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Aristotele

ARISTOTELE
(384-324 a.C.)




Aristotele nacque a Stagira, ai confini con la Macedonia. Fu allievo di Platone e ne frequentò l'Accademia, ma dopo la morte del maestro lasciò Atene e fondò una propria scuola ad Asso. Nel 342 venne chiamato da Filippo II re di Macedonia per fare da istitutore al figlio, Alessandro Magno, futuro conquistatore del medio Oriente e della Persia.

Nel 336, quando Alessandro salì al trono, ritornò ad Atene e fondò il suo Liceo, una scuola che per un certo periodo superò in prestigio l'Accademia platonica. Con la Morte di Alessandro e il conseguente ritorno ad Atene di un clima antimacedone venne costretto all'esilio nella Calcide, dove morì pochi mesi dopo.

Il corpo principale delle opere di Aristotele, divise in gruppi tematici da Andronico di Rodi, sono:

1. Opre di logica: Categorie, Organon, Elenchi sofistici.
2. Opere fisiche: Fisica, Meteorologia, Anima.
3. Opere etiche: Etica nicomachea, Magna moralia.
4. Opere linguistiche: Retorica, Poetica.
5. Opere biologiche: Ricerche sugli animali (zoologia), Le parti degli animali (anatomia), Riproduzione di animali (genetica), Movimento degli animali.

Le opere si dividono in esoteriche, rivolte ai soli studenti, ed essoteriche, rivolte al vasto pubblico; di queste ultime però si è persa ogni testimonianza.

Aristotele fu il primo vero "scienziato" della storia occidentale: fu un grande organizzatore del sapere, suoi i primi ragguagli storico-teoretici sui presocratici, sue le prime raccolte organiche del sapere logico, fisico e biologico; grande osservatore della natura, non dimenticò di cimentarsi in importanti studi sull'etica e sulla retorica.

Il suo metodo di indagine venne preso a modello dalla Scolastica, per i cristiani diventò un'auctoritas nel campo delle scienze, della metafisica e della cosmologia (si veda Tommaso d'Aquino). Proprio per questo la filosofia di Aristotele, diversamente da quelle di altri pensatori greci, rimase viva lungo tutto il corso del medioevo grazie all'apporto dei teologi cristiani che ne fecero proprie le conclusioni più importanti.

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Sommario

1. Le divisioni della conoscenza

2. Le critiche a Platone

3. La sostanza: il sinolo forma/materia

3b. Materia prima e materia seconda

4. Atto e potenza

5. La meccanica del divenire: il sostrato

6. Il movimento: "Omne quod movetur ab alio movetur"

7. Le quattro cause delle cose

8. Il motore immobile

9. La logica aristotelica: il sillogismo

10. Il principio di non contraddizione

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1. Le divisioni della conoscenza

Per Aristotele ogni cosa è un ente, ovvero ciò che tutte le cose hanno in comune è il loro "essere qualcosa", un ente, appunto. L'ente è la sintesi tra una certa determinazione (ovvero l'essere una certa determinata e non un'altra) e la loro esistenza (ovvero una cosa dotata di presenza mondana): l'ente è allora una determinazione dotata di esistenza, ovvero una cosa che esiste ed è fatta in un certo modo.

Per Aristotele, dunque, la conoscenza si divide in diverse parti:

1. Le scienza pratico empiriche, ovvero tutte quelle forme di conoscenza che si riferiscono all'ente in quanto determinato: sono le discipline che si concentrano sull'analisi di un particolare aspetto dell'ente, la medicina indagherà allora l'ente in quanto corpo, l'astronomia l'ente in quanto "oggetto celeste", la biologia l'ente in quanto organismo vivente, la politica l'ente in quanto cittadino e così via. Tali discipline si occupano dei fenomeni e dei casi particolari pratico-empirici;

2. Le scienze teoretiche, ovvero teorico-astratte, che non si occupano di analizzare gli aspetti particolari degli enti ma ne individuano le cause necessarie, ovvero portano alla luce il modo in cui gli enti particolari si manifestano. Esse sono la fisica, la matematica e la logica. La prima si occupa di determinare le cause dei corpi materiali, la seconda di tradurre in rapporti numerici la realtà, la terza esprime invece le leggi inderogabili e necessarie alle quali sono soggetti tutti gli enti;

3. La metafisica, scienza prima. Vi è una scienza, secondo Aristotele, che si pone al di sopra delle altre, ed è la scienza che si occupa degli enti in quanto enti, ovvero dei meccanismi inerenti alle cause e le necessità dell'ente preso e analizzato per la sua caratteristica di essere "qualcosa che esiste". Tale scienza è la metafisica, o ontologia, ovvero "scienza dell'ente". Questa scienza non può che non essere predominante rispetto alle altre, in quanto, studiando le proprietà dell'ente in quanto ente, permette di conoscere le proprietà di ogni altra determinazione. Vedremo in seguito come la metafisica diverrà nucleo centrale di molta parte del pensiero filosofico successivo, fino ad essere negata dalla filosofia contemporanea.

