Gilson
1, 2
Muckle
Von
Moos 1 , 2
Monfrin
Benton
Dronke 1, 2
Robertson
Zerbi
conclusione
di Vasoli
Questo epistolario è stato usato da un grande medievista, Étienne Gilson, come argomento decisivo a sostegno di una teoria storiografica che contesta l'idea romantica che il Rinascimento abbia rappresentato una rottura netta coi precedenti secoli medievali. Le discussioni, le precisazioni, le risposte talvolta assai aspre che accolsero la tesi del Gilson, sia nella sua prima formulazione (1938), sia nelle sue successive revisioni o nelle varie versioni in lingue straniere, fanno parte del lungo, interminabile dibattito sulla "frontiera" tra medioevo e mondo moderno.
La vicenda amorosa del "Peripateticus palatinus" e della sua discepola è un banco di prova della capacità critica degli storici, della loro indipendenza dai luoghi comuni ereditati e sempre molto influenti. Dubbi, diffidenze, incertezze filologiche, ostacoli psicologici di ogni genere rendono difficile una lettura di queste lettere che sia libera e spregiudicata, cioè che non voglia proiettare su personalità, eventi e situazioni del XII secolo i modelli etici e culturali con cui noi ce li vogliamo rappresentare. Ancora oggi, dinanzi a questi testi (che, in effetti, si distaccano dagli standards più consueti del tempo) i giudizi sono quanto mai contrastanti, discordi persino nella valutazione dei dati più evidenti. Complessi argomenti filologici e dottrinali sezionano ognuna delle "epistole", ne spiano le minime contraddizioni, ne ricercano tutti gli elementi utili per costruire ipotesi degne delle più elaborate "spies stories". Ripercorrendo la vasta letteratura che è stata dedicata a questo grande episodio della storia letteraria medievale, si ha spesso l'impressione che le lettere di Abelardo e di Héloïse siano servite a pretesto per affermare la "modernità" dei lontani secoli medievali, oppure per stabilire quale avrebbe dovuto essere la mentalità degli uomini e delle donne del loro tempo e decidere, quindi, su questo precario fondamento, se i due celebri amanti potevano davvero vivere i sentimenti, le idee e le espressioni documentate, in forma altrettanto eloquente quanto inoppugnabile, dal loro epistolario.
Sulla controversa questione dell'"autenticità" o "falsificazione" delle epistole, gli studiosi hanno recato e recano argomenti e prove spesso assai seri, dedotti, con gran corredo di riferimenti ed evidenze documentarie dai dati oggettivi della storia culturale, ecclesiastica o letteraria del tempo, o tratti da pazienti e minuziose ricerche della struttura interna dei testi. Eppure, quando si tocca la sostanza ultima della questione, l'atteggiamento spesso prevalente consiste nel sovrapporre alla realtà indiscutibile di queste pagine un giudizio generale sull'"uomo del Medioevo", oppure sulla "mentalità" del "magister", del "monacus" e della "monaca", sul "tipo" di "sincerità" o "simulazione" possibile nel XII secolo, o, magari sul "grado" di "sensualità" "passionalità" o "coscienza del peccato" accettabile in quel contesto storico e spirituale.
Il Gilson, al culmine della cosiddetta "rivolta dei medievisti", ha premuto (sia pure con tutta la consumata abilità e discrezione di un grande maestro degli studi storici) il "pedale" delle espressioni e degli atteggiamenti più anticonformisti di Héloïse, per dimostrare che certe idee e modi di vivere non erano affatto un'invenzione del Quattrocento o del Cinquecento.
Altri studiosi hanno rovesciato la sua argomentazione, indicando proprio in quegli elementi "non cristiani" (o, per lo meno, non coerenti con una certa idea della religiosità medievale) la prova più evidente della "falsificazione" o, se si vuole, del carattere non "genuino" e spurio dell'intera raccolta.Il primo punto da mettere in chiaro è il fatto, sinora incontestato, che la raccolta ci è pervenuta soltanto attraverso nove manoscritti, tutti risalenti al XIV secolo (e, dunque, ad oltre un secolo di distanza dalla drammatica vicenda di Abelardo e di Héloïse, che risale alla prima metà del XII secolo). In secondo luogo, è opportuno notare che alcuni di essi hanno avuto un singolare e importante rapporto con alcune personalità tra le più rappresentative del nostro primo umanesimo. Non c'è dubbio, infatti, che il codice 2923 della Bibliothèque Nationale di Parigi sia appartenuto al Petrarca e che siano di sua mano le postille e note aggiunte al testo. Si sa pure che il codice 802 della Bibliothèque Municipale di Troyes (che proviene dal capitolo di Notre Dame di Parigi, ma che trasse sicuramente origine dall'ambiente del Paracleto) fu acquistato, nel 1346, da Roberto de' Bardi, un amico dello stesso Petrarca, che proprio da lui fu invitato nel 1340, a recarsi a Parigi per ricevervi la corona di poeta. Ed è altrettanto certo che nel 1395 Coluccio Salutati chiedeva a Jean de Montreuil un manoscritto o una nuova copia del carteggio e che tale testo fu inviato, probabilmente a Firenze, l'anno successivo.
Simili circostanze (di indubbio interesse per comprendere i particolari rapporti che legano la cultura umanistica trecentesca a taluni aspetti della civiltà letteraria e filosofica del XII secolo) hanno contribuito ad accentuare le diffidenze di alcuni studiosi e a far supporre che le lettere non potessero essere il frutto di una sensibilità schiettamente "medievale", ma piuttosto l'espressione di una mentalità tardo-duecentesca o addirittura trecentesca. Se poi si aggiunge che, sin dal 1687, Roger de Rabutin, conte di Bussy, inviò a madame de Sévigné una sua versione delle lettere "amorose" di Héloïse e della risposta di Abelardo alla prima, nelle quali aveva inserito variazioni e interpolazioni personali, in modo da trasformare l'intera storia in qualcosa di molto simile agli intrighi erotici del tempo (e che, ancora nel 1695, un'altra versione probabilmente elaborata da diversi autori ebbe notevole fortuna, testimoniata dal rimaneggiamento del Du Bois, ispiratore, a sua volta della versione inglese di John Hughes [1714]) si può comprendere perché, in età più vicine, l'origine della collezione apparisse assai dubbia e venisse riferita ad autori ben diversi da quelli ai quali era stata tradizionalmente attribuita.
Già nel 1841, in piena età romantica, l'Orelli, pubblicando l'Historia calamitatum e quattro lettere "personali", attribuiva, infatti, l'intera raccolta, "propter multas rationes", a un amico ed ammiratore dei due amanti che avrebbe composto le lettere dopo la loro morte.
