ventimaggio

V e n t i m a g g i o

se tante persone di poco conto facessero cose di poco conto in tanti posti di poco conto,
la vita sulla terra sarebbe migliore
(J.F.K.)

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IL DESERTO CHE ABBIAMO DENTRO

Acacus breve, Gruppo Severi, dicembre-gennaio 2005-06.

Racconto di Angelo Ghidotti, fotografie di Adriana e Carlo

Avevo deciso di andare a Cuba, quest’anno. Nei giorni del versamento ICI sono andato in tre uffici postali con il machete e sono riuscito a versare l’anticipo. Sembrava fatta. Poi, la mazzata. Posti finiti, bruciato sul filo di lana. Adesso dove minkia vado? Mi reimmergo nel catalogo online, ed esco fuori con qualche ideuzza: Giamaica, Goa, Tunisia. Yemen troppo pericoloso. Crisi decisionale. Poi, una mattina incontro una collega a bere il caffè, appena tornata dall’Acacus. Mi parla per cinque minuti. Grazie. Salgo e prenoto. Non l’avevo nemmeno sentito nominare, prima.

 

Spirito di gruppo - 1

Devo confessare che quando sono arrivato alle quattro di notte alla Malpensa, ho pensato minchia che gruppo. La sfiga! E poi i soliti furbi che tentano di partire senza saldo. Già che farà freddo, dormiremo scomodi, mangeremo tonno e piselli e pure con questi. E io che volevo andare a Cuba. Va bene, andiamo a Francoforte, magari mi fermo lì. E invece.

Diffidare delle apparenze

Quando sono salito sul tupolev, da tripoli per sebha, e mi sono seduto, il sedile si è quasi ribaltato. Rotto. Il bracciolo divelto. Ho messo il trolley su una mensola da dove, al primo scossone, sarebbe rovinato giù tutto. La porta di emergenza sembrava quella dei vecchi frigo delle macellerie. La moquette sul pavimento tra il blu originale e il marrone di chissà quali fluidi. I finestrini così sporchi e rigati da non vedere fuori. Quando ha cominciato a rullare, cigolava tutto. Chissà quanti anni e quanti voli aveva. Ho dovuto ripensare alle statistiche mondiali della sicurezza dei voli per tranquillizzarmi. Alla fine è decollato. Ha volato. E’ atterrato come sul velluto. Prima lezione libica. Mai giudicare dalle apparenze.

Medina di Ghat

Ghat ci si arriva in un giorno da Sebha. Un giorno di strada dritta, sabbia, pietre e tralicci. Ghat. Il centro della cultura touareg, dove proprio il giorno dopo inizia la loro festa – che non vedremo. La Medina da fuori è bellissima – un castello di sabbia fango e paglia. Le foto non lo mostreranno,ma dentro è una discarica. La fortezza in cima è finta. Tutto attorno, casupole con antenne paraboliche sui tetti. Giorgio fa una escursione e trova il campo dei profughi nigeriani. Ghat è la porta del deserto. Per fortuna, a mezzogiorno ripartiamo.

Il grande silenzio

Primo giorno di campo. La notte è passata. Euforia della prima mattina in mezzo alle dune. Splende già il sole. Il viaggio inizia oggi, e ognuno ha le sue visioni e le sue attese. Mi allontano un po’. I miei passi affondano sulla cresta di una duna. Mi fermo lontano abbastanza. Tolgo gli auricolari. E lo sento, per la prima volta. Il silenzio del tempo. Non ci sono strade in lontananza. Non passano treni sullo sfondo. Né aerei. Non ci sono squilli, ticchettii, voci, nemmeno il vento fa rumore. Questo silenzio è infinito. È largo, immenso, non è il nostro silenzo che dura un momento. Questo è un silenzio di secoli. E’ insieme il silenzio-che-c’era e il silenzio-che-verrà. Ogni tanto un lieve rumore – il motore di una jeep, un corvo, un grido – non bastano a scalfirlo. Faccio un giro intero di sguardo. Nulla si muove. Impercettibilmente, le ombre. Questo silenzio mi stordisce. Ritorno precipitosamente indietro. Risento le voci e le risate. Mi mettono allegria e mi rincuorano, dopo che, per un momento, il Grande Silenzio mi ha parlato.

