| Davanti alle tragedie che colpiscono l'umanità, come quella dello scorso 11 settembre, si accende inevitabilmente la discussione politica, e si tenta di dipanare la matassa degli eventi, andando un poco più oltre le cronache che appaiono sui giornali. Si cerca di indagare sulla Storia, di interpretarla, di scoprirne i segreti, ammesso che essa ne abbia. Ed è proprio un riminese vissuto oltre due secoli fa, che si è guadagnato un nome nel mondo della cultura europea per aver tentato di descrivere i meccanismi che, a suo dire e secondo le idee dei suoi contemporanei, guiderebbero gli eventi umani. Il personaggio di cui parlo è Aurelio Bertòla (1753-98) che nel 1787 compilò un noiosissimo e lungo trattato, «Della Filosofia della Storia», il primo in Italia a portare questo titolo. Di importante c'è qui che Bertòla non intende più la Storia come semplice erudizione, ma come uno strumento per conoscere i popoli, per unirli in solidarietà e fratellanza. Bertòla si dimostra fiducioso in un riformismo di stampo illuministico: infatti, egli sostiene che i governi, con le loro leggi, potranno «loro forza e prosperità mantenere per un giro di secoli». Nessuno è profeta, quindi non mettiamo in croce Bertòla per aver clamorosamente sbagliato le previsioni. Quando scrive, siamo alla vigilia della rivoluzione francese, e lui non avverte nell'aria nessun segno premonitore, a differenza dell'abate savignanese Giovanni Cristofano Amaduzzi, qualche anno prima. In un passo molto significato del suo testo, Bertòla spiega che i «lumi del secolo, i progressi dei civili sistemi ed i prodigiosi accorgimenti della politica» potevano far nutrire la speranza di un futuro tranquillo. Però sùbito aggiunge, non per correggere il tiro ma per completare il discorso, che non ci dobbiamo lasciar affascinare dalle idee frivole e vane di «una esteriore felicità, che la natura nostra manifestamente ci nega». Davanti alla «caducità inevitabile» dell'universa rovina, all'uomo per salvarsi tocca innalzare (con la stessa ragione) la propria anima eterna verso ciò che è altrettanto eterno ed incorruttibile, ed in cui egli deve cercare sede e riposo. La conclusione religiosa del suo discorso non è un fatto ovvio in un uomo che visse più obbedendo ai sensi che alla fede ed agli obblighi derivantigli dal suo stato di monaco (poi con licenza di vestire da prete secolare). Questa conclusione è quasi la confessione segreta dell'impossibilità umana di decifrare la Storia nel suo divenire presente e nel suo essere passato. L'ottimismo sfociato nella 'speranza' di secoli di tranquillità, non nasce soltanto dall'adesione allo spirito illuministico, ma anche dalla mancanza di uno studio disciplinato che gli offrisse consapevolezza delle tensioni esistenti nel suo tempo. D'altro canto, e questo è un fatto da notare, nella «Filosofia della Storia» egli non tratta per nulla del periodo moderno che va dalla rivolta dei Paesi Bassi (1566-81) alla Dichiarazione d'indipendenza americana (1776). La sua formazione, che appare chiaramente nell'opera, era tutta intessuta di rimandi alla classicità, secondo l'educazione ricevuta fin da fanciullo. Scoppiata infine la rivoluzione francese, e giunta pure in Italia la bufera d'Oltralpe con la campagna napoleonica, Bertòla s'interroga ancora sui temi del libro dell'87. E dà risposte più disincantate e problematiche. Ora la Storia gli si presenta come un mistero fitto: non è più quel meccanismo composto di definitive classificazioni presentate nella «Filosofia della Storia». In uno scritto compilato poco prima di morire, Bertòla osserva che la verità sembra «voler più fuggire chi più qui l'insegue». Ogni ricerca sembra quasi inutile. Avverti come la delusione dell'intellettuale che, davanti alle prepotenze dei francesi, vede crollare la sua concezione del mondo. (E lui passa per un giacobino rivoluzionario
) La grandezza di un'intelligenza, si rivela proprio quando scopre e confessa gli errori di valutazione compiuti in passato: come fa Bertòla alla fine dei suoi giorni, lasciando un messaggio intellettuale (e morale) sul quale è utile riflettere. Anche (se non soprattutto) nei nostri, tragici giorni.
© by Antonio Montanari [2001] |
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