Nel 1856, Ludovic Lalanne dichiarava poi, perentoriamente, che l'epistolario era, nel migliore dei casi, il risultato di una rielaborazione posteriore; e deduceva questa conclusione dal contrasto, per lui evidente, tra un passo della Historia ed un altro della prima epistola di Abelardo. L'argomentazione dello studioso francese ebbe fortuna e fu ripresa e sviluppata anche da altri.
In particolare, nel 1913, lo Schmeidler la faceva propria, aggiungendovi, però altre prove e riflessioni di qualche peso. Egli affermava che l'Historia calamitatum, punto di inizio della raccolta, non avrebbe potuto esser scritta prima del 1132, giacché vi si ricorda un privilegio di Innocenzo II, accordato al monastero del Paracleto il 28 novembre dell'anno precedente, ossia a distanza di due anni dall'installazione in quel monastero di Héloïse e delle sue compagne; e precisava ancora meglio la data, sottolineando che la descrizione delle persecuzioni subite da Abelardo nell'abazia di Saint-Gildas indica un lasso di tempo sicuramente definibile tra il 1132 e il 1134. Ora, il filosofo, nella Historia, dichiara di essere tornato da Saint-Gildas al Paracleto, proprio per insediare Héloïse e le altre monache, e, dunque, di aver rivisto, almeno in questa occasione, la sua antica amante. Ma una simile affermazione appare del tutto contraddittoria con un passo della prima lettera di Héloïse ove la badessa scrive, addirittura due volte, di non aver più rivisto Abelardo dopo la loro entrata in "religione". Per lo Schmeidler, convinto, come il Lalanne, della sostanziale veridicità della "Historia calamitatum", questo argomento bastava a dissipate ogni dubbio sulla natura spuria e surrettizia dell'epistola atttibuita ad Héloïse. Ma egli aggiungeva anche altre sottili argomentazioni (che il Gilson ha riassunto, sia pure in forma abbastanza polemica e parziale, nel suo libro) per affermare la non autenticità delle lettere.
Poi, dietro le sue orme, mademoiselle Charlotte Charrier ribadiva, nel 1933, e addirittura ampliava le ragioni di dubbio e le pretese contraddizioni interne, dichiarando, infine, che la raccolta, in quanto tale, non poteva essere opera dei due amanti, e indicando, con un singolare processo di trasposizione di modelli etici e comportamentali, quale avrebbe dovuto essere il "vero" tenore delle epistole di Héloïse e come costei avrebbe dovuto rispondere alle esortazioni ed agli ammaestramenti di Abelardo.Non starò qui a ripetere i notissimi argomenti usati, con grande maestria, dal Gilson per mostrare: 1) che l'interpretazione del Lalanne era stata influenzata in maniera decisiva dalla versione francese dell'Oddoul, assai discutibile nella sua resa; 2) che l'argomentazione dello Schmeidler segue strettamente quella del Lalanne già così " pregiudicata"; 3) che la Charrier adopera la traduzione di Octave Gréard, analoga, in questo caso, a quella dell'Oddoul; 4) che siffatte interpretazioni e versioni fraintendono il testo di Abelardo e creano una contraddizione originariamente inesistente tra l'Historia e la seconda epistola di Héloïse; 5) che gli altri argomenti addotti dallo Schmeidler e dalla Charrier non soltanto sono deboli, ma non provano concretamente niente contro l'autenticità della raccolta. Il libro del Gilson (1938) restituì gran parte della sua credibilità storica al celebre carteggio: quel saggio, insieme così acuto e brillante, costituisce, tuttora, una delle più suggestive introduzioni alla lettura delle lettere dei due amanti. L'opera del Gilson segnò, al di là di ogni particolare dissenso, un punto fermo nell'ormai lunga disputa.
Il padre basiliano Joseph Muckle tra il 1950 e il 1956 tentò una edizione critica della "Historia calamitatum" e delle epistole II-VIII. Ma non aveva certo una grande preparazione filosofica e soprattutto gli mancava una mentalità e una metodologia da vero storico. Egli infatti riapriva subito la querelle giudicando senz'altro spurie le prime due epistole di Héloïse, proprio sul fondamento della loro assoluta incompatibilità con la sua concezione della spiritualità e del sentimento religioso ed etico medievale. I temi che Gilson aveva usato per celebrarne la modernità erano per Muckle il segno di un'indiscutibile falsificazione, documentata da considerazioni indubitabili. Intanto, per un pio studioso qual era il monaco basiliano, la sola circostanza che Héloïse dichiarasse apertamente di considerare più desiderabile lo stato di concubina di Abelardo a quello di moglie, e per di più affermasse di preferire di essere stata la sua amante alla condizione gloriosa di sposa legittima di Augusto, era del tutto inconcepibile come genuina espressione di una donna e di una religiosa del XII secolo. In secondo luogo lo stupiva e lo confermava nel suo giudizio il fatto che Abelardo non avesse reagito con la dovuta indignazione e il necessario rigore a considerazioni così «stravaganti» e «dissennate», respingendo una dichiarazione d'amore tanto appassionata e peccaminosa. Ma il punto più grave per il Muckle (che evidentemente giudicava queste due grandi personalità sul metro esclusivo dei propri convincimenti etici e religiosi) era l'evidente «doppiezza» della vita di Héloïse, il contrasto tra la «figura pubblica» di una monaca, anzi di una badessa, sottomessa apparentemente alla sua rigida disciplina e considerata dai contemporanei e dalle più alte autorità religiose una guida sincera, abile e santa delle sue consorelle, e la donna sensuale e passionale, incapace di distruggere il ricordo dei suoi rapporti carnali con Abelardo, anelante ancora delle gioie dell'amore fisico e così esplicita nel dichiarare la forza e l'inesausto dominio dei suoi desideri. Posto di fronte a una simile «ipocrisia» e «simulazione» il Muckle non aveva dubbi: quelle lettere potevano essere soltanto il frutto di una falsificazione o almeno di una profonda rielaborazione che, con uno scopo non chiaramente spiegato, ma certo di carattere letterario e romanzesco, avesse sovrapposto alla vera immagine della «saige Héloïse», la badessa dedita ad espiare nel suo servizio divino le colpe della prima giovinezza, il fantasma peccaminoso dell'amante romantica, non pentita e, anzi, legata ancora e sempre alla sua colpa. Non è il caso di insistere sull'evidente fragilità di un'argomentazione non fondata su alcun solido dato oggettivo, ma soltanto su sentimenti e reazioni tipiche di un monaco del nostro tempo (e, addirittura, di età preconciliare!). Ma anche altri studiosi hanno concordato nel ritenere del tutto «anacronistici» i motivi così sensuali contenuti nelle epistole della badessa del Paracleto e nel considerarli come probabili indizi della profonda manipolazione subita da questi scritti.
