Kaleidoscope
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"The Band that never quite made it" - parte 2
Dopo la pubblicazione di Tangerine Dream, l'attività live continua estenuante: chi li ha sentiti suonare descrive i Kaleidoscope da palco molto diversi da quelli in studio: Pumer mette in mostra le sue inusuali doti chitarristiche fornendo al suono una consistenza molto più "pesante" e vicina agli esordi della band: feedback a profusione in uno show multicolore, con contorno di splendide ragazze impegnate a leggere poesie, bombe fumogene, ottoni, archi e sitar. Il gruppo può definire la scaletta scegliendo tra più di 100 brani, molti dei quali inediti, ed offrire così un volto che molti fans non si aspettano.
Nonostante l'indubbio
livello qualitativo, né il singolo né l'album ottengono gli sperati
risultati di vendita, tra la delusione generale. La responsabilità potrebbe
venir attribuita al "great vynil shortage", un'improvvisa carenza
di vinile che costringeva le case discografiche a stampare meno copie del previsto,
o a ritirare quelle invendute dopo brevissimo tempo per reimpastare altri dischi.
Ma Daltrey taglia corto: "la verità è che la Fontana era
una pessima casa discografica, e non aveva la minima idea di come promuovere
e distribuire i nostri dischi".
I rapporti con la Fontana cominciano a diventare tesi, sebbene le vendite di
Tangerine Dream siano sufficienti a garantire al gruppo la possibilità
di rientrare in studio per nuove sessions.
Siamo nel 1968,
e i soldi sono talmente pochi che i membri del gruppo si vedono costretti a
riprendere i loro lavori regolari; è in tale peculiare situazione che
nel settembre dello stesso anno viene pubblicato un nuovo singolo: "Jenny
Artichoke". Ispirata da "Jennifer Jupiter" di Donovan, è
un cosciente tentativo di penetrazione commerciale: il testo leggero e sbarazzino,
la melodia terribilmente "catchy" congiurano per un rapido ingresso
nelle charts, che i membri del gruppo vedono come un'ancora di salvezza. La
canzone è effettivamente irresistibile, e Radio One la trasmette con
frequenza impressionante, ma nonostante ciò il disco non entrerà
mai in classifica, ed ancora oggi c'è chi si domanda come mai.
Ma non c'è tempo per smaltire la delusione: il nuovo album è in
dirittura d'arrivo.
Faintly
Blowing (Fontana 1968)
Faintly
Blowing, pubblicato nell'estate del 1968, è album più maturo del
precedente, ed in quanto tale paga dazio in termini di immediatezza, ma è
un disco di assoluto valore che spicca per coerenza ed originalità nel
panorama psichedelico dell'epoca, ancora oggi gradevolissima riscoperta per
chiunque voglia affacciarsi con piena cosapevolezza a quegli anni straordinari.
Dietro una splendida copertina, con i membri del gruppo in posa da menestrelli
attorniati da gnomi, vichinghi e uomini alati in un bosco incantato, i Kaleidoscope
si presentano maturi e consapevoli. Le composizioni acquistano spazio e consistenza,
gli arrangiamenti orchestrali si fanno più corposi, ed accanto agli archi
si affermano loops ed effetti elettronici di vario tipo. Ogni brano è
meritevole di menzione, persino il breve e delizioso scherzo acustico "I'll
kiss you once" o le allegre narrazioni di "A Story From Tom Blitz",
ennesima dimostrazione dell'eclettismo lirico di Daltrey.
Ma è l'effetto d'insieme, l'intrinseca coerenza dell'agglomerato di brani
ad apparire prodigiosa: sin dalla title track, superba prova elettrica tardo
psichedelica, con la chitarra di Pumer a volteggiare ipnotica sul cantato vibrante,
tutto si fonde alla perfezione, in una lieta alternanza di splendide melodie
e bizzarrie liriche.