Detto questo occorre precisare che Aristotele concede pari dignità ad ogni scienza, ogni scenza è un legittimo ambito di conoscenza, diversamente dall'atteggiamento platonico che svalutava la ricerca sugli enti sensibili in quanto derivazione imperfetta degli enti eterni oltre-sensibili (si può dire che in Platone vi è una preminenza della sapienza concettuale a scapito di quella fisica, mentre in Aristotele è salda la convinzione che ogni ambito, soprattutto quello fisico-sensibile, è meritevole di indagine).


2. Le critiche a Platone

Aristotele fu allievo di Platone all'Accademia, ma per sviluppare le sue teorie egli partì da una critica alle teorie del maestro. In particolare, Aristotele critica la teoria delle idee con un argomento che prenderà il nome di "terzo uomo" (anche se tale critica, per amor di verità, fu già presa in considerazione da Platone nel dialogo Parmenide, in veste di critico di se stesso).

L'argomento del "terzo uomo" è questo: se esiste l'idea dell'uomo ideale e il concetto dell'uomo sensibile che è solo partecipe di quello ideale, occorre allora che vi sia un ulteriore idea che esprima quest'insieme di concetti. A sua volta deve esistere un ulteriore idea che abbracci quest'idea e un altro ancora che contenga, in un gioco infinito di scatole cinesi, tutto l'insieme di idee che che si accumulano annidate una dentro le altre. Così, per ogni idea, vi sarebbe associato un numero infinito di idee. Questo creerebbe una incontrollata espansione all'infinito delle idee eterne presenti nell'Iperuranio. Ogni idea che giunge all'intelletto dell'uomo, infatti, deve avere la sua necessaria controparte nel mondo delle idee.

Aristotele critica anche l'impostazione platonica che vuole l'idea assolutamente trascendente rispetto all'ente sensibile. Come può l'ente sensibile partecipare un qualcosa che gli sta totalmente al di fuori? E ancora, come può un uomo essere diverso dall'idea "ideale" di se stesso? Infatti, l'idea che rappresenta idealmente tutte le qualità di un uomo non può non essere che identica all'uomo stesso se ne vuole essere un'immagine perfetta, e quindi non si capisce come l'ente sensibile possa essere meno perfetto dell'idea eterna.

Per uscire da queste contraddizioni, Aristotele sposterà l'attenzione dall'idea immutabile alla sostanza. La sostanza sarà quella qualità che compete esattamente all'ente (all'uomo, nell'esempio) in grado di rendere un certo ente ciò che è, ne più ne meno, entro gli esatti limiti della sua determinazione.


3. La sostanza: il sinolo forma/materia

La sostanza (dal latino sub-stantia, "stare sotto", "sorreggere") è ciò che permette all'ente di essere determinato in un certo modo, ovvero la qualità senza la quale un certo ente sarebbe diverso da ciò che è (ovvero, senza la quale sarebbe un altro ente avente una diversa determinazione).

Per ciò che riguarda soprattutto gli enti sensibili, si può definire la sostanza come un'unione di forma e materia. Tale binomio viene chiamato da Aristotele "sinolo" (synolon). Vediamo meglio in cosa consiste questo sinolo.

Un ente è ciò che è e non un'altra cosa proprio perché ha una certa forma, forma che si plasma a sua volta entro una materia, che può essere anche più di una per ciascun ente (ad esempio, una finestra è composta dalla sostanza "vetro" e dalla sostanza "legno" o "alluminio").

La combinazione forma/materia, il sinolo, determina in modo necessario ciò che un ente è: ad esempio la candela è la combinazione di una forma (una forma più o meno affusolata attraversata all'interno da uno stoppino che ne spunta a un'estremità) con una determinata materia (la cera più la materia dello stoppino).

