligenza ed inquietudine. Piace ai dotti, ma anche al gentil sesso. Delle sue conquiste, tiene una «rubrica». L'eleganza del portamento, il fisico snello e asciutto completano il ritratto dell'abate cicisbeo, così tipico in un'epoca che si consuma tra vere passioni ed ipocrisie arcadiche.
Sùbito dopo l'arrivo a Pavia, con la contessa veronese Elisabetta Contarini in Mosconi inizia una relazione da cui nasce, il 10 maggio 1785, una bambina. La Mosconi è stata anche l'amante di Pindemonte che, in una lettera a Bertòla, ne parla come della «nostra Bettina». Lei è innamorata alla follia. Bertòla progressivamente si raffredda «fino alle vili e sanguinose offese e alle fosche allusioni al di lei passato». (14)
La Mosconi gli confessa che il proprio marito, di 60 anni, «è pienamente convinto che la nostra amicizia non sia fondata che sulla semplice letteratura». Lei è gelosa dell'amante che miete vittime tra i cuori femminili. Nell'83, il nostro abate ha abusato «senza tanti scrupoli d'una tredicenne Marietta, presso i cui parenti fu ospite in un viaggio alla Pontebba». Su quella relazione, egli scrive delle note «in termini così osceni, che sembrano pagine del celebre Casanova». D'altro canto, alcune lettere alla Mosconi sono «molto indecenti». (15)
Bertòla è consapevole della sua «continua ed orribile contraddizione: l'idea de' miei doveri mi spaventa». Tuttavia, non tralascia di comporre sonetti erotici su quelle avventure. È la moda del tempo.
Nel periodo pavese, scrive tanto e viaggia di continuo: in Svizzera (dove conosce Salomone Gessner, di cui ha tradotto gli idilli), in Austria, in Ungheria (con il card. Migazzi, arcivescovo di Vienna), in Germania da dove ritornerà con gli appunti che sono poi sviluppati nel celebre «Viaggio sul Reno» del '95. Nell'87, pubblica un volume dai presupposti illuministici, «Della Filosofia della Storia», che è il primo in Italia a portare questo titolo: la Storia non è vista come erudizione, ma quale strumento per conoscere i popoli, per unirli in solidarietà e fratellanza.
A Venezia, nel salotto di Isabella Teotochi Albrizzi, conosce Ugo Foscolo. Isabella traccia un medaglione celebre di Bertòla: «La sua sensibilità non ha pari... Vuol essere sempre indipendente... Preferisce all'amare l'esser amato... Tacito, Dante, Machiavelli, Alfieri increspano troppo i delicati suoi nervi, quasi li spezzano...: e poi non iscordarti che natura stessa lasciollo imperfetto». (16)
Nel 1788, Bertòla diventa frammassone, seguendo i princìpi di un riformismo che rispetti sovrani, religione e buoni costumi. Le sue condizioni di salute peggiorano di anno in anno. Nel '90, tiene lezione in casa. È colpito da aneurisma, e nel '97 deve lasciar la cattedra. Torna a Rimini, poi se ne scappa a Roma con il gen. Colli, per timore di essere arrestato «come uomo di opinioni infette e perverse». (17)
Da Roma, dove si sente ancora perseguitato per le sue idee, va a Siena; torna ancora a Rimini. Qui è chiamato ad incarichi politici, dai francesi e dagli intellettuali democratici. Nel '93, pubblica le «Idee di un repubblicano sopra un piano di pubblica istruzione», commissionatogli dall'Amministrazione centrale dell'Emilia: insiste sull'idea di una Storia che spieghi le ragioni dei fatti. Il repubblicano Bertòla dimostra di aver ben assimilato la lezione illuministica di Napoli.
All'inizio del '98, va a Milano, ma infine si ritira a Rimini. Ormai ridotto in povertà, e costretto a mendicare un sostegno dagli amici, è ospitato dal cav. Francesco Martinelli. Si spegne il 30 giugno dello stesso 1798.
«Morì di consunzione», scive Pozzetti. Lo stroncò, secondo le retoriche parole di Carlo Tonini, «quello stesso entusiasmo della fantasia e del cuore, a cui debbe principalmente l'immortalità del nome». (18)
Nell'elogio funebre, il curato di S. Maria in Trivio presso i Francescani, padre Francesco Maria Veroli, indica le cause della morte in un violento e triplice morbo: idropisia, tisi e lebbra. Lebbra intesa quale corruzione morale, alla maniera dei predicatori medievali. Come Carlo Innocenzo Frugoni (1692-1768), il nostro Bertòla avrebbe potuto dichiarare: «Fui cattivo claustrale perché fatto per forza...».
Bertòla fu sepolto nel Tempio malatestiano. Nessuno sa dove. (19)
In una pagina dell'«Ortis», datata «Rimino, 5 marzo 1799», Ugo Foscolo scrive: «Tutto mi si dilegua. Io veniva a rivedere ansiosamente il Bertòla; da gran tempo io non aveva sue lettere - È morto».
Cinque anni prima, si era rivolto a lui con questi versi: «Odi un poeta giovane, che... co' suoi canti vola al suo gentil Bertòla».