L'acustica "Poem" viaggia in territori dilatati e melanconici,
ricca di suggestioni serali, ad introdurre gli incantati arpeggi di chitarra
in "Snapdragon", che stupisce grazie ad un organo che compare
inaspettato ed estraniante nel coro a trascinare con sé l'ascoltatore
ascolto dopo ascolto.
L'emozionata nostalgia di "If you so wish", uno dei capolavori
del disco per intensità e leggiadria, esalta per la misurata delicatezza
degli arrangiamenti di archi e ottoni: un affresco magnifico della sofferenza
da abbandono, nel quale musica e parole si fondono in perfetta armonia. Emozioni
che riaffiorano prepotenti poco più avanti nell'epicità di "Black
Fjord", inebriata serie di visioni vichinghe sospese su un'orchestrazione
da favola, ideale colonna sonora Tolkeniana che rapisce immediatamente ed emoziona
in ogni sua nota.
E si viene ancora sorpresi dalla travolgente "(Love song) For Annie",
traboccante di rimpianti eppure esplosiva nei suoi accessi di chitarre e tastiere,
dalla psichedelia incantata di "The Feathered Tiger", lungo
racconto in musica di un sogno multicolore. Un viaggio magnifico, concluso dall'assolutezza
di "Music", delirio elettrico e trionfo della perizia di Pumer
che libera tutta l'energia della sua chitarra trascinando con sé i compagni
in tripudio cacofonico del quale possiamo solo immaginare quale fosse la resa
dal vivo.
Faintly Blowing saluta con classe e discrezione gli anni psichedelici e guarda
oltre la cortina di fumo, mostrando i Kaleidoscope all'apice della loro vena
creativa. Come scrisse la stampa dell'epoca: "less fairytale, more guts".
A dimostrazone della prolificità del gruppo, la scelta per il singolo
trainante cade su un pezzo non incluso nell'album: "Do it again for
Jeffrey", brano dall'incedere Beatlesiano estremamente orecchiabile
ma poco in linea con la realtà attuale della band, e che se non altro
dimostra l'innata capacità del manager Leahy nello sbagliare la scelta
dei singoli (il gruppo avrebbe preferito "If you so wish").
Il nuovo insuccesso commerciale del disco è il colpo definitivo: la Fontana,
intenzionata a rientrare nelle spese sostenute per la promozione, costringe
Daltrey e soci in studio per la registrazione di due "hit certi",
composti da altri autori. Il gruppo si rifiuta segnando di fatto la fine del
sodalizio discografico.
E' il settembre
1968, e i delusissimi Kaleidoscope decidono di cambiare nome in "Fairfield
Parlour", poco prima che la Fontana ne decreti ufficialmente la fine con
la pubblicazione del quinto singolo, la mediocre "Baloon",
in seguito descritta da Daltrey come "il punto più banale della
nostra carriera discografica".
Affiancati
dal nuovo manager David Symonds, già al lavoro per i Moody Blues e conosciuto
durante le numerosissime esibizioni del gruppo alla BBC , i Fairfield Parlour
cominciano a registrare del nuovo materiale, pur in assenza di un contratto
discografico. Lasciata ai libri di storia l'esperienza psichedelica, il gruppo
arricchisce la propria strumentazione con flauti e mellotron e registra i brani
del nuovo album.
Resta da trovare una casa discografica, e dopo fugaci ed infruttuosi contatti
con Decca e WB, Symonds firma a sorpresa un nuovo contratto con la Philips,
che ha da poco inaugurato l'etichetta "progressiva" Vertigo. I sixties
sono finiti.
Nell'aprile del
1970 viene pubblicato il primo singolo dei Faifield Parlour, una incantevole
e bucolica pop song dal titolo "Bordeaux Rosé". Orecchiabile
e solare, conquista le radio ma non viene distribuita adeguatamente, andando
ad ingrossare la fila dei rimpianti.
L'album "From Home to Home" segue a breve, ricevendo entusiatiche
accoglienze dalla stampa specializzata.