Aristotele ci dice anche che esistono qualità accidentali (dal latino accidens, dal verbo accidere, "cadere sopra", "accadere", "capitare"). Gli accidenti sono quelle qualità che si possono aggiungere all'ente pur non mutandone la sostanza: ne deriva che mentre una sostanza non abbisogna di nulla per esistere se non di forma e materia, non accade che un accidente sia ente senza che si leghi a una sostanza (ad esempio, l'accidens relativo a una candela potrebbe essere il suo colore o le diverse forme che potrebbe assumere la cera).


3b. Materia prima e materia seconda

Come si è potuto vedere, gli enti sono composti da diverse materie e da diverse forme, ovvero da diversi sinoli, a loro volta composti da una certa forma e da una certa materia (ovvero da altri sinoli).

Visto che ogni ente sarebbe composto da una sequenza infinita di sinoli, ovvero da una sequenza infinita di sostanze che vanno a comporne la sostanza, e visto che questo equivarrebbe a dire che l'ente è composto da nulla, Aristotele individua l'esistenza di una materia prima, con le caratteristiche della "materia madre" platonica. La materia prima è una materia che non ha alcuna forma, è priva di ogni determinazione, altrimenti sarebbe una sostanza (un sinolo) e a sua volta avrebbe bisogno di un'altra sostanza che la giustificasse; la materia prima è quindi una materia pura, eterna e plasmabile.

Tutte le forme di materia che non sono materia prima, sono chiamate da Aristotele materia seconda.


4. Atto e potenza

Un'altra distinzione aristotelica riguarda quella tra atto e potenza. La potenza è la predisposizione della materia ad assumere una certa forma, è quella forza passiva che permette alla forma di plasmare la materia secondo i suoi dettami. L'atto è invece la forma stessa realizzata, ovvero la materia plasmata sotto l'azione della forma.

Questi due termini permettono di illustrare, per Aristotele, la meccanica del divenire. Il mutamento si esprime infatti nel passaggio da un certo ente ad un altro, è quindi il passaggio da uno stato potenziale (la potenza) per cui un ente è predisposto strutturalmente ad accogliere un'altra forma e a volte anche un'altra materia, a uno stato realizzato (l'atto) per cui l'ente ha ricevuto di fatto quella forma e quella materia che erano già presenti potenzialmente nelle sue possibilità. (ad esempio, l'acqua è potenzialmente predisposta a divenire ghiaccio, allo stesso modo in cui un blocco di marmo è predisposto a divenire una statua o una colonna).


5. La meccanica del divenire: il sostrato

Poiché il divenire e il mutamento degli enti sensibili è accertato dall'evidenza, anche Aristotele si pone il problema di trovare una spiegazione al passaggio di un ente determinato dallo stato di essere una certa cosa a non essere più quella cosa, ma un'altra.

Il ragionamento di Aristotele attorno alla meccanica del divenire parte dal fatto che debba esistere qualcosa che regga il mutamento: se mutare significa cambiare forma ma anche sostanza, occorre capire qual è quel qualcosa che permetta agli enti che mutano di essere accompagnati da uno stato all'altro evitando che, ad un certo punto del passaggio, cadano nel nulla.

Si prenda, ad esempio, il mutamento della legna in cenere. Chiameremo la legna A, e la cenere B. A è non-essere di B, ovvero A è la privazione di B. Al termine del mutamento, A ha preso la forma di B, o meglio, la sostanza A è diventata la sostanza B, due sostanze diverse tra loro (ciò che prima era la sostanza "legna", è diventata la sostanza "cenere"). In questo processo manca però qualcosa, perché non è possibile che A diventi B senza qualcosa che li veicoli, infatti A come privazione di B è puro non-essere, un nulla.

Ciò che manca ad A è B è un "sostrato", ovvero qualcosa che rappresenti il veicolo, la base permanente del divenire: un diveniente che permane. Il sostrato del divenire degli enti sensibili è la materia prima, materia eterna e informe priva di ulteriore sostrato, in quanto sostrato essa stessa.

Dunque, in questo meccanismo, la privazione rappresenta la potenza della forma (potenza come non-essere della forma alla quale si tende) mentre l'atto è la forma finale realizzata. Il divenire è quindi il passaggio dalla potenza all'atto, come si è visto nel capitolo 4.


6. Il movimento: "Omne quod movetur ab alio movetur"

La necessità di non privare di un sostrato ogni fase in cui si trova l'ente nel processo di mutamento, implica che anche ciò che permette alle cose di passare da una forma all'altra abbia una sua consistenza. Aristotele chiama ciò che permette alle cose di mutare "movente" o "motore".

