Riministoria © Antonio Montanari Nozzoli

Aurelio Bertòla, filosofo suo malgrado
A Napoli esce un'opera del riminese sulla Storia

Esce a Napoli presso l'editore Liguori ed a cura del prof. Fabrizio Lomonaco, docente nell'Università partenopea, un testo del poeta riminese Aurelio De' Giorgi Bertòla (1753-1798), figura importante della cultura non soltanto italiana. La sua fama girò veloce in tutto il continente, lui ancora in vita, e si consolidò dopo la prematura scomparsa. Alla fine del 1992, nel capitolo che gli dedicai nei miei «Lumi di Romagna» pubblicati dal «Ponte» (con immediata, prima ristampa agli inizi del 1993), lo definii «un poeta per l'Europa». Il volume contenente gli atti del convegno bertoliano cittadino del 1998, apparso nel 2000, porta un titolo analogo: «Un europeo del Settecento».

A renderlo celebre nei salotti del suo tempo ci pensarono con i loro innamoramenti le numerose dame sulle quali Bertòla esercitò un fascino a quanto pare irresistibile. Ma il nostro abate ebbe (ed ha) gloria sicura anche per altre doti più durature delle passioni sentimentali. La sua opera in versi ed i suoi studi letterari lo hanno immortalato nel ricordo dei posteri. Nelle biblioteche e nelle Università ancora oggi lo si legge ed esamina.

La meritoria fatica del prof. Lomonaco testimonia questo interesse del mondo accademico verso Bertòla. Si tratta della edizione di un testo poco conosciuto ma molto significativo per comprendere l'intera esperienza intellettuale del riminese, il «Della Filosofia della Storia», stampato per la prima volta nel 1787, quando egli era a Pavia, dopo il lungo soggiorno napoletano (1776-83).

A Napoli, Bertòla si era trovato in una particolare situazione culturale e psicologica. Da una parte c'erano le più svariate sollecitazioni mondane; dall'altra, il suo ripiegarsi in una meditazione la quale lo portava a constatare che dissipava la propria vita ed il proprio talento.

Avvertì un contrasto insanabile, che forse è superfluo definire apparente, essendo il suo stesso modo di celarsi una rivelazione. Questo contrasto è soltanto uno dei tanti che caratterizzano una persona la quale ebbe come unica vocazione la poesia, ma che fu costretta a quindici anni ad un forzato ingresso in monastero.

Per quanto fossero libertini quei tempi, il suo stato religioso non poteva non essere in contraddizione con una sensualità accesa, insaziabile, a tratti violenta, manifestata tra i plausi dei salotti e delle dame, ritrose per gioco ed accondiscendenti con le mille giustificazioni che cultura, Filosofia e costumanze fornivano loro senza limiti. Dame il cui consenso rendeva Bertòla convinto del suo procedere secondo natura, alla ricerca di quella "voluttà" da lui vanamente teorizzata quale idolo e scopo della vita umana.

In questa dissipazione, come lui stesso la chiama, Bertòla ad un certo punto si convince che deve mutare la sua immagine pubblica, e confida in un'epistola all'abate Giovanni Cristofano Amaduzzi, ricercato ed inascoltato maestro di bon ton esistenziale, che gli nuoceva "esser poeta" (1779).

Eccolo allora, il nostro Bertòla, mimetizzarsi nei panni austeri del pensatore che si applica a argomenti diversi, i quali approdano alla stesura della "Filosofia della Storia" (1787), le cui modalità stilistiche così opposte a quelle del prosatore elegante e affascinante che era, ci indicano tutta la tensione che lo sforza ad abbandonare l'istinto letterario suo proprio, ed a recitare una parte saccente e noiosa, grazie alla quale sperava di guadagnare i conforti di potenti protettori. Fu filosofo, alla fine, o cercò di apparire tale, suo malgrado.

Ad un certo punto, non per conversione, ma per insensibile adeguamento a quello che M. A. Macciocchi nella bella biografia di Luisa Sanfelice chiama un "vezzo di gran moda" tra gli intellettuali dell'epoca, sposa le tesi filantropiche degli "illuminati" massonici, esibendosi in un ruolo utile alla carriera ma non corrispondente alle sue condizioni emotive. Le certezze che egli esibisce in molte pagine (prese a modello per dimostrare una sua precisa scelta ideologica), nascondono le inquietudini dolorose che ancor oggi feriscono il lettore del suo epistolario.

Lomonaco, nella sua accurata ed acuta introduzione, non vuole «ricostruire il profilo complessivo» di Bertòla, ma aiuta molto il lettore a comprendere le tappe di un itinerario umano, non soltanto culturale, compiuto nel periodo napoletano «tra poesia, natura e storia».

Lomonaco sottolinea la modernità di Bertòla, consistente nell'impegno che questi dimostra svelando come dallo studio dei fatti particolari si possa assurgere a vedute generali, per poi ridiscendere alle storie singole. La riflessione di Bertòla ripercorre il cammino compiuto da altri studiosi del Settecento. Si allontana dai modelli di curiosità erudita, e guarda «a' fatti, e a ciò che da' fatti è avvenuto», come lui stesso scrive.