Autori più recenti, come lo studioso svizzero Von Moos, hanno proposto una soluzione molto diversa: da quei temi hanno dedotto che l'intera raccolta è un'opera accuratamente "organizzata", studiata in tutti i suoi dettagli allo scopo di narrare la storia esemplare di una illustre «conversione». In un libro del 1974, di grande rigore e acutezza, con solida conoscenza delle tecniche retoriche tipiche della letteratura latina medievale, il Von Moos ha ricostruito la storia per dimostrare che i caratteri e i «loci» letterari specifici delle lettere non sono mai stati accuratamente studiati proprio per il sovrapporsi di elementi ideologici moderni. Con ironia egli ha smontato il pesante castello di deduzioni storiografiche costruito intorno al celebre «caso» mostrandone il condizionamento ideologico. Per il Von Moos la questione della autenticità non è la più importante: più interessante per il lettore «scientifico» è indagare questi testi come prodotti di una civiltà letteraria che ubbidiva a certe norme, aveva moduli espressivi molto specifici e si affidava in genere alla efficacia di certi procedimenti persuasivi. Ci si accorgerebbe così che la raccolta ha molti elementi comuni ad altri esempi tipici della «romanzesca» agiografica medievale, temi che sono presenti in altre opere più o meno celebri, forme stilistiche e modelli retorici adoperati con grande frequenza nella narrazione di altre vicende spirituali analoghe a questa. Il nucleo centrale della raccolta è costituito proprio dalla «conversio» della badessa del Paracleto, narrata secondo uno schema tradizionale che impone all'autore di insistere proprio sulla natura peccaminosa dei protagonisti per meglio celebrarne l'interiore trasformazione, il salto dalla torbida sottomissione ai desideri carnali alla sublimazione in un puro ideale spirituale e nel «servizio» di Dio.
Questa interpretazione del Von Moos del 1974 era stata preceduta, nel luglio del 1972 da un convegno tenutosi all'abazia di Cluny, intitolato «Pierre Abélard - Pierre le Venerable: Les courants philosophiques, litteraires et artistiques en Occident au milieu du XII siècle», che ha rappresentato una vera svolta nella inesauribile disputa sulla autenticità della raccolta. In queste discussioni si è dispiegato l'intero ventaglio delle possibili interpretazioni, ma soprattutto la storia delle loro origini è stata sondata in direzioni molto diverse da quelle che portano alla tradizionale attribuzione ad Abelardo ed Héloïse. Jacques Monfrin ha respinto le contestazioni della autenticità: convinto che la collezione abbia una sua profonda e originaria unità, ha insistito soprattutto sul codice fondamentale, l'802 della Biblioteca Municipale di Troyes, databile sicuramente alla fine 200-inizi 300. Esso comprende, oltre alla "Historia calamitatum", l'intero corpo delle lettere sino all'VIII e un complesso di testi che sono in sostanza le Institutiones del Paracleto. Il Monfrin osserva che si tratta di una raccolta organica, compiuta mediante l'unione di testi di cui non si conosce, sino ad ora, alcuna tradizione autonoma. Egli è convinto che questo corpus sia stato riunito e ordinato da una persona che apparteneva all'ambiente del monastero e intendeva lasciare una testimonianza della storia di Abelardo ed Héloïse, del loro amore e della loro conversione; ma anche legare l'ordinamento e il futuro spirituale di quella istituzione alle intenzioni dei due fondatori. Secondo Monfrin l'ignoto raccoglitore sarebbe Héloïse stessa, la persona che meglio e più sicuramente di chiunque altro avrebbe potuto concepire e realizzare il progetto. Quindi la raccolta risalirebbe alla metà del XII secolo e avrebbe avuto per oltre un secolo una circolazione limitata all'ambiente conventuale o comunque assai scarsa, prima di diventare testo noto e copiato in diversi codici. Semmai il Monfrin ha qualche dubbio a includere nel corpus originario le Institutiones... Comunque egli ribadisce non precisi argomenti storici, psicologici e letterari la coerenza interna del corpus e la sua rispondenza agli scopi del suo autore o raccoglitore. L'Historia narra la vicenda della caduta e della conversione di Abelardo, le epistole II-V sono la storia della più difficile e controversa conversione di Héloïse, il suo difficile passaggio dalla appassionata memoria del suo amore umano e dalla sua prorompente sensualità alla consacrazione alla grande opera comune. Quindi la chiave decisiva è data dalla ultima parte della lettera V di Abelardo, con il suo appello intenso e pressante a lasciare alle spalle un passato così doloroso e cercare un diverso amore nella dedizione spirituale all'esperienza del Paracleto. Poi la VII lettera di Abelardo sulla dignità delle monache e l'VIII concluderebbero l'intero ciclo gettando i primi fondamenti della esperienza monastica del Paracleto. Monfrin insiste sulla profonda unità e affinità sia strutturale che intellettuale dei diversi testi, sul loro confluire in un disegno persuasivo in cui scorge la garanzia migliore della loro autenticità. Anch'egli si domanda se un piano così compiuto non induca a sospettare che scritti autentici disposti così abilmente siano stati in certa misura rielaborati e adattati per ottenere l'effetto finale desiderato. Non ignora il problema di chi sia stato l'eventuale rimaneggiatore, in un ambiente che voleva perpetuare la leggenda dei fondatori. Ma resta personalmente convinto che la raccolta rechi i segni dei due autori tradizionali.
