Nati nel 1976 nella zona di Crawley, Sussex,
originariamente noti come Easy Cure,
Smith e soci si
sono imposti fin dall'album d'esordio, Three Imaginary Boys, come gli
alfieri del dark britannico, in compagnia di
Joy Division,
Bauhaus,
Sisters of Mercy,
Cocteau Twins,
Siouxsie and The
Banshees. Con questi ultimi
hanno collaborato a lungo, tra trionfali tour e liti varie (Robert
Smith ha anche fatto parte per un certo periodo
dell'organico della band).
Tre ragazzi immaginari
I Cure
hanno sempre saputo destreggiarsi in bilico tra rock alternativo e pop da
classifica. E sono riusciti a trasformare il dark da tendenza di culto a
fenomeno mondiale e di massa, accumulando stuoli di fan dalla Russia
all'Argentina, dal Brasile all'Australia, dalla Francia agli Stati Uniti.
Non stupisce quindi che questi figli delle cantine punk inglesi abbiano
sbancato le arene mondiali, né che Smith
consideri il suo concerto preferito quello in Texas, nel tempio dei Dallas
Cowboy.
Curioso l'approccio iniziale con l'America: Killing an Arab, il loro
primo hit, fu bandito dalle radio Usa per i presunti contenuti anti-arabi.
Il pezzo, in realtà, era ispirato allo "Straniero" di Camus. Ma i Cure
furono costretti a dissipare ogni dubbio mettendo una targhetta esplicativa
sul disco, e arrivarono a devolvere a un orfanotrofio palestinese in Libano
gli incassi del loro primo concerto oltreoceano. "L'America è uno strano
continente - racconta Smith
- magari suoniamo davanti a un'arena piena di persone e ci considerano
ancora un gruppo punk. La scena più allucinante è stata quella di Buenos
Aires: c'erano almeno venti carri armati che stazionavano all'ingresso, una
esperienza pazzesca, che non dimenticherò mai". Quel tour fu l'inizio del
successo, consacrato poi dall'album Seventeen Seconds, caleidoscopio
di effetti tetri e allucinati, dalla trascinante Play For Today
all'ipnotica A Forest, fino agli intermezzi strumentali di A
Reflection e Three.
Un folletto sull'orlo di una crisi di nervi
Robert Smith,
eternamente pallido, occhi cerchiati di nero e rossetto scarlatto, è un
personaggio singolare. Ribattezzato "il guru della tristezza" o "il messia
della malinconia", è filosofo nichilista e folletto infantile, poeta
apocalittico e dandy romantico. Scava negli abissi della desolazione e si
bamboleggia con canzoncine sinistre. Tortura le corde della sua chitarra e
si strugge in cantilene ipnotiche. Tra grida angosciate e urletti
bambineschi. Aveva garantito che si sarebbe ucciso prima di compiere 25
anni. Dopo il venticinquesimo compleanno ha corretto il tiro: "Ho capito che
ero riuscito a concludere qualcosa in questa vita e questo mi ha dato nuova
carica. Mi sento più allegro. La mia peggiore abitudine è di bere troppa
birra".
Le canzoni dei Cure
hanno fatto a lungo da colonna sonora alla crisi esistenziale del loro
leader. "Più le suoniamo, più ci deprimiamo. Molte volte mi capita di
lasciare il palco in lacrime", dichiarava Smith dopo l'uscita del mesmerico
Faith (1981), che culminava nella sinfonia lugubre di The Funeral
Party. Un anno dopo,
Pornography,
il loro capolavoro, metteva le cose in chiaro fin dal primo verso: "Non
importa se moriamo tutti". Canzoni spettrali, angosciose e claustrofobiche
trascinavano il calvario di Smith
verso abissi di desolazione suicida: "La corda stretta intorno alla mia
gola/ apro la bocca/ e la testa mi si squarcia/ un suono come una tigre che
si dibatte nell'acqua/ ancora e ancora moriamo uno dopo l'altro..." (One
Hundred Years). E un clima magico e angosciante, ai limiti del collasso
psichico, pervadeva anche altri pezzi forti del disco come A Strange Day,
Siamese Twins e Cold.
Ma oggi tutto è cambiato e c'è più luce anche tra le note dei Cure. Smith si è sposato
con la ragazza con cui era fidanzato fin dai tempi della scuola, Mary Poole.
E sembra aver allontanato i suoi spettri più cupi: "Ho una casa, non ho
bisogno di essere famoso e mi diverto in molti modi: ho tantissimi nipoti e
il mestiere di zio mi permette di avere a che fare con quei bambini che non
ho mai avuto". Nessun figlio, però, all'orizzonte della famiglia Smith:
"Abbiamo deciso di non averne. Preferisco restare solo zio. Non so se sarei
un buon padre; non ho alcun senso della disciplina nella mia vita e non sono
certo che riuscirei ad imporlo a un figlio". Eppure c'è una cosa che lo fa
ancora intristire: l'abbandono di uno dei fondatori dei Cure, il batterista
Lawrence "Lol" Tolhurst, degenerato in una controversia legale vinta da
Smith: "Voleva usare il nome dei Cure per i suoi scopi, non potevo
consentirglielo. Tutto il resto non contava niente".