Note
(1) Cfr. Giulio Scotti, La vita e le opere di A. Bertòla, 1896, Milano, p. 12.
(2) Cfr. i documenti riportati in Appendice al cit. Scotti, pp. 81-82.
(3) Ibidem.
(4) Cfr. G. Scotti, cit., p. 11.
(5) Cfr. documenti, ib., pp. 81-82. A padre Giacinto Martinelli, Bertòla dedicherà, nel 1781, un «Elogio» funebre, pubblicato a Napoli.
(6) Cfr. G. Scotti, cit., p. 11.
(7) Cfr. documenti, ib., pp. 81-82.
(8) Cfr. Notizie per l'elogio di Aurelio De' Giorgi Bertòla esposte da Pompilio Pozzetti, presso Giacomo Marsoner, Rimino, 1799, p. 6.
(9) Ibidem, p. 7.
(10) Cfr. Antonio Piromalli, La storia della cultura, in «Storia di Rimini», V vol., Ghigi, Rimini, 1981, p. 20.
(11) Ibidem.
(12) Cfr. G. Scotti, cit., p. 15. L'abate Amaduzzi, nato a Savignano nel 1742, morì a Roma nel 1792. Scrisse su molti argomenti, dalla Storia alla Teologia. Ebbe un orgoglio che «gli fu spesse volte funesto», ed apparve «quel che infatti non era, turbolento, ardito ed anche irreligioso» (cfr. Ab. Isidoro Bianchi, Elogio dell'Ab. G.C.A., Pavia, 1794, p.42).
(13) Dall'introduzione alle Operette, 1785.
(14) Cfr. G. Scotti, cit., p. 19.
(15) Ibidem, p. 21 e p. 19.
(16) Cfr. il documento in Carlo Tonini, La Coltura letteraria e scientifica in Rimini, Danesi, Rimini, 1884, pp. 425-7.
(17) Cfr. la lettera del Bertòla dell'11.2.1797.
(18) Cfr. C. Tonini, La Coltura cit., p. 376.
(19) Cfr. Giulio C. Mengozzi, Tombe ignorate in S. Francesco, in «Il Malatestiano, numero unico...», 1950: non si conosce «l'ubicazione del sepolcro», sono scomparse le lapidi, i resti mortali del Bertòla «tuttavia riposano nel Malatestiano».

[Fonte di questo articolo, "il Ponte", Rimini n. 3, 1992, "Le sudate carte. 3".]


Alle pagine su Bertola.
Biografia [*]
Bertola politico, presunto rivoluzionario
Una vita nascosta tra poesia e filosofia [*]
Le "Notti" di Bertola per Papa Ganganelli
Scritti miei su Bertola
Elisa Mosconi
Viaggio sul Reno
Diario inedito di Bertola. III edizione (2010, inedita) [*]
Aurelio Bertola, Diario inedito. Nuova edizione [Scribd, 07.01.2011]
Alla ricerca di una vita nascosta (inedito)
Bertola redattore anonimo del Giornale enciclopedico di Venezia [*]
Bertola e la Storia
Bertola e la "Filosofia della Storia", edizione 2002 a cura di Fabrizio Lomonaco

Il Settecento riminese
Antonio Montanari

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