In altre parole, il passaggio da una sostanza all'altra ha bisogno di qualcosa che faccia mutare la sostanza iniziale nella sostanza finale, un qualcosa che muova una sostanza verso l'altra. Nel caso della legna e della cenere la sostanza che permette il passaggio dal primo ente al secondo è il fuoco. A sua volta anche il fuoco deve avere un suo movente, ovvero qualcosa che lo accenda, qualcosa che lo faccia uscire da uno stato potenziale per diventare un fuoco in atto. Ma anche ciò che muove il fuoco deve avere una causa alle spalle che lo muove a sua volta. "Omne quod movetur ab alio movetur" (letteralmente "Tutto ciò che si muove da altrove si muove", o ancora, ogni mosso ha un movente alle spalle che lo fa muovere).


7. Le quattro cause delle cose

Aristotele chiama causa (in greco, "aitìa") ciò che permette alle cose di essere e di mutare, ciò senza di cui ogni mutamento e ogni cosa sarebbe impossibile. Si distinguono quattro tipi di cause:

1. La causa formale, ovvero la forma che una cosa deve necessariamente possedere per essere qualcosa (si veda capitolo 3);

2. La causa materiale, ovvero la materia prima, il sostrato senza il quale le cose non potrebbero prendere una forma (si veda il capitolo 5);

3. La causa efficiente, ovvero il movente, la sostanza che permette al sostrato di mutare da una forma all'altra (si veda il capitolo 6);

4. La causa finale, ovvero il fine a cui ogni cosa tende e che ne rappresenta la base stabile; di questa causa si parlerà nel capitolo successivo.


8. Il motore immobile

Ogni cosa che si muove ha un movimento alle spalle che la fa muovere, ogni mutamento ha un mutamento alle spalle che lo rende possibile: questa catena di cause però non può essere infinito, rimandare all'infinito le cause efficienti sarebbe come ammettere che lo stesso movimento non trovi mai riposo in nessuno stato veramente consistente e la stessa causa delle cose si perderebbe, a monte, nel nulla.

Ecco perché Aristotele individua l'esistenza necessaria di un qualcosa che rappresenti la causa originaria di ogni cosa, un primo movente che dia il moto ad ogni altra cosa ma che sia immobile: un motore immobile, o primo motore.

Tale primo movente è Dio, ovvero la prima causa di tutto (causa incausata, senza una causa alle spalle) che da consistenza alla catena delle altre cause moventi, un puro atto, senza potenza, perché se fosse potenza dovrebbe avere alle spalle un ulteriore atto che gli permetta di essere potenza di qualcosa. Dio è eterno e immutabile, proprio perché non è soggetto al divenire e al mutamento, ma ne è causa finale, ovvero ciò in cui ogni movimento trova base stabile e sicura entro cui accadere. E' infatti indubbio, per Aristotele, che ogni cosa che accade debba necessariamente accadere entro un alveo che permetta agli avvenimenti di manifestarsi, la regione stabile entro cui tutto il divenire si manifesta è garantita da Dio, ovvero dall'essere immutabile. Dio, per Aristotele, non ha evidentemente quei tratti cristiani che prenderà successivamente, Dio è per il filosofo macedone la base stabile che garantisce ad ogni cosa di non essere un nulla.

Dio per Aristotele è il garante dell'alveo entro cui si sviluppa ogni divenire, Dio è la sostanza certa e sempre in atto, immutabile perché non soggetta al divenire e al passaggio dalla potenza all'atto. Se ogni cosa che è mossa ha un movente alle spalle, e in questo passaggio viene conservata sempre una sostanza, allora in Dio sono già presenti tutte le sostanze che si producono nel corso dei processi di produzione e mutamento delle sostanze.

La differenza tra l'Iperuranio platonico e il Motore Immobile aristotelico, che sono uniti nel rappresentare l'immutabilità e l'eternità che garantisce che tutto non sia nulla, sta nel fatto che, mentre per Platone l'immutabile è completamente trascendente all'essere terreno, per Aristotele l'immutabile è esso stesso presente nell'essere terreno. Come si è visto, infatti, ogni sostanza si risolve nella sostanza suprema, nel "sostrato dei sostrati", nell'entità che garantisce realmente e necessariamente la concretezza sostanziale (la sostanza) di ogni ente.


9. La logica aristotelica: il sillogismo

Se la logica è sempre stata, anche prima di Aristotele, lo strumento primo della filosofia (ovvero lo strumento che permette di rapportare i concetti tra loro secondo leggi che rispecchiano il modo in cui la realtà viene interpretata) è per la prima volta con Aristotele che essa esce dall'essere sottintesa per diventare la protagonista dichiarata delle dimostrazioni filosofiche. L'organizzazione della logica in un corpo strutturato è opera dello stesso Aristotele.