Nello stesso convegno di Cluny, John Benton, uno storico americano, si è mosso nella direzione più opposta. Anch'egli ritiene che lo scopo della raccolta sia la narrazione di due conversioni esemplari, ma a questo fine se ne aggiunge un altro che gli sembra prevalente: stabilire una «regola» per il Paracleto (da lui considerato monastero doppio, maschile e femminile) che imponesse la prevalenza dell'elemento maschile nella vita dell'istituzione. Per dimostrare questo assunto il Benton adduce tutti gli elementi di contrasto tra quanto è detto nelle epistole e quanto sappiamo oggettivamente sulla storia del Paracleto e delle sue regole. Il risultato di queste analisi è un'ipotesi che il Dronke ha definito «a conspirancy theory, uncovered rather in the manner of Sherlock Holmes». Comunque l'ipotesi è questa: nel tardo 200 un falsario ha compilato l'epistola VIII (la c.d. Regula) allo scopo di introdurre una regola più rilassata e di affermare la predominanza maschile nel convento. Ma per rendere persuasiva la sua contraffazione, ha indotto un secondo falsario (forse un magister dell'università parigina) ad aggiungere alcuni documenti che la autenticassero. Costui scrisse la "Historia Calamitatum" (che in alcuni passi afferma il predominio maschile e la funzione di guida dell'uomo) e le cosiddette lettere personali (II-V, in cui Héloïse insiste sulla sua sottomissione ad Abelardo), fondandosi su un'opera letteraria del XII secolo che aveva come oggetto la biografia di Abelardo ed era stata scritta, come mero esercizio retorico, da un terzo autore ignoto. Infine il primo falsario potrebbe essersi servito dell'aiuto di un quarto collaboratore, più esperto nell'uso delle tecniche letterarie, che avrebbe, in qualche modo, unificato i materiali di origine e di formazione così diversa. Quindi: a fondamento cronologico di tutta la collezione starebbe un'operetta del XII secolo, di carattere puramente letterario (forse costruita con l'aiuto di qualche frammento davvero di Abelardo, ma non una vera autobiografia). Le epistole VI, VII e VIII sarebbero invece opera di uno scrittore che nel 1289, durante una difficile e controversa elezione di una badessa del Paracleto, si sarebbe servito di alcuni scritti autentici di Abelardo (la perduta "Exhortatio ad fratres et commonachos" ed una supposta "Exhortatio ad sorores"), ma con finalità e scopi del tutto diversi. Questo autore che, secondo il Benton, doveva appartenere al «ramo» maschile del Paracleto, avrebbe appunto chiamato in causa l'autorità consacrata dei due fondatori per indurre le monache ad accettare la sottomissione ai «magistri»; ma avrebbe, abilmente, offerto una sorta di contraccambio, insinuando una regola che ammetteva l'uso moderato della carne. Inoltre la presentazione dell'immagine della badessa proposta nella Regula si sarebbe adeguata perfettamente a quella di una delle contendenti, Agnese di Mecringes, anziana e poco dotta, in modo da far sospettare una sorta di complotto monastico (non diverso da quelli di cui sono così ricche le cronache del 200 e del 300). Resta però da risolvere la questione della autenticità delle "lettere personali" (II-V) che con un simile complotto hanno ben poco a che vedere e che sono invece state il punto centrale della disputa sulla autenticità. Il carattere letterario e l'alta qualità di queste lettere inducono Benton a supporre che esse siano opera dello stesso autore della Historia calamitatum. Ma l'insistenza che il Paracleto debba avere una regola e il carattere «esemplare» della sottomissione di Héloïse alla guida di Abelardo gli suggeriscono invece che anche dietro questi testi ci sia il falsario autore delle lettere VI-VIII. Egli comunque non esclude che diversi falsari si siano succeduti nel tempo cooperando, magari per fini molto diversi, a costruire e poi a unificare, con una finale patina letteraria comune, una collezione del tutto composita ma orientata alla luce delle vicende monastiche del tardo 200. La soluzione del Benton, ingegnosa e sottile in molti suoi passaggi, ha il vizio di tutte quelle ipotesi filologiche e storiografiche che per risolvere ogni difficoltà o contraddizione, finiscono per costruire soluzioni troppo complesse e macchinose. Ma ha indotto gli studiosi a riflettere a fondo su alcuni passi controversi della "Historia calamitatum" e sulle vicende interne al Paracleto, che è pur sempre l'ambiente in cui la raccolta è nata e si è a lungo conservata, prima di diventare un famoso «caso» letterario.
Anche un acuto studioso inglese Peter Dronke, tutt'altro che proclive ad accettare le tesi più fantasiose di Benton, ha onestamente riconosciuto che la epistola VIII è un problema a sè e si trova integralmente solo nel codice di Troyes. Ma ciò non gli ha impedito di respingere recisamente la massima parte degli elementi raccolti dal Benton, come risultato di una erronea interpretazione di alcuni passi della Historia. Comunque, anche ammettendo gli errori della Historia, resterebbe comunque il dubbio se essi siano dovuti al suo redattore o a dei falsificatori successivi o se si tratti di una falsificazione completa. Per il Dronke errori e discrepanze nel testo della Historia non possono giustificare la conclusione che tutta l'epistola sia una invenzione letteraria e che quindi le lettere che seguono o rispondono alla Historia siano anch'esse non genuine. Tanto più che, nota Dronke, il Benton, sempre così rigoroso e oggettivo quando ha a che fare con documenti storici e accertamenti di fatto, è altrettanto soggettivo di molti suoi predecessori quando si trova ad analizzare i testi personali delle lettere e a giudicare la vicenda amorosa di Abelardo ed Héloïse. Su questo punto ci sono delle osservazioni sintomatiche che inducono a dubitare se al fondo di una ricostruzione tanto complessa non stia forse ancora una volta l'inconscio desiderio di «esorcizzare» quelle espressioni e quei sentimenti di Héloïse, già giudicate «anacronistiche» e «impossibili» da tanti studiosi. Se anche il Benton non tenti, infine, di liberare queste due personalità così esemplari del XII secolo dai soliti fantasmi della «sensualità» e del «peccato» che sono così temuti non solo da chi ama un'antica immagine di maniera della «coscienza» medievale, ma anche da chi traspone nel tempo la propria scala di valori etici e trasforma la ricerca storica nell'esercizio astratto di un giudizio più o meno positivo sugli uomini del passato. Che questa tendenza sia ancora assai forte anche tra studiosi ed eruditi, il Dronke lo ha ben dimostrato richiamandosi al testo del Robertson "Abelard and Heloise" (1972), che mostra notevole disdegno per la vicenda «peccaminosa» dei due amanti, definita «sordid affair» e che non dubita che i lettori del XII secolo dovessero condividere tale giudizio, perchè non erano «sentimentali», non avevano la nostra sensibilità romantica, erano insomma impenetrabili alle ragioni psicologiche e storiche per le quali al contrario noi consideriamo tragica e drammatica questa storia e siamo capaci di emozionarci e provare pietà leggendola. Su quali argomenti si fondino simili drastiche presupposizioni il Robertson non lo dice. Contro di esse il Dronke riporta una analisi delle testimonianze medievali sul celebre caso, di tutt'altro segno. E che un altro grande intellettuale medievale, Dante, sia stato ben capace di provare un folgorante sentimento di pietà di fronte al destino di due amanti incestuosi e non abbia affatto considerato «sordida» e «ridicola» la storia di Paolo e Francesca, è cosa che non turba affatto il Robertson, forse convinto che tra la metà del XII secolo e gli inizi del 300 la sensibilità, i costumi, gli standard etici e i modi di pensare siano mutati con la stessa rapidità con cui si trasformano oggi. Comunque questa impostazione porta anche il Robertson ad aderire all'ipotesi della collezione voluta e pianificata, forse dallo stesso Abelardo, proprio allo scopo di mostrare come fossero «ridicole» e «vergognose» le persistenti tentazioni di Héloïse, il suo lungo indugiare sulla memoria dell'amore carnale e di insegnare come anche quella «irragionevole ragazza» sapesse infine vincere se stessa e trasformarsi nella saggia e venerabile badessa così rispettata dai suoi contemporanei.