Mostri di pietra

Il giorno dell’Acacus è scuro, minaccioso. Siamo sopra le jeep e abbiamo freddo. Poi arrivano i mostri. Sorgono dalla sabbia. Siamo circondati. Mostri di pietra in agguato da millenni. Creste, pinnacoli, colonne spaccate. Frutti a rovescio. Punte di frecce, profili che scrutano, labbra che si parlano. Frane in pausa da secoli. Le nuvole grigie mi rendono inquieto. Non sono le jeep a muoversi, è tutto che scorre, cambia, nuovi occhi di pietra ci guardano, siamo puntini bianchi che passano in fila come animaletti chiari. Lasciamoli passare, sussurrano i mostri fra di loro. Lasciamo loro credere di essere vivi. Noi saremo qui tra centomila anni. Le loro tracce scompariranno prima di stasera.

Intorno al fuoco

Da quanto tempo. Da quanto tempo non stavo così vicino al fuoco. Ed era necessario, alla sera, quando il vento del deserto comincia a soffiare e non hai riparo. Intorno al fuoco, la faccia calda e la schiena fredda, stretto contro qualcuno, giorgio o renata o carlo o chissà, da quanto tempo non stavo così, a guardare le fiamme divorare piano la legna. Ogni tanto esce uno sbuffo di fumo più chiaro. Ogni tanto ti viene in faccia e lo respiri. Un profumo diverso da un ramo, o una radice. Le nostre guide hanno un modo più naturale del nostro di stare davanti al fuoco. Seduti, con le gambe incrociate, dritti. Tirano fuori un po’ di brace, ci mettono su una teiera. Poi fanno scendere dall’alto il tè, che gorgoglia, fa la schiuma, e ce lo offrono, in silenzio. Raccontiamo storie, cantiamo, cerchiamo di capirci, a volte ognuno parla la propria lingua. Il vento si fa più freddo, le fiamme rimpiccioliscono, qualcuno dà la buonanotte. Qualcuno rimane, si avvicina di più alla fiamma, sente un calore che aveva perso.

Notte sotto le stelle

Su tutte le guide, in tutti i racconti c’è la stessa raccomandazione: passa una notte sotto le stelle. E’ una emozione impagabile. Allora, possiamo stare rintanati ogni notte nelle nostre tendine? No. La seconda sera stendiamo il nostro tavolo da pranzo sulla sabbia, e ci mettiamo lì. Intabarrati di sacchi a pelo, maglioni, cuffie, coperte, calzettoni, sciarpe. Soprattutto, un po’ per lo spazio e molto per il calore, ci sistemiamo vicini vicini. Abbiamo appena spento il fuoco e la voglia di parlare continua. Andiamo avanti così per quanto, un’ora? Non si capisce più chi parla, le voci si alzano orizzontali, le risate, il senso meraviglioso dell’avventura e della complicità. Siamo bambini felici. Io ho tolto gli occhiali, e quindi guardo il cielo e non vedo niente, solo un vago chiarore. Ma è vero, è ancora più vero. Seguite le guide e i racconti. Una notte sotto le stelle è una notte di felicità.

Giorgio e le angurie magiche

E poi c’è questa storia delle angurie-del-deserto. Più o meno, dai, le cose si sanno. Si leggono le guide, si guarda Quark, si naviga in rete. E poi, in pieno deserto, pieno di angurie. Piccole, ma uguali. Minchia. Che roba è? Sarà un caso. Invece tutto pieno. Tranne sulle dune, angurie in ogni dove. Al primo incontro, dì la verità, giorgio, stavi per addentarle. Se non fosse stato per i Touareg. Le abbiamo usate come bocce. Vorrei proprio sapere quanti hanno avuto la stessa idea. La foto della partita a bocce sul crinale della duna penso l’abbiano in pochi. Sempre che ci siamo ricordati di farla. (Tra parentesi vorrei anche ricordarti che ho vinto io 10 a 3). Tra l’altro, non hai nemmeno il problema di dove metterle dopo la partita. Si autodistruggono dopo cinque tiri. Rimane una curiosità, vediamo chi lo scopre: cosa succede a mangiarle?

Cucina creativa

Vittorio è in vena di esperimenti. Annuncia a metà pomeriggio una ricetta speciale. Scetticismo nel gruppo. Invece, dopo un risotto discreto ma da busta, da una pentola si alza un delizioso profumino di buono. Formaggio, miele, pezzi di pane, forse un soffritto. Lo scetticismo si tramuta in interesse, l’interesse in assaggio. Io mi trovo alla fine a fare a gara con Fabio a raschiare la padella per tirare su quei magnifici pezzi incrostati sul fondo, bruciacchiati e croccanti. Mmmmm. Fra i ricordi migliori del deserto. Insieme al pane cotto sulla brace dai touareg e a quello caldo che mi ha dato Luciano non so più dove, alla Fregolotta della prima sera, ai tè schiumosi davanti al fuoco, al pane e nutella della mattina, tutto rigorosamente condito con sabbia delle dune.