Concerto in arancione
Così oggi del nucleo originario dei Cure sono rimasti solo Robert Smith e il
bassista Simon Gallup, affiancati da Perry Bamonte (chitarra), Roger
O'Donnell (tastiere) e Jason Cooper (batteria). Smith è stato a lungo il
dittatore musicale del gruppo. Poi, a partire dall'eterogeneo album doppio
Kiss Me Kiss Me Kiss Me, la svolta. "I primi nostri album non erano
stati un esempio di democrazia - ricorda Smith -. Io scrivevo gli spunti, le
basi, e lasciavo che il gruppo interpretasse la sua parte. Così ho proposto
ai ragazzi di farmi sentire le loro idee musicali: sono queste che hanno
contribuito a rendere quel disco così vario". L'album, infatti, segnò il
momento più composito e sontuoso della storia dei Cure, passando da ballate
melodiche come Just Like Heaven, How Beautiful You Are e
One More Time al pop frenetico di Why Can't I Be You?, fino alla
sperimentazione psichedelica in trance di Snake Pit e di If Only
Tonight We Could Sleep.
Ma a emozionare il pubblico di Smith
e soci non è solo la musica. I loro concerti, infatti, sono memorabili anche
per l'atmosfera spettrale e inquietante che li pervade. Una resa teatrale
garantita anche dalle scenografie scarne e dalle luci tetre e psichedeliche.
Il più celebre dei loro show resterà forse quello in Provenza, nel Theatre
Antique d'Orange, dal quale Tim Pope (autore dei video di Cure e di David Bowie) ha ricavato
il film "The Cure Live Ln Orange".
Bloodflowers (2000) lascia presagire la fine. "The fire is almost out
and there's nothing left to burn" ("il fuoco è quasi spento e non c'è più
niente da bruciare"), canta Robert
Smith.
Ma sarà solo l'ennesimo bluff. I Cure
hanno smesso ormai i panni di band di culto per diventare un gruppo
universale, che spazia dal rock al pop melodico fino alla dance. Una
metamorfosi che ha disorientato i loro fan storici, ma che ha reso bene a
Smith
e soci in termini commerciali. Ventisette milioni di album venduti in
tutto il mondo è un bottino cospicuo per una band che ha sempre preteso
dall'industria discografica piena libertà artistica. Ma è stato lo stesso
Robert Smith, leader del gruppo, ad avallare la svolta leggera": "Sono
contento se ci considerano una band pop, perché non mi sono mai preso troppo
sul serio". Così, negli anni, la carica demoniaca degli arrangiamenti si è
tramutata in ballate rilassate e melodie orecchiabili. Bloodflowers
tenta di invertire questa rotta, con momenti più "cattivi", come
l'incendiaria 39 (l'età in cui Smith ha composto il pezzo). Lo stesso
Smith
ha definito l'album il completamento di una trilogia che includerebbe
Pornography (1982) e Disintegration (1989), due degli album
più intensi e ossessivi dei
Cure.
Ma il sospetto e' che quel fuoco, ormai, si sia spento davvero.
Affiancati dal produttore metal Ross Robinson, Smith e soci tornano nel
2004 con
The Cure,
che tenta invano di rifare il look al suono del gruppo. Eppure l'iniziale
Lost, incubo disperato che si snoda sotto forma di una ipnotica litania
vicina a certi Nine Inch Nails,
faceva presagire risultati migliori. Più o meno sulla stessa falsariga il
successivo Labyrinth, che paga però un eccesso di levigatezza in fase
di produzione. A partire da Before Three iniziano, però, anche le
perplessità: i Cure tornano a flirtare col pop più orecchiabile, ma soffrono
da un lato il songwriting non ispiratissimo e dall'altro proprio il
lavoro sul sound, che cerca di irrobustire quelle che sono semplici ballate.
E se Before Three ancora si salva con l'eleganza della sua melodia,
il singolo The End Of The World affonda nella banalità a livelli
imbarazzanti. Il resto si snoda quindi in canzoni poco incisive e fortemente
"già sentite" (Alt.End, Taking Off, Anniversary). Di
contro Us Or Them e Never sfoderano i chitarroni metal sui
quali il produttore Robinson è più a suo agio; meno a suo agio sembra essere
però il gruppo, nonostante le declamazioni di
Smith tentino di riportare il tutto su terreni
più consoni ai Cure.
I Don't Know What's Going On riesce là dove il primo singolo
fallisce, cioè far convivere questo nuovo sound e una melodia che più pop
non si potrebbe. A parte Lost, comunque, i Cure riescono a dare di
nuovo un senso forte all'intera operazione soltanto nella cavalcata
conclusiva di The Promise.
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