Comunque la tesi di Benton ha suscitato un forte interesse e vivaci reazioni tra gli specialisti, proprio per il carattere radicale e sconvolgente della soluzione proposta e per i molti problemi che suscita. Lo stesso Von Moos, sia nel suo contributo al convegno di Cluny che in altri lavori paralleli e successivi, ne ha tenuto conto, anche senza aderirvi completamente, ma certo attenuando la sua precedente propensione verso la tesi della autenticità. Ma, fedele al suo metodo di ricerca che mira soprattutto ad illuminare i nessi tra i testi della raccolta e le strutture stilistiche letterarie medievali, ha dichiarato che la questione della autenticità è estranea al suo campo di indagine perchè non muta il carattere di fondo della raccolta e il suo posto nella storia dei modelli culturali. Si tratti delle parole di Héloïse e di Abelardo o dell'opera di uno o più altri autori (o del complicato processo di falsificazione delineato dal Benton) il risultato finale non muta: la raccolta affonda le sue radici nel fertile terreno dell'esperienza retorica classica e medievale. Ma nel suo saggio «Le silence d'Héloïse et les idéologies modernes» il Von Moos si misura proprio con uno dei punti chiave dell'epistolario, uno di quei punti su cui i sostenitori delle opposte tesi si sono scontrati. All'inizio della VI epistola, rispondendo all'appello di Abelardo a chiudere col passato e a dedicare a Dio tutta la pienezza del suo amore, Héloïse tace (pur dichiarando di accettare l'insegnamento di Abelardo e di essere disposta a porre un freno, se non al sentimento, almeno alle sue espressioni). Secondo la comune lettura degli interpreti la donna non avrebbe accettato di pentirsi e di sacrificare il suo amore umano, preferendo rifugiarsi in un silenzio tanto più ambiguo quanto più aperto a tutte le possibili interpretazioni. Nè mai, nel seguito di questa sua ultima lettera, si trovano espressioni, esplicite o implicite, di pentimento. Se ne è dedotto che questo silenzio costituirebbe, a seconda delle opzioni, la prova del carattere moderno ed eroico dell'amante di Abelardo, già vicina allo spirito della Francesca dantesca, o la schiacciante conferma della falsità dell'epistola e del suo «anacronismo». Ma il Von Moos ritiene che questo «silenzio» fosse invece perfettamente comprensibile ed accettabile per gli uomini di cultura del tempo perchè coerente con le consuetudini espressive dell'epoca. Egli istituisce uno stretto rapporto tra questo passo e le due lettere precedenti di Héloïse: il suo stato d'animo, la sua considerazione del passato e il ricordo ancora dominante non implicherebbero un rifiuto alla conversione, la sfida a Dio e la ribellione muta ma eloquente alle sue leggi, ma sarebbero solo la rappresentazione di una coscienza esacerbata dal peccato e incapace di detestarlo come sarebbe necessario. In queste lettere egli scorge il richiamo a un'altra storia esemplare, la cui citazione era molto frequente nel XII secolo, quella di Maria Maddalena. Forte del confronto con una serie vasta di precedenti letterari in cui proprio la estrema disperazione della salvezza segna il momento della conversione, il punto di crisi oltre il quale scatta il segreto processo della «metanoia», lo studioso non vede nelle epistole di Héloïse alcuna ragione di scandalo per i contemporanei, alcun atteggiamento spirituale che essi non potessero perfettamente comprendere, ammaestrati com'erano da una letteratura agiografica aderente agli stessi moduli psicologici ed espressivi.
Quindi l'enigmatico silenzio di Héloïse non è, per il Von Moos, segno di impenitenza e ostinazione nel peccato, nè la spia di una volontà di perdizione che desideri segretamente l'estrema irreparabile caduta. Al contrario, il passo tanto discusso obbedisce a precise norme letterarie ormai canonizzate, appartiene a quella «strategia retorica della "petitio"» che richiede che si arrivi al punto estremo del pericolo. Si tratta di un tipico «topos letterario», la «avocatio mentis a malo», di cui l'ottimo conoscitore di testi latino-medievali può ricordare esempi e casi celebri. Esiste però un problema che lo studioso non dimentica: il carattere quasi reticente della conversione di Héloïse, l'assenza di una sua motivazione esplicita, tanto più opportuna e necessaria in un testo che - sappiamo - era destinato a circolare nell'ambiente monastico e a servire da «tradizione» e da «esempio» per la comunità del Paracleto. Il Von Moos, sempre così fine e sottile nelle sue analisi, non ha difficoltà a richiamarsi a precisi moduli stilistici, frequenti in testi di andamento dialogico o in discussioni... Sono i procedimenti retorici della «reticentia», della «praeteritio» o della «praecisio» a cui si ricorre per superare e insieme denunciare un punto molto difficile del processo discorsivo, per evidenziarne la gravità. Tale tecnica sarebbe stata usata dall'autore dell'epistola per evitare la rivelazione di un lacerante conflitto interiore, secondo una tendenza tipica della letteratura del tempo, restia a disvelare ad altri quei segreti dell'anima che solo Dio deve conoscere. Per cui l'analisi stilistica dell'epistola ecluderebbe il carattere scandaloso che le è stato tante volte attribuito. Per i lettori del Paracleto la conversione della badessa era limpida ed evidente, presentata anzi in quelle forme che per loro erano le più consuete, tradizionali ed efficaci.
Quindi basta sottrarre la raccolta alle suggestioni ideologiche moderne o contemporanee e leggerli nell'unica chiave legittima, quella offerta dal linguaggio e dagli stili espressivi del tempo, per rendersi conto che essi costituiscono una compiuta, organica, costruzione letteraria che ha per oggetto le origini del Paracleto, il suo significato spirituale, l'esaltazione dei suoi fondatori, ascesi dal peccato alla vera esperienza dell'amore divino. Siano le epistole opera dei due amanti o di altro o altri autori, siano del XII o del XIII secolo, il loro senso e il loro scopo finale non muta.
