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Giovanni Scoto Eriugena nacque in Irlanda (Eriugena=nato in Eriu, antico nome celtico dell'Irlanda), ma venne costretto ad emigrare in Francia in seguito all'invasione danese dell'isola. Accolto alla corte di Carlo il Calvo, venne nominato maestro delle arti liberali alla Scuola Palatina (l'istituto di studi superiori voluto da Carlo Magno) e divenne una delle figure più importanti della scuola teologica carolingia. Eriugena
fu il traduttore latino del Corpus Areopagiticum (gli scritti
attribuiti a Dionigi
Aeropagita),
incarico affidatogli personalmente dal re di Francia. La sua opera più
famosa, tuttavia, è il Periphyseon (o De divisione
naturae), ma viene anche ricordato come traduttore di molte altre
opere della patristica greca, tra le quali quelle di San Massimo il
Confessore, anch'egli traduttore e commentatore di Dionigi, e di San
Gregorio di Nissa.
Forte sarà nella sua
teologia l'influenza neoplatonica. * Sommario 2. La teofania: Dio si rivela nella sua creazione 4. La conoscenza: l'anima crea riconoscendo *
De divisione naturae (o Periphyseon) viene scritto da Giovanni Scoto negli anni che vanno dal 862 al 866. L'opera consta di cinque libri in forma di dialogo in cui viene esposta una divisione in quattro parti della realtà: 1. La natura che crea è non è creata: ovvero Dio, il creatore increato perché eterno e prima entità dell'universo, cioè colui il quale non ha alle spalle nessun creatore; 2. La natura che crea ed è creata: ovvero il Lògos di tradizione greca, la legge e i principi fondamentali, creati da Dio stesso, che regolano il funzionamento di ogni cosa, gli archetipi, il codice creato della natura creante; 3. La natura che non crea ed è creata: ovvero ogni elemento naturale non organico, ma anche tutti gli organismi viventi, i quali, pur creando altri viventi, non sono comunque creatori delle stesse leggi naturali e biologiche alle quali soggiaciono. Tale natura è quindi l'universo sensibile, il mondo fisico, l'ordine spaziale e temporale entro cui vivono e si muovono le cose; in sostanza, il mondo materiale; 4. La natura che non crea e non è creata: ovvero la dissoluzione di tutte le cose nell'unità originaria, il ritorno a Dio della risoluzione di tutte le cose sensibili nella pura intellegibilità dello spirito (un processo di "spiritualizzazione" dell'universo, si veda il capitolo 6). Per Scoto esiste dunque una sorta di gerarchia nella natura, analoga ma diversa dalle ipostasi di Plotino. Il suo è il tentativo di coniugare l'idea del mondo come emanazione divina (quasi un panteismo) e il dogma cristiano della diversità e divisione tra natura terrena e natura divina.
Per
Scoto Eriugena, che segue un percorso neoplatonico, Dio è assoluta
trascendenza rispetto alle sue creature, ciò significa che il
mondo creato non potrà avere piena e certa conoscenza di Dio
e della sua vera essenza. Ecco allora che per Eriugena la creazione diventa una teofania (dal greco theophàneia, composto da theos=Dio e da phàinein=manifestarsi). La teofania è il processo attraverso il quale Dio si manifesta nella realtà sensibile. Il compito della teologia e dell'uomo è quello di riconoscere nelle cose del mondo l'essere divino, la sue luce e la sua volontà creatrice, in un percorso anagogico di ascesa e di riscoperta delle cause che soggiaciono alle cose materiali. Anagogia significa risalire, partendo dalle creature, alle cause che le producono, ovvero il risalire alla riscoperta della volontà divina che è causa di ogni cosa (dal greco ana=su e ago=io conduco). Il termine fu usato da Ugo di San Vittore nel De Scripturis per indicare uno dei significati da attribuire alle Sacre Scritture. Che significato ha l'uomo all'interno della creazione divina? Eriugena nota come l'uomo sia l'unico essere che Dio crea a sua immagine e somiglianza. Tale somiglianza è interpretabile come dominio dell'uomo sulle altre creature, ma non un dominio della forza, bensì un dominio della conoscenza. L'uomo possiede un intelletto superiore a qualsiasi altra forma vivente, il dominio che egli esercita sulle altre creature è allora la capacità di ricondurre consapevolmente ogni cosa al suo creatore, ovvero riconoscere in ogni cosa la presenza di Dio. L'uomo possiede tutte le nature: con lo spirito egli si eleva verso Dio, con le passioni e i bassi appetiti si avvicina maggiormente agli animali. L'uomo possiede allora una doppia natura, una virtuosa legata alle capacità spirituali interiori, un'altra meno nobile legata all'istintività bestiale. L'anima di ciascun individuo, in particolare, è in grado di vivere la totalità degli stati propri dell'uomo: quando si accosta al divino essa è intelletto, quando considera la natura e le sue leggi è ragione, quando si accosta alle cose sensibili è senso, quando si prende cura del corpo è vita. Anima e corpo sono così strettamente legate e connaturate, l'anima rappresenta esattamente ciò che il corpo abbisogna per agire nella realtà.