Non più d’una

Le dune sono elefanti ammaestrati. Si fanno arrampicare, discendere, salire in groppa senza protestare. Le dune sono il luna park del deserto. Percorsi da ottovolante con le jeep. Le dune sono il parco giochi dei bambini grandi. Correre, sciare, scivolare, rotolare. Le dune sono i fianchi sinuosi e i seni. Si fanno fotografare compiaciute, allungando le ombre per civetteria. Le dune sono catene montuose per scherzo. Sembrano altissime e lontanissime, invece le scali in cento passi. Le dune sono il deserto più scenografico, l’attrazione turistica, l’icona da depliant. Le dune sono la spiaggia immensa di un mare che non c’è.

Tutto e nulla

I touareg. Perché di fronte a loro mi sento un fighetto di città? Forse perché dormono per terra. Forse per la loro bellezza ruvida. Per gli occhi profondi che ti guardano dallo shesh. Per le mani. Per le voci. Perché smontano un motore e lo rimontano in due ore. Perché guidano delle auto impossibili. Perché ogni volta che si fermano accendono il fuoco. Perché giorno e notte, quando è l’ora, si allontanano di qualche metro si inginocchiano e pregano. Perché sono lì, seduti vicini a noi, e così immensamente lontani. Forse perché siamo a casa loro. Perché a volte sorridono. Ma non troppo. Forse perché non possiedono nulla. Forse perché gli è restato tutto.

 

Una visita inaspettata

Sono forse le 10 di sera. Elena caccia un urlo – ma non di terrore. Uuuhhh, guarda, un topino! Dieci teste si girano dal fuoco verso le jeep. Dieci torce si accendono. Un topino, un po’ più chiaro, un po’ più coraggioso, si ferma un attimo accecato e si gira verso di noi. Poi zampetta via subito. Esce dall’inquadratura. Ma poi riappare, sotto le ruote, dove afferra veloce un pezzetto di pane. E fugge nel buio. Dal buio del suo buco ha forse sentito l’odore? O era in esplorazione? Un pezzo di pane nel deserto, e lui l’ha trovato. La mattina dopo elena mi fa spargere per terra un pane intero in pezzetti. Lo faccio, ma mi sembra troppo. Il topo agile e scattante farà indigestione.

Un minuto al tramonto

Quando arriviamo al campo, Eleonora scompare ogni volta. Poi la rivediamo in cima a una duna, da sola, piccolissima. Giorgio non è il tipo da rispettare questo momento di poesia individuale. Facciamole uno scherzo angelo, andiamo su senza farci vedere. Ci proviamo, dopo tre passi lei si gira e ci vede. Saliamo lo stesso e ci troviamo in cima a guardare, di là, il più bel tramonto di tutta la settimana. Striature rosse azzurre e viola e poi il blu che si accende di stelle. Da lì puoi vedere tutto l’orizzonte. In fondo in fondo luci che sembrano avanzare. Jeep. O pozzi. O città. Un minuto di incanto e il sole è già giù. Tutti gli altri stanno salendo. Adesso, l’unica luce è il fuoco che ha acceso vittorio. Due lampi di pila. Giù dalla duna a saltoni. Buttata la pasta.

Toyota classe 1983

Tre jeep e un pick up: la nostra spedizione. Toyota su cui salgo il primo giorno: tappezzeria interna a grandi fiori, riciclata. Specchietto destro mancante. Retrovisore nemmeno l’ombra. Luci interne mancanti. Autoradio spessorata con giornali di dieci anni fa. Tappetini di quattro tipi diversi. Parabrezza spaccato in più punti. Altre jeep: tappeti touareg al posto del cruscotto. Sedili fermati con fil di ferro. Finestrini da tirare su a mano. Manopole che si staccano. Corna sul paraurti frontale. Guasti: bucature varie. Radiatore rotto. Fumo dal motore. Guarnizione della testa da cambiare. Telaio del paraurti spezzato (rifatto di legno una sera). Pompa della benzina sostituita. Frizione distrutta l’ultimo giorno. Jeep abbandonata. Da una ricerca condotta da Luciano risulta che le jeep sono degli anni 80. Facile andare con le Land Rover nuove. Con il cuoco, nei campi tendati, dormire sui materassi. Ma che gusto c’è.