L'analisi del Von Moos non è sembrata troppo convincente al Dronke. A suo giudizio le sottili motivazioni retoriche e letterarie recate da Von Moos non valgono a dissolvere il dato di fatto che la «prova» della «conversione» di Héloïse resta affidata solo a pochi passi reticenti dai quali sembra difficile poter dedurre tutte le conseguenze che ne vorrebbe trarre il Von Moos. Soprattutto sembra al Dronke paradossale che un'opera «esemplare», costruita con tanta premeditazione per narrare la storia di una grande «conversio», stranamente non renda esplicito proprio il suo tema centrale. Il Dronke non contesta certo che la letteratura agiografica medievale sia piena di molti esempi di peccatrici convertite dai sensi alla «santa continenza» e all'amore divino. Non conosce però un'opera di questo genere nella quale siano usati procedimenti letterari che, nel più benevolo dei casi, lascino adito al dubbio se l'eroina si sia veramente pentita e convertita. Così come gli sembra poco comprensibile l'atteggiamento di un autore che, volendo in qualche modo fare opera di edificazione, segua vie tanto tortuose, oltre tutto contrastanti con quanto affermano testimonianze contemporanee o assai vicine. L'ipotesi che le lettere appartengano al genere letterario delle «storie di conversione» va abbandonata, almeno sino a quando resti un ragionevole dubbio sulla sincerità della «conversio» di Héloïse. Conversione della quale molto probabilmente dubitava lo stesso Abelardo.
Il Dronke è ancora più drastico nel respingere la complessa costruzione del Benton, alla quale oppone un eccessivo ricorso a ipotesi non suffragate da alcun dato di fatto davvero provato e solo suscettibili di aggiungere artificiosi problemi ai tanti già posti da queste lettere. In realtà, dietro tutti i tentativi di contestare l'autenticità o di mutare il carattere di queste lettere, il Dronke ritrova sempre la stessa tenace volontà di imporre ad Abelardo ed Héloïse norme e idee altrui e di ritenere che certi sentimenti, certi comportamenti, certi modi di pensare e di esprimersi dovessero essere necessariamente inaccettabili per gli uomini del Medioevo. Ritenendo che in ciò stia l'origine di molti equivoci ed errori storiografici, sceglie una via nuova e originale: indagare, su documenti e testi degli ultimi secoli dell'epoca medievale (dal XII al XIV), come gli autori del tempo abbiano effettivamente reagito di fronte alla vicenda dei due amanti, come l'abbiano giudicata e compresa. Il Dronke non ritiene che questo di per sè risolva la questione della autenticità delle lettere, ma che serva a sgombrare il campo dal principale fattore di fraintendimento: il preconcetto moderno sulla spiritualità medievale. Muove dunque da pensieri, sentimenti, giudizi documentati.
Il primo testo analizzato dal Dronke è una composizione poetica attribuita allo stesso Abelardo che l'avrebbe scritta per Astralabio, il figlio avuto da Héloïse. Si tratta di una raccolta di «sententiae», ma sono inclusi anche dei versi dai quali si può agevolmente dedurre che Abelardo era convinto che Héloïse non si era pentita, ma aveva continuato a rimpiangere le gioie della sua passione carnale. Che il Carmen sia opera autentica di Abelardo e che quei versi non siano dovuti ad un interpolatore è dimostrato dalla loro eccezionale aderenza alle tipiche concezioni etiche del filosofo e allo stesso movimento interno del suo pensiero, difficilmente ripetibile da un'altra mente. Ma anche se non fossero autentici, dimostrerebbero comunque che un autore del XII o degli inizi del XIII secolo, che aveva ben presenti il pensiero e le opere di Abelardo, riteneva che Héloïse non si fosse pentita, senza mostrare nè scandalo, nè orrore. Inoltre alcune precise corrispondenze tra questo Carmen e la II lettera di Héloïse e tra questa e un'altra composizione poetica sempre attribuita ad Abelardo, suscitano gravi problemi ai sostenitori della falsificazione: se l'epistola fosse falsa si dovrebbe supporre che il suo autore avesse accesso sia al Carmen sia al «planctus» che ci è giunto in un unico manoscritto del XII secolo. E anche queste circostanze rendono meno plausibile l'ipotesi della «serie di falsari» che si siano affacendati nella compilazione della raccolta apocrifa.
La seconda testimonianza raccolta dal Dronke è un altro testo poetico del XII secolo, la «Metamorphosis Golye episcopi», che si ritiene scritto intorno all'anno della morte di Abelardo (il 1142, o secondo alcuni nel 1143). Opera di un seguace del filosofo, è di non facile interpretazione per la sua struttura allegorica (derivata dalle Nuptiae di Marciano Capella) e fortemente allusiva. Il Dronke ne individua il tema dominante nel continuo conflitto tra Afrodite e Pallade Athena, cioè tra l'amore e il sapere. (...) Il poeta coglie l'occasione di questi versi per difendere la fama di Abelardo e, secondo il Dronke, c'è un rapporto tra l'immagine allegorica della «Philologia» e la personalità reale di Héloïse. Al Dronke sembra significativo che in un testo come questo, in cui gli intenti satirici sovrabbondano, non ci sia la minima espressione irriverente o scherzosamente allusiva alla vicenda clamorosa della evirazione di Abelardo, bensì solo la celebrazione della sua grandezza intellettuale, insieme ad un delicato richiamo al suo antico amore.
Del resto, altre due testimonianze di non molto posteriori (due brevi poesie) forniscono al Dronke indicazioni ancora più eloquenti e circostanziate per giudicare l'atteggiamento di uomini assai vicini nel tempo, nei confronti della celebre coppia. Non posso entrare nei particolari delle indagini e analisi su questi testi, che implicano comunque problemi filologici e storici assai interessanti. Basterà dire che l'autore della prima poesia, mentre sembra denunciare la crudeltà di Abelardo quando impose ad Héloïse di prendere il velo, non nasconde la propria ammirazione per l'inflessibile amore della donna, mai condannato o ripudiato, e una sincera commozione per la sua sorte; l'autore del secondo testo, anche se pone Abelardo tra i grandi uomini distrutti dall'amore per una donna, come Adamo, Sansone e Salomone, mostra tuttavia la sua schietta ammirazione per il filosofo e rivela una simpatia ancora più profonda per Héloïse, perchè non aveva consentito al matrimonio segreto, causa ultima della tragedia.