In questo modo, aggiunge Lomonaco, anche Bertòla mette in discussione il modello di Storia universale d'impianto teologico, e riafferma il valore delle «ricerche filosofiche» verso le quali manifesta sempre maggior attenzione: «che è mai la Storia senza la Filosofia, e che è mai la Filosofia senza gli esempi?», scrive all'amico-maestro Amaduzzi nel 1779. Sono i giorni in cui Bertòla cerca invano aiuti per farsi trasferire all'Università di Ferrara (ed ottenere una Cattedra di Storia).

Amaduzzi gli risponde facendogli notare: « [...] dubiterei moltissimo, che Ferrara potesse essere un teatro sufficientemente atto a fermare la vostra irrequieta volontà e ad appagare il vostro genio, e i vostri bisogni letterari». Amaduzzi conosce bene il segreto dell'inquietudine di Bertòla, e cerca inutilmente di guidarlo verso momenti di stabilità emotiva.

Le aritmie intellettuali di Bertòla ne condizionano lo studio e l'attività di scrittore, come dimostra la confessione di un senso del limite che egli avverte con chiarezza quale ostacolo insormontabile alla prosecuzione del suo lavoro. Questa «Filosofia della Storia», dichiara nell'introduzione, si sofferma soltanto «sull'antica storia»: per indagare sulla «moderna», gli sarebbe occorso uno studio più ampio per il quale, conclude, «né talento abbiamo né salute, né tempo per ora che basti».

In queste parole, di sfuggita se non di nascosto, Bertòla apre uno spiraglio attraverso il quale il lettore che ama la sua figura, riceve la sollecitazione ad avere un moto compassionevole verso di lui: è come la confessione di un «male di vivere», nascosta in mezzo a motivazioni di metodo riservate agli studiosi. Ai quali spiega che, per riempire l'intervallo fra Storia antica e moderna, s'incontrano infinite «eccezioni» al metodo di analisi sinora usato.

Comincia forse qui, con quella «excusatio» in chiave soltanto autobiografica («né talento abbiamo né salute, né tempo»), una riflessione sul procedere della Storia, destinata a diventare dolorosa materia (e prova) dell'esistenza individuale quando approdano anche in Italia le truppe napoleoniche.

Come ho scritto in un volume degli «Studi Romagnoli» del 1997 (e ringrazio il prof. Lomonaco di aver riportato la mia citazione), c'è una pagina di Bertòla che avrebbe dovuto apparire sulle «Letture istruttive» proprio nel giorno della sua morte, il 30 giugno 1798. In essa il riminese passa dalla rigida visione espressa nella «Filosofia della Storia» ad una considerazione più disincantata e problematica delle vicende umane: dagli stessi princìpi, scrive, possono «derivare talvolta conseguenze differentissime», e la verità sembra «voler più fuggire chi più qui l'insegue».

A queste conclusioni Bertòla arriva per via di esperienza diretta, a dimostrazione che Storia, Filosofia e quant'altro sono nulla senza quella Scienza che è la stessa vita a fornirci, spesso crudelmente: lo dimostrano gli ultimi affannosi anni del Nostro, quando è costretto a mendicare aiuti da Roma e contemporaneamente dai francesi, come risulta da tante sue pagine, mentre lavora quale giornalista per la (presunta) rivoluzione, e progetta di fuggire non fra le braccia di Napoleone, ma a Vienna, dal nemico dei soldati repubblicani.

All'inizio di quel suo libro fondamentale (e non soltanto per gli studi serriani) che è "Il lettore di provincia" (1964), Ezio Raimondi riportava una paginetta del critico cesenate in cui si affronta il tema della "maschera dello scrittore" (nello specifico Kipling), e della "figura" che questi prende in pubblico. L'osservazione di Serra, al di là delle implicazioni autobiografiche per il bibliotecario malatestiano che Raimondi individua nel suo presentarsi come "lettore dilettante", può essere utile anche per Bertòla.

Bisognerà che anche per questi un giorno si compili una biografia critica, in cui la sua produzione intellettuale venga letta non solamente attraverso le coordinate della cultura settecentesca, ma pure attraverso questo suo continuo oscillare tra verità esistenziale e "figura" letteraria, evitando ogni preconcetto moralistico e tentando di coglierne il vero significato: le sue contraddizioni lo perseguitarono fino alla morte, quando le esequie furono non un omaggio pubblico alla grandezza del suo genio, ma una cerimonia rapida e nascosta per non celebrare le glorie mondane di chi veniva reputato un nemico della Chiesa.

E che della sua tomba, nel Tempio Malatestiano di Rimini, oggi nulla si sappia, pare quasi un particolare simbolico della dimenticanza che avvolge la vera storia della vita di Bertòla.

Antonio Montanari

Riministoria. Studi sul 1700

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747/20.01.2003