Gelo di capodanno

L’ultimo dell’anno ci sprechiamo di programmi e attese. Ma la sera è gelida. Non riusciamo quasi a montare le tende perché volano via. Anche attorno al fuoco si muore di freddo. Alle nove siamo già a corto di idee. Un giro a piedi, propone vittorio, per aspettare mezzanotte. Ma dopo cento metri ci viene il panico di perderci. Torniamo indietro. Con la scusa del fuso orario festeggiamo un’ora prima, spumante e brividi. Baci e abbracci. Poi, di corsa, a infilarsi nel sacco a pelo. Non riesco a prendere sonno per il sibilo del vento. La mattina dopo c’è il ghiaccio sulla tenda. Il deserto non rispetta i nostri piccoli rituali di capodanno. Ma quando verso metà mattina il sole comincia a scaldarci, è meglio del valzer di strauss.

Djamal show

L’idea è stata di Fabio. Djamal non si è fatto pregare. Forse, anzi, non aspettava altro. Di notte in jeep sulle dune è stato uno di quei momenti di totale euforia in cui continui a ridere a urlare e alla fine ti fa male tutto per troppo divertimento. E’ partito a fari spenti, con gli altri touareg dal campo a tenerlo d’occhio. Motore a pieni giri. Ha fatto di slancio un paio di dune, così, per scaldarsi. Poi si è lanciato contro il bersaglio grosso, una duna molto più ripida e in mezza costa. Insabbiato una volta, due, tre. Siamo scesi a scavare sotto le ruote, e appena è ripartito ha fatto un mezzo giro e ha puntato su di noi. Fari che ti arrivano addosso. Aiutooooo. Fabio si è buttato a terra sulla sinistra, io sono sulla destra, con la coda dell’occhio ho visto i denti bianchissimi di Djamal aperti in una risata trionfale. Riportaci giù, dai. Come back. Indietro. Ehi, piano, piano, cosa fai noooooo. Poi è tornato indietro.Grazie, ragazzino. Scusa, renata. La prossima volta ti carichiamo.

L’elefante

Valcamonica, i miei avi. Marocco. Balzi Rossi. Savoia. Ne avevo visti, di graffiti. E forse, anche qui, ne ho visti fin troppi. Non voglio troppo da vedere. Quindi, non chiedetemi quali erano i graffiti dove erano e come si chiamavano gli uadi in cui. Mi ricordo un elefante meraviglioso su una roccia del Matendoush, un fiume di pietre. L’incisione era molto scavata, ci aveva messo dei mesi se non degli anni il graffitaro. Era passato l’elefante, se l’era schizzato nella mente, e poi aveva con pazienza continuato a incidere. Chissà cosa pensavano i suoi amici di tribù. Chissà se capivano. Ma deve essere contento. Per me è il capolavoro degli ultimi 8000 anni, da quelle parti.

Brutti sporchi e cattivi

Io dico che gusto c’è andare nel deserto per poi star lì a lavarsi tutti i giorni con l’acqua minerale Trazbisja, spazzolarsi i capelli con il rastrello, farsi la barba agli specchietti retrovisori, il bidè con le salviettine profumate, ripulirsi le ascelle e le dita dei piedi da due chili di sabbia. Io sono della scuola: se noi fossimo più sporchi, il mondo sarebbe più pulito. Igiene di guerra. Lavarsi e cambiarsi solo per gravi motivi di ordine pubblico. Oppure in mezzo al deserto appare un lago, e allora non puoi proprio resistere. Ti fai la barba e sei costretto a guardarti. Minchia, ma neanche nel deserto puoi scappare alla tua faccia.

 

Dentro e fuori

Certo il viaggio nell’Acacus libico è bellissimo, il deserto l’altopiano le dune i laghi i touareg tutto quanto. Ma la tenda - arrivare alle cinque del pomeriggio, disegnare la piazzola, infilare le stecche, alzare la tenda, piantare i picchetti, gonfiare gli autogonfiabili, attaccare la torcia elettrica, allargare il sacco a pelo, insomma costruirsi la casa il giaciglio il nido il riparo, così a misura, come da piccoli si stava sotto gli scatoloni, così grembo materno, così difesa dal vento dal freddo dal nulla di fuori- ma la tenda - e alla fine della giornata ti ci sistemi, ti ci ranicchi, impacchetti, un niente di telo tra te e la notte, tanto che senti i sospiri di fuori, e anche i sussurri – la tenda è da sola metà della magìa. E più è freddo di fuori, più è protezione dentro. Salvo che voli via.