Sono sentimenti questi che il Dronke ritrova, del resto, anche in due epitaffi per Héloïse ed Abelardo che fanno parte di una miscellanea poetica copiata da una mano ignota ma del XII secolo, probabilmente a Sciaffusa. Certo le espressioni di lode ad Héloïse sono abbastanza convenzionali e comuni a un tale genere di componimenti; ma sintomatica e rivelatrice è, invece, l'insistenza sulla «unità dell'amore umano e divino», consacrata dall'unione dei due amanti anche oltre la morte. L'amore sessuale di Héloïse e Abelardo non è ignorato nè condannato; anzi, l'autore di un terzo epitaffio, conservato in un altro manoscritto, insiste proprio sull'aspetto terreno del loro amore, dal quale è appunto scaturita la comune professione religiosa e, al di là di questa vita, il perenne «compimento» celeste. Si dovrà, dunque, dire - si chiede il Dronke - che questi poeti sono anch'essi degli «anacronismi» e che i loro sentimenti ed espressioni erano «impossibili» nel loro tempo? Oppure si dovrà muovere da simili documenti anche per affrontare altre testimonianze assai più note ed illustri e comprenderle nel loro effettivo significato?
E subito la sua attenzione si sposta su un altro testo capitale di questo dossier: l'epistola che Pietro il Venerabile scrisse ad Héloïse per consolarla della morte di Abelardo. Il grande abate di Cluny, protettore del filosofo nei suoi ultimi, amarissimi anni, anche in questo momento solenne usa consapevolmente espressioni di indubbio significato sessuale; nel giro di una sola frase tornano parole («carnalis copula», «vinculum», «adherere», «gremium», «confovere») che servono, appunto, per stabilire una «prospettiva insieme umana e divina», fondata sull'ottimistica certezza che i due amanti saranno uniti in cielo dal loro amore ormai sublimato. Certamente, Pietro il Venerabile non dubita che il legame celeste della «caritas» sia più forte della «carnalis copula»; ma nella sua epistola non c'è alcun accenno alla «follia» o alla «sordidezza» dell'amore terreno e carnale, alcuna condanna, alcun disprezzo. Il che significa - è questa la conclusione del Dronke - che il modo di pensare e le reazioni moralistiche di taluni studiosi del nostro secolo sono davvero assai più "medievali", nella loro invincibile sessuofobia, di quanto non lo fosse l'atteggiamento così comprensivo ed umano non solo dei poeti, ma di un uomo di religione del XII secolo!
Non seguirò il Dronke nella sua fine analisi delle testimonianze del XIII e XIV secolo, che costituiscono, sino ad oggi, il primo tentativo organico e critico di ricostruire l'effettiva "fortuna" medievale della storia dei due amanti. E mi limiterò a ricordare che lo studioso inglese, tra tutti i testi del XII secolo allusivi alle vicende, ne conosce solo due nei quali siano contenute espressioni di condanna morale, o meglio di irrisione o di satira; ma si tratta, vedi caso, di lettere di due uomini, Roscellino e Fulco, l'uno notissimo avversario di Abelardo e l'altro autore di una ipocrita consolatoria nella quale già il Misch ha riconosciuto il proposito di volgere in ridicolo la tragica sventura del filosofo. Al di fuori di queste isolate reazioni, dettate da evidenti ragioni di ostilità personale, tutte le altre testimonianze confermano che Abelardo ed Héloïse sono divenuti ben presto e sono rimasti, negli ultimi secoli medievali, gli eroi di una «leggenda romantica» considerata con sentimenti di pietà, commozione, umana comprensione e mai oggetto di moralistico disgusto o di fanatica repulsione.
Ho insistito sullo scritto del Dronke perchè credo che esso costituisca un apporto tra i più solidi alla ripresa della querelle e anche perchè le sue analisi confermano le conclusioni a cui è pervenuto anche un nostro studioso, Pietro Zerbi, in un suo recente contributo. Zerbi ha recato nuovi importanti argomenti a favore della autenticità della raccolta e della necessità di studiare questi testi «dall'interno», riconoscendo la coerenza strutturale, ma anche il loro contenuto «umano» e «personale» e l'indiscutibile presenza di elementi difficilmente risolvibili nel puro schema della costruzione letteraria. Naturalmente egli apprezza molto la finezza dello studio del Von Moos. Pure ritiene che la perfetta «unità letteraria» indicata dallo studioso svizzero come carattere eminente e determinate della raccolta possa essere difficilmente spiegata senza ammettere, «come presupposto e supporto, l'unità di un dramma profondo e sublime, concretamente vissuto da un uomo e da una donna». Com'è possibile, insomma, non passare dal riconoscimento della unità letteraria a quello della autenticità? Tanto più che è ben difficile pensare che altri autori fossero capaci di intrecciare un simile dialogo e di esprimere tali sentimenti, «con aderenza così perfetta ai canoni retorici e stilisti», diversi dai veri protagonisti della vicenda, uno dei maggiori filosofi medievali e la donna «più singolare» di quell'epoca. Lo Zerbi, sostanzialmente scettico sulla possibilità che una indagine sulle strutture sintattiche e stilistiche possa permettere di individuare i punti di una probabile revisione subita dai testi originari prima di diventare un corpus organico, ritiene tuttavia che tale eventuale revisione non ne abbia potuto mutare davvero la natura o cancellare il segno inconfondibile delle due personalità che li hanno scritti mentre vivevano intensamente il loro dramma esistenziale, etico e religioso.
Certo della autenticità delle epistole, lo Zerbi ha dedicato la maggior parte del suo intervento a discutere la ipotesi «sconvolgente» di Benton. E debbo dire che quanto egli ha scritto a questo proposito rappresenta la risposta più precisa e documentata alla complessa costruzione dello storico americano. Anzitutto egli obietta che Héloïse sembra proprio l'autore più adatto per la lettera VI, le cui acute domande rivelano una mentalità affine a quella che si trova nei "Problemata" (la cui attribuzione ad Héloïse è indiscussa): la stessa tendenza a muovere dal testo sacro per penetrarlo con l'ausilio della ragione e intenderlo «secondo il supremo principio della ragionevolezza». Non a caso nell'epistola è invocata la «discretio» benedettina, quale fondamento di una regola ragionevolmente adatta alle particolari esigenze spirituali e fisiche della donna. Ed è sempre lo stesso criterio che induce a dare valore non alle opere ma alla «intentio» con cui sono compiute e a dichiarare che esiste una «religio laicorum», esperienza di vita cristiana alla quale la «monastica perfectio» dovrà aggiungere solo la continenza. Donde la conclusione, logica e persuasiva, che alle monache, a causa della loro fragilità fisica, non si dovrà chiedere una astinenza dai cibi carnei diversa da quella che si richiede a uomini laici. È una considerazione che l'autore della VIII epistola fa propria, portando anche altri argomenti (...). Sicchè appare documentata ed evidente la profonda unità, non solo letteraria, ma teorica e di pensiero tra le due epistole (...). Inoltre lo Zerbi ha dato una risposta importante anche alle obiezioni del Benton sulla VIII epistola e sulle contraddizioni della "Historia calamitatum", più apparenti che reali. (...) Si tratta di materia assai opinabile, sulla quale sarà sempre difficile giungere a conclusioni definitive. Ritengo però che le soluzioni prospettate dallo Zerbi abbiano il merito di essere meno macchinose di quelle di Benton, più verosimili e non obbligate a un gioco di presupposti spesso del tutto ipotetici e di supposizioni altrettanto brillanti quanto suscettibili di radicali dubbi. (...)
