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Myanmar, che altro dobbiamo aspettare?

Non si può certo dire che la situazione in Myanmar di questi giorni giunga inaspettata. La giunta militare birmana, che ha preso il potere con la violenta repressione del 1988, ha governato il paese in questi 19 anni utilizzando la repressione come strumento fondamentale per mantenersi al potere, contro un'opposizione che si è sempre ostinata a utilizzare gli strumenti della non violenza e del dialogo. Decine di migliaia di persone sono state incarcerate: alla fine del 2006 almeno 1160 persone si trovavano in carcere per motivi politici, sottoposte a torture e maltrattamenti. Alcune condannate a 50 anni e più di carcere. In più riprese sono avvenuti gravi episodi di repressione di manifestazioni pacifiche, come nel maggio del 2003, quando almeno 80 persone sono state uccise, lontano da telecamere e dalla possibilità di portare una testimonianza di quanto accaduto al mondo. Oggi, grazie alle immagini diffuse attraverso internet, ci si accorge finalmente delle violazioni dei diritti umani in Myanmar. Si rammenta che è uno dei paesi che più fa uso dei bambini soldato, dove esiste endemica la piaga del lavoro forzato, dove si pratica la pulizia etnica nei confronti delle minoranze che popolano le zone più periferiche del paese e che da sempre si contrappongono al potere centrale. Ci viene ricordato che un Premio Nobel per la pace, Aung San Suu Kyi, si trova agli arresti domiciliari da 18 anni, e che nei rari periodi nei quali non lo è stata era sottoposta a notevoli limitazioni della propria libertà personale. Una comunità internazionale distratta e concentrata su altre questioni ha ampiamente ignorato, in questi anni, il Myanmar. Non in pochi hanno però ignorato le possibilità economiche che offre questo paese, potenzialmente ricco, ma che le scellerate politiche economiche del regime hanno reso uno fra i più poveri del mondo. Non è un mistero che, a dispetto di condanne ufficiali e dichiarazioni roboanti, fra i maggiori investitori in Myanmar ci siano Francia, Usa e Gb. E poi c'è la Cina, che insieme alla Russia è riuscita a paralizzare il Consiglio di sicurezza, venendo ancora una volta in aiuto ai militari birmani. Non si tratta solamente della tutela dei propri interessi economici, ma anche e soprattutto del sancire che si tratta di «questioni interne al paese». Ottimo principio da salvaguardare, per chi non vuole che la comunità internazionale possa avere legittimazione nell'andare a occuparsi di loro questioni interne, come la Cecenia o il Tibet. Amnesty International ha apprezzato la decisione del Segretario generale dell'Onu di inviare un proprio rappresentante speciale in Myanmar, ma non basta. Il Consiglio di sicurezza deve inviare con la massima urgenza una propria missione, che chieda al governo di garantire la libertà di manifestazione, porre fine all'uso della forza nei confronti dei dimostranti e liberare tutti i prigionieri, compresa Aung San Suu Kyi. Il rischio che si ripeta il bagno di sangue del 1988, quando oltre 3000 manifestanti rimasero uccisi, è alto. Che altro dobbiamo aspettare? Su www.amnesty.it c'è un appello da firmare, subito, in favore di coloro che in questi giorni sono stati arrestati e che corrono seri rischi di essere sottoposti a tortura. Oggi a Milano in piazza della Scala, dalle 16.30, c'è un sit-in promosso da Amnesty per mostrare solidarietà ai cittadini birmani. In gioco non c'è solamente la sorte del Myanmar. Se non riusciremo a farci carico di sostenere chi chiede in modo pacifico e non violento il rispetto dei propri diritti, la sconfitta non sarà solamente per l'opposizione democratica birmana, ma per tutta la comunità internazionale.
Lettera di Paolo Pobbiati, presidente di Amnesty Italia.

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ultimo aggiornamento 06 Dic. 2010