Urania Celeste
La  chioma di Berenice
traduzione di Alessandro Natucci

Chi le luci tutte esplorò dell’universo,    
chi delle stelle il sorgere e il tramontare apprese,   
come s’oscuri del sol veloce lo splendor di fiamma,
come a certe stagioni cedano gli astri,     
e come un dolce amore Trivia rapisca dagli aerei giri 
e la celi, furtivo, sotto i sassi di Latmio:
proprio lui, Conone, me tra i celesti lumi vide
chiara splendente, di Berenice la recisa chioma,
che a molte tra le dee ella promise, alte levando
le leggiadre braccia, allor che il re, dalle recenti nozze 
inorgoglito, mosse contro le terre Assire per seminarvi scempio,
con sé portando le vestigia dolci della notturna rissa,
per le virginee spoglie combattuta.
Alle giovani spose è forse Venere in odio?
O turbano la gioia dei parenti con false lacrimucce
che, al limitar del talamo, versano profuse?
No, così piaccia agli dèi, non sono lacrime vere.
E ben lo vidi dai lamenti assidui della regina,
quando il suo sposo volgea la mente a cruente battaglie.
Tu non piangevi solo il letto abbandonato e vuoto,
ma del caro fratello la partenza amara.
Come nel cuor dolente penetrò l’angoscia! 
Finché, sconvolta in ogni fibra, perduti i sensi, smarristi la ragione.
E pur ti conoscevo giovinetta  forte ed animosa.
Scordasti, forse, l’impresa ardita, quale nessun, più forte,   
avrebbe osato, che ti valse il regale coniugio?
Quanto mesta parlavi, invece, congedando lo sposo?  
E quante volte, o Giove, tergevan le tue mani gli occhi!
Qual dio produsse tanto mutamento? O forse
troppo spiace agli amanti dal caro corpo   
separarsi a lungo? Agli dei tutti mi offristi allora,
versando sangue di tori per il dolce compagno, se mai
gli arridesse il ritorno! Egli in breve volger di tempo  
unì l’Asia vinta alle terre d’Egitto; ed io, pertanto,
resa al consesso celeste, l’antico voto con nuovo dono sciolsi. 
Contro mia voglia, regina, lasciai il tuo capo!
Contro mia voglia, su te lo giuro e sulla vita tua,
-e giusta pena patisca colui che giurò invano-;   
ma chi potrà pensare al ferro d’esser pari?
Anche quel monte, tra tutti eccelso,
che con il carro varca di Thia l’illustre figlio, 
alfine cadde, quando un nuovo mare
fu dai Medi aperto e il fior dei  barbari navigò
con la flotta in mezzo all’Athos. Cosa potrà
un capello se persino un tal monte cede al ferro?
Perisca, o Giove, la stirpe tutta dei Calibi,
perisca chi sotterra ne cercò le vene  e la durezza
sua volle forgiare! Da poco separate, piangevan la mia sorte  
le sorelle chiome, quando il
destriero alato,                
ad Arsinoe devoto, che il parto ebbe comune
con l’etiope Memnone, l’aere fendendo con veloci penne,
mi si offerse alla vista e, trattami a sé, correndo a volo
per l’eteree ombre, nel casto grembo di Venere mi pose:
- così ordinò al suo fido la stessa Zefiritide, che i Canopi lidi  
abita felice-. Venere, infine, perché nel cielo, di varie luci adorno,
non splendesse solo l’aurea corona, vanto d’Arianna, 
ma noi pure potessimo brillare, spoglie devote della bionda chioma,
tra l’altre antiche me nuova stella pose che,
rorida ancor di flutti,  ai templi degli dei pervenni:
tra gli astri della Vergine e del fiero Leone, dietro l’Orsa,
la bella Licaonide, ad occaso mi volgo, e son di guida
all’anziano Boote, che, tardo e lento, s’immerge nell'Oceano profondo.  
Ma, se pure mi sfiorino di notte i calzari divini
e mi riporti il giorno in seno alla candida Teti,
(con tua pace mi sia lecito dire, vergine Ramnusia:
se pur le stelle con acerbi detti mi possano straziare,
rivelerò ciò ch’è nascosto nel mio petto); 
non di tanto m’allieto, ma d’essere sempre lungi,
io mi tormento, lungi dal capo della mia signora,
con cui, quand’era giovinetta, d’ogni profumo ignara,
di molti m’inebriai, se pur comuni e vili.
E voi, che la  fiaccola unì nel giorno ambito,  
le dolci forme non concedete  ai coniugi amorosi,  
dai nudi seni gettando via la veste,
prima che effonda l’onice i profumi a me grati;
l’onice di voi soltanto, fedeli al casto letto.
–Di chi si diede, invece, all’ all’adulterio impuro,
l’inutil polvere goda i profumi vani:
da donne indegne non amo offerta alcuna.         
Ma  regni sempre concordia, regni assiduo l’amore, 
spose fedeli, sulle vostre dimore.
E tu, regina, quando, volta alle stelle, nelle notti
a lei sacre, renderai grazie a Venere divina, non lasciar me,
che son tua, senza profumo alcuno, ma colmami di doni!
Potessero cader tutte le stelle! Se anche Acquario splendesse
accanto a Orione, sarei di nuovo la chioma della mia regina.

Indice

Il testo di Catullo                    La traduzione di Costantino Nigra
                                        
La traduzione di Ugo Foscolo