I contributi di Dronke e Zerbi, pur così diversi nell'impostazione metodologica, tendono a spostare di nuovo la bilancia dell'analisi filologica e critica verso la tesi dell'autenticità. Il caso delle lettere di Abelardo ed Héloïse non è solo un problema di ricostruzione filologica, ma un grande tema storico destinato a riemergere di tempo in tempo e a costituire una inevitabile pietra di paragone della cultura medievistica e dei suoi diversi modi di concepire il proprio oggetto di ricerca. E non potevano non agire, anche nella valutazione di questi testi, i fermenti che hanno scosso profondamente le istituzioni ufficiali e la vita ecclesiale nel secondo novecento: l'agitata vicenda post-conciliare della Chiesa, i modi sempre più contrastanti di concepire la vita e l'impegno evangelico, il ruolo della donna nella società, la liberazione sessuale e il lento distacco dalla sessuofobia del cristianesimo ufficiale, così tipica dell'età posteriore alla Riforma e alla Controriforma. (...)
Ancor oggi la storia di Abelardo ed Héloïse e la questione della autenticità del loro epistolario non sono dossier chiusi, sui quali si possa porre il suggello di un giudizio incontestabile. Però, se si guarda ai risultati più duraturi e sicuri dei dibattiti degli ultimi decenni, si trovano alcuni dati oggettivi che segnano dei punti fermi nella discussione che sarà difficile mutare con scoperte sconvolgenti. Per prima cosa non sembra più posto in discussione l'alto valore letterario della raccolta (cioè del gruppo: Historia Calamitatum + epistole II-VIII) e il ruolo eminente che occupa nella storia del tardo medioevo. In secondo luogo è ben accertata l'unità stilistica dei testi, la loro aderenza a canoni espressivi rigorosi e codificati, ma usati con maestria, coerenza e vigore eccezionali. Il Dronke ha poi dimostrato che i sentimenti, le idee, persino certe espressioni «scandalose» non erano affatto estranee alla cultura e alla sensibilità dell'epoca; che esse potevano essere benissimo comprese dai contemporanei senza suscitare quell'orrore e quello sdegno supposto da alcuni storici. Infine l'invito di Monfrin e Zerbi a comprendere dall'interno l'unità profonda e vitale della Historia e delle epistole non va lasciato cadere se si vogliono afferrare le ragioni del loro stesso valore artistico e la loro capacità di rappresentare per secoli uno straordinario modello letterario e insieme la testimonianza (vera o supposta) di una vicenda umana che ha continuato e continua ad appassionare generazioni e generazioni di lettori, dal tardo medioevo al mondo romantico, dagli inizi dell'umanesimo all'illuminismo, dal 600 ai giorni nostri. Simili «fortune» non sono casuali, non rispondono all'urgenza di brevi mode letterarie o di particolari, fuggevoli sensibilità, ma corrispondono, di solito, al riconoscimento di una esperienza espressiva ed emozionale «rara», suscettibile di molteplici valenze, suscitatrice delle più diverse risposte da parte dei lettori, capace di imporsi a livelli di interpretazione e lettura, a culture e mentalità, molto diversi. E una sorte di questo genere non penso sia mai toccata all'opera di una società di falsari preoccupati solo di far eleggere una badessa e di mettere le monache «al loro posto»!
L'autore di queste lettere è dunque Abelardo? O è Héloïse? O si tratta davvero del dialogo epistolare dei due? Oppure sono opera di un'altra persona, dotata di grandi qualità letterarie, di ricca cultura sacra e profana, filosofica e retorica e certamente assai familiare col pensiero di Abelardo? Impossibile rispondere sulla base di dati oggettivi, se per oggettività si intende la presenza di documenti certi, di una evidenza assoluta o almeno di una tradizione ininterrotta e ben definita. Però è difficile immaginare la personalità di un terzo autore così capace di rivivere il dramma dei due amanti, inventarne il dialogo, ripeterne in modo così perfetto i momenti, i passaggi, le sfumature, gli accenti più appassionati come le riflessioni più ricche di contenuto filosofico e le estreme soluzioni spirituali. È vero che la letteratura medievale è ricca di storie d'amore drammatiche e intense e che non mancano raccolte epistolari, probabilmente di invenzione, che prendono le mosse dal tema del rapporto erotico tra il «magister» e la «discipula». Ma tra questi esempi letterari e la nostra raccolta c'è uno scarto di tono e di stile inconfondibile, la differenza appunto che esiste tra il mero esercizio letterario e stilistico e l'opera che, anche se costruita secondo tutte le norme e le consuetudini contemporanee dell'arte, è tuttavia irriducibile alla mera ripetizione di «loci», «figure» o «tropi» letterari consacrati e insieme consunti dall'usura dei secoli.
Sono queste le ragioni che, con tutto il rispetto per i sapienti ricercatori degli usi stilistici e retorici medievali, inducono anche me a ritenere che le lettere possano ancora continuare a fregiarsi dei due nomi che hanno accompagnato la loro lunga fortuna, a partire dall'inizio del 200. Certo, anche chi accetta l'autenticità non può chiudere gli occhi di fronte ai molti problemi presentati da questi testi e dalle incongruenze che inducono comunque a ritenere che i testi originari siano stati ordinati, rivisti, forse modificati e talvolta interpolati da un ordinatore e poi in seguito da altri possibili interventi di copisti... Comunque spetta ai lettori giudicare se queste lettere, che hanno avuto una funzione così singolare nella storia delle idee, dei costumi, dei sentimenti e della formazione estetica degli intellettuali europei, abbiano ancora un significato, se siano insomma molto di più di un documento (autentico o artefatto) di situazioni sociali o intellettuali ormai così lontane.
Cesare Vasoli
Estratto dalla "Introduzione" alla edizione italiana delle «Lettere» - Einaudi.
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