La logica di Aristotele è quella che oggi possiamo definire "analitica", la logica che risolve i ragionamenti complessi nelle sue parti e ne chiarisce passo passo la veridicità di ogni elemento ("analitica", dal verbo greco analyo, "sciolgo", "risolvo nelle sue parti"). Per fare ciò, Aristotele si affida uno strumento logico: il sillogismo.

Il sillogismo, nella sua forma generale, si divide in tre parti: una premessa iniziale, un termine medio, e una conclusione finale. L'esempio classico: "L'uomo è un animale, Socrate è un uomo, quindi Socrate è un animale" (curioso come Socrate sia infilato ovunque, annotazione personale). Tutte è tre le parti sono affermazioni attestate dalla realtà evidente e immediata, ma possono anche derivare da conclusioni a loro volta attestate da altri sillogismi, come è evidente che le stesse affermazioni immediate non possono contraddirsi anche se analizzate.

Si può notare come il termine medio sia quello che "trasporta" e "svuota" il significato della premessa nella conclusione. La premessa e la conclusione esprimono allora la stessa verità, il termine medio permette alle due parti estreme di comunicare in modo necessario tra loro (il termine medio rappresenta l'affermazione che chiarisce l'identità degli estremi).

Tuttavia esiste ugualmente un inconveniente che grava sul sillogismo: il problema delle premesse. "La caratteristica più rilevante della necessità che nel sillogismo conduce dalle premesse alle conclusioni è che essa sussiste anche se le premesse del sillogismo non hanno verità epistemica; anzi, quella necessità sussiste anche se le premesse sono false" (E. Severino, La filosofia antica). Il sillogismo prende corpo da una premessa: se tale premessa non è dimostrata come vera o è addirittura falsa, ogni conclusione del sillogismo sarà ugualmente valida, indipendentemente dal fatto che rappresenta una falsità.
Ad esempio, se prendiamo come vera la premessa "Tutti i sassi sono uomini" e il termine medio "tutti gli uomini parlano" allora è vera la conclusione che "tutti i sassi parlano".

Anche lo stesso Aristotele, conscio del problema, darà avvio nei Topici allo studio dei "sillogismi dialettici", intesi come sillogismi che contengono premesse e termini non evidenti ma verosimili (in epoca moderna, la logica formale si occuperà proprio del problema di come, partendo da certi postulati, si possa arrivare a un certo insieme di proposizioni). Comunque sia, la verità delle premesse sulle quali fondare il processo deduttivo del sillogismo è per Aristotele l'evidenza stessa dei processi naturali (il dato empirico certo ed evidente).


10. Il principio di non contraddizione

Il principio di non contraddizione è uno dei più celebri principi della logica, nonché quel principio che agisce sempre è incontrovertibilmente in ogni aspetto della realtà, nonostante in epoca contemporanea larga parte della filosofia intenda, con la svalutazione della logica, negare anche la validità di tale principio.

Il principio si presenta in questa forma, secondo le parole dello stesso Aristotele: "E' impossibile che, per il medesimo rispetto, la stessa cosa sia e non sia". In questi termini, tale principio si pone a fondamento di ogni altra considerazione logica. "Nel medesimo rispetto" significa che i due termini sono perfettamente escludenti solo se sono perfettamente contrari l'uno all'altro: quando vi è uno, è impossibile che vi sia l'altro, nel medesimo rispetto (ad esempio, una cosa non può essere alta e bassa nel medesimo rispetto, tuttavia può essere alta rispetto ad una cosa, e bassa rispetto ad un'altra).

Anche i negatori della logica e del principio sembrano essere soggetti al principio stesso: chi afferma che "la logica non è valida e quindi anche il principio di non contraddizione non è valido" è costretto, in questo ragionamento, ad utilizzare lo stesso principio, infatti essi è come affermassero: "dato che la logica non è valida, allora è impossibile che il principio rappresenti una qualche logica, perché è da escludere che la logica possa essere contemporaneamente valida e non valida". Ogni dimostrazione, dunque, non può prescindere dal "principio di tutti i principi", secondo ciò che scrive Aristotele, il quale dimostra nel IV libro della Metafisica, in modo analogo, ciò che è stato esposto qui sopra.

 

 

Scheda di Synt - ultimo aggiornamento 25-09-2004

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