Tripoli troppo presto

Una dritta per i futuri gruppi: non andate alla Medina di Tripoli troppo presto alla mattina. Primo, c’è un freddo bestia. Secondo, quelli aprono alle dieci e mezza. Dalla Piazza Verde vi infilate in vicoli pieni di portoni verdi e di finestre verdi – chiusi. Alle nove aveva aperto solo uno stagnaro che faceva le punte di moschee. Bellissime, tra l’altro. Ne avrei portata a casa una, se ci fosse stata nell’aereo. Verso le dieci già meglio, apre qualche barbiere, un paio di venditori di tappeti, scatole d’argento, pelli di cammello e pietre del deserto. Alla undici andate nel locale sulla piazza opposta. Divanetti di velluto rosso, strumenti musicali appesi, tavolinetti bassi, un juke box anni 50. In silenzio, vecchi e giovani con barba e baffi fumano il narghilè.

Metal detector

Se c’era uno che poteva restare impigliato nei sistemi di sicurezza, chi avrebbe potuto essere? Coro: RENATA! E infatti, mentre abbiamo giusto mezz’ora a Fnrakfurt per la coincidenza, fermata all’ultimo controllo. Conrtollato tutto lo zaino da tredicenne, da cui è uscito di tutto, ecco un sacchetto molto sospetto che l’agente apre come se ci fosse dentro il tritolo. Perché tutti noi abbiamo dei picchetti lunghi quindici centimetri che non entrano nemmeno nella sabbia, tanto sono senza punta, e la Renata ha delle spade con l’impugnatura e una punta che mi fa male solo a guardarla? Sequestrati. Ma dove li hai presi, ragazza mia, in armeria?

Il deserto entra dappertutto

Gentile Cliente,

per la riparazione dellafotocamera abbiamo formulato un preventivo pari a

Euro 150,00. Il pagamentopotrà essere effettuato in contanti al momento del ritiro presso i nostri ufficio:

Bonifico da Banca su c/c postale intestato a :

ICAL S.p.A.Viale Certosa 138 20156 Milano

 

Gentile ICAL spa,

150 euro mi sembrano parecchi per mettere delle viti e dare una controllata. Una macchina nuova a 6 mega costa 190 euro.

 

Gentile cliente,

noi consigliamo la riparazione anche perchè non possiamo garantire che

continui a funzionare l'ottica essendoci sabbia all'interno che a lungo

andare potrebbe danneggiare altre parti meccaniche all'interno.

Valuti lei se le conviene o meno.

Saluti

Spirito di gruppo - 2

La lezione delle apparenze non riguarda solo il Tupolev. Dal momento del contatto, alla Malpensa, a quello del commiato, a Linate, siamo passati dalla diffidenza alla confidenza, dal sospetto all’affetto, dalla fatica di conoscerci a quella di lasciarci. Se volevamo metterlo su un gruppo così perfetto, non ci riuscivamo. Sei uomini sei donne. Alti, bassi, giovani, vecchi, capelloni e pelati, bionde e more, silenziosi e chiacchieroni, atletici e pigri, comunisti e polisti, fotografi e fedifraghi. Simpatici e basta.

Belli, bellissimi ogni giorno di più.

Elena Eleonora Teresa Pia Adriana Renata Vittorio Fabio Giorgio Carlo Luciano Angelo HusseinHassan Abdul Mohamed Djamal. Era il mio sesto gruppo di Avventure. E’ diventato il primo.

Finale

Forse qualcun altro vuole scrivere il finale di questo racconto. Perché il mio non è allegro. Lo sapete, vero, che non sarà più così. Che ci vedremo, con il vestito pulito, i capelli lavati, l’alito fresco. Che mangeremo in un bel ristorantino, che guarderemo le foto e i video, e rideremo, e parleremo, e dormiremo ancora vicini vicini, come quella notte sotto le stelle, con le parole che salgono e pian piano non hanno più senso e chiudiamo gli occhi. Lo sapete. Lo sappiamo. E non sarà solo il deserto a mancarci, la nutella ghiacciata il fuoco e il vento sottile. No. Come la meraviglia, come l’amore, la magìa si accende, splende per un po’ e poi si spegne. Buon anno gruppo fantastico. Bentornati a casa.

 


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