Analogamente a Dio, che è insieme al di sopra della creazione ed Esso stesso il Creato poiché ogni cosa è nel suo essere, unica possibile origine della realtà, l'anima dell'uomo è un tutt'uno con la natura creata, poiché solo in essa si rapporta, solo in essa vive e in essa ritornerà (l'anima è come goccia nell'oceano, quell'oceano che rappresenta nella metafora l'essere divino: l'anima è quindi stessa sostanza divina a un grado di consapevolezza minore). La consapevolezza data all'uomo dall'anima è ciò che permette di riconoscere nella natura ciò che è stato creato da Dio. Ogni aspetto della natura passa attraverso l'intelletto e in questo passaggio viene riconosciuta. In questo senso il conoscere è creare, poiché attraverso la conoscenza delle cose, l'uomo edifica in sé quella gerarchia degli enti che è stata per prima conosciuta da Dio nell'atto della creazione di ogni cosa (lo stesso Dio ha creato con l'uomo anche la capacità di riconoscere le cose da Lui create). Questo significa anche che ogni cosa creata è già presente alla possibilità di essere riconosciuta, ogni aspetto del futuro e di ciò che ancora non esiste è già presente nella creazione, il compito dell'intelletto umano è quello di renderle visibili. Tale capacità dell'anima di rendere le cose evidenti e concrete è però in ultima analisi prerogativa di Dio, per cui l'uomo è dotato da Dio della sola capacità di chiamare le cose al mondo attraverso l'atto di "intelligerle" (riconoscerle), mentre è Dio che decide, con la sua potenza, quali oggetti e quali eventi siano possibili di conoscenza da parte degli uomini. Da notare come in questi concetti esca prepotentemente quel tratto neoplatonico proprio della teologia di Eriugena. Non solo la teoria di Eriugena sulla conoscenza è fortemente intrisa di neoplatonismo, ma anche la sua concezione della natura umana risente decisamente dell'influenza di Platone e di Plotino. La sostanza dell'uomo è quella unica e divina, in cui tutte le cose sono state create. Ma la natura dell'uomo si rapporta alla creazione in due modi: il primo è la modalità intellettiva e spirituale, legata alla dimensione archetipa dell'uomo (legata, cioè, alla struttura primordiale dell'uomo come idea presente alla mente divina); il secondo è legato alle vicissitudini terrene del corpo e della materia. Rispetto alla prima modalità, l'anima dell'uomo è una, indivisa, completa, è un tutt'uno con la sostanza divina, in comunanza con l'intuizione stessa di essere parte integrante di ogni cosa creata: è in questa modalità che lo spirito umano viene a contatto con le cose più alte e con il pensiero stesso di essere parte del grandioso progetto divino. Rispetto alla seconda modalità, l'anima è divisa e isolata, sente il peso della sua individualità incarnata, è corruttibile, fatalmente legata alle vicende del corpo e alle passioni degeneranti che scaturiscono dalla miseria della materia. L'anima umana, in questa duplice condizione "conosce se stessa e non conosce se stessa. Conosce che è, ma non sa che cosa è". L'anima riconosce quindi di esistere, ma non può conoscere la sua struttura originaria e archetipa, così come è stata concepita nella mente di Dio all'atto della creazione. Ecco che allora l'anima del saggio aspira continuamente a ricongiungersi all'unità, aspira a superare la solitudine e la divisione individuale per tentare di ricongiungersi, grazie all'intelletto, a quella unità originaria che accomuna ogni cosa creata. Si noti come la concezione di Eurigena sia, su questo punto, analoga al processo estatico di riavvicinamento all'Uno in Plotino. L'uomo è poi stato pensato originariamente da Dio come privo di sessualità e di genere. La divisione dell'uomo in maschio e femmina è opera divina in modo da legare indissolubilmente gli uomini al modo di generarsi proprio degli animali. La divisione dei generi è stata realizzata da Dio in vista del peccato originale, costituito dal rifiuto, da parte del genere umano, di moltiplicarsi similmente agli angeli, come era nelle intenzioni originarie di Dio. Dunque Egli, che già sapeva di questo rifiuto, ha deciso per l'uomo la moltiplicazione per via "sessuale" e non per pura via "spirituale" (questo è per Eriugena il senso ultimo del peccato originale). Detto questo si può notare allora come Eriugena faccia riferimento a un mito platonico, quello degli uomini sferici e divisi, contenuto nel Simposio: Gli uomini erano originariamente sia maschi che femmine, erano androgini, ovvero era unità, perfezione e completezza. Successivamente, divisi dagli dei (da Dio in Eriugena), gli esseri umani sono destinati a ricercare nell'unione con l'altro sesso quella perduta e originaria unità che non possono vivere nella loro divisione e incompletezza. Eriugena elabora anche una propria escatologia, ovvero elabora una visione dei destini ultimi dell'umanità e dell'universo (escatologia, dal greco éskata=le cose estreme, e -logia=logica, ovvero, per estensione, "spiegazione degli avvenimenti ultimi"). La visione di Eriugena del destino ultimo dell'uomo è particolare: egli afferma, come si è visto, che l'uomo incarnato nel mondo terreno non è consapevole di ciò che veramente rappresenta, e che i suoi sforzi su questa terra sono volti proprio alla ricerca di questa consapevolezza. Da questo deriva che l'uomo, sulla terra, non ha mai vissuto un periodo felice di completa armonia con il tutto, non ha mai vissuto, in sostanza, la condizione felice del Paradiso terrestre. Ma come conciliare questa visione con l'evidenza della scrittura biblica? Eriugena afferma che non crede che sia mai esistito l'Eden, piuttosto crede che il racconto biblico contenga l'anticipazione di ciò che accadrà una volta che l'uomo si sarà riunificato, assieme a tutte le altre creature, all'unità originaria divina. In sostanza, la fine dei tempi coinciderà con il destino della materia non creata e che non crea (si veda capitolo 1): la materia divisa nel molteplice delle forme e delle determinazioni si unirà una volta per tutte a Dio e l'universo diverrà pura intellegibilità, pura "spiritualizzazione". Nell'Eden biblico la condizione paradisiaca è metafora di quella contemplazione eterna della totalità e dell'unione armonica con l'intera creazione che è il destino ultimo di ogni creatura, destino voluto da Dio. |
Scheda
di Synt - ultimo aggiornamento 28-09-2004
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