Kaleidoscope
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"The Band that never quite made it"
di HowTired
Tra tutte le band oscurate di quel grandioso periodo che furono i sixties inglesi, i Kaleidoscope costituiscono un caso a parte. Spesso confusi con i più famosi omonimi americani (quelli di A Beacon From Mars), i Kaleidoscope UK occupano un posto di rilievo nel variegato panorama della Londra psichedelica della seconda metà dei '60 grazie a due album assolutamente stepitosi, e il loro insuccesso commerciale, appena mitigato da una tarda e blanda riscoperta, appare ancora oggi privo di adeguate spiegazioni.
Il gruppo nasce
nel 1964 a Londra con il nome "The Side Kicks" (presto tramutato in
"The Key"), e le numerose esperienze live dell'epoca testimoniano
di un repertorio decisamente orientato al r'n'b più in voga nel periodo.
("ovviamente preferivamo i Beatles, ma imitare gli Stones era più
semplice", spiegano). La formazione originale, rimasta immutata nel corso
degli anni, consiste di Peter Daltrey (voce e tastiere), Eddie Pumer (chitarra),
Danny Bridgman (batteria) e Steve Clark (basso).
Raffinando
la propria perizia strumentale, i quattro affiancano all'esecuzione di covers
(Muddy Waters, Howling Wolf e Mose Allison) diverse canzoni originali, che evidenziano
immediatamente l'estro lirico di Peter Daltrey i cui testi, eccentrici e geniali,
spaziano dal quotidiano all'epico con estrema disinvoltura, mentre le strutture
musicali di Pumer cercano di spingersi oltre il tipico canovaccio stonesiano.
E' il 1966 e le cose in Inghilterra stanno cambiando: dalle mode alla musica,
si respirano i primi fermenti della "rivoluzione" che sta per arrivare.
Le musiche di Bob Dylan e Leonard Cohen invadono l'etere, esce "Revolver"
che riafferma l'influenza e le capacità di innovazione dei Beatles su
tutto il pop/rock inglese: le possibilità appaiono infinite.
I Key possono ormai vantare un cospicuo repertorio di materiale originale, in
alcuni casi alquanto eccentrico ("The Murder of Lewis Tollani", surreale
storia di un omicidio non intenzionale) ed in altri irresistibilmente "pop"
e solare ("Holydaymaker"), e si imbarcano in una lunga ed infruttosa
ricerca di un contratto discografico sino a quando si presentano a Dick Leahy,
ambizioso manager della Philips/Fontana, che appare immediatamente impressionato
dal potenziale dei quattro giovanissimi ragazzi: la band gli assicura di avere
pronti almeno una dozzina di pezzi e spunta un contratto per tre singoli con
la Fontana. E' l'inizio, e dietro consiglio del nuovo manager il gruppo cambia
nome in "Kaleidoscope": una scelta lungimirante.
Succederà
tutto nel 1967, nella fertile Londra dei richiami psichedelici e della controcultura:
La Drug Culture, Arancia meccanica, il Vietnam, Charles Manson, i Beatles...
il fermento è continuo, e non farsene travolgere è impossibile
per chiunque.
I Kaleidoscope continuano nella loro lieve ed incessante mutazione: acquisita
ormai piena fiducia nei propri mezzi espressivi, la componente psichedelica
- che il gruppo era restìo ad evidenziare nelle esibizioni live per non
alienare parte del pubblico - prende decisamente il sopravvento nelle nuove
composizioni, e nel passaggio in studio le canzoni di Daltrey/Pumer si raffinano
e si addolciscono ulteriormente, anche a causa di una certa difficoltà
nell'aumentare i decibel mantenendo la necessaria pulizia del suono. L'alchimia
tra i due compositori funziona alla perfezione: l'evoluzione delle liriche affianca
di pari passo quella musicale, che spinge le strutture sonore verso nuovi confini
pur mantenendo una intrinseca coerenza pop, mentre i testi fuggono in ogni direzione
possibile, sospesi tra sogno e realtà.
Il
primo singolo, "Flight from Ashiya", offre uno splendido esempio
di questa fertilità creativa: una breve e tempestosa introduzione di
piano apre il campo a basso e tastiere che pulsano sulla voce fragile ma calda
di Daltrey, intento a raccontare le ansie di un volo verso l'ignoto con versi
destinati ad interpretazioni postume ("one minute high, the next minute
low"), con la chitarra di Pumer che segue il volo dell'aereo in misurate
spirali.
"Flight" rimane a tutt'oggi uno dei pezzi migliori dei Kaleidoscope,
e di tutta la psichedelia made in England, ma fu una scelta decisamente curiosa
(e coraggiosa) per lanciare una band sconosciuta, specialmente se confrontata
all'immediatezza di "Holydaymaker", più modesta ma anche più
orecchiabile. I passaggi radiofonici e le vendite furono modeste, eppure il
credito di cui il gruppo godeva all'interno della casa discografica rimase notevole,
come si evince dai comunicati stampa del periodo: una band giovane ed eclettica,
per di più in grado di scrivere ottimo materiale originale, non è
cosa da poco, ed ancor prima della pubblicazione del singolo, il gruppo viene
cooptato per la registrazione del suo primo album; dopo una attenta cernita
fra le oltre trenta composizioni del duo Daltrey/Pumer, "Tangerine Dream"
viene pubblicato nel dicembre del 1967, immediatamente dopo la "Summer
of Love".
Tangerine
Dream (Fontana, 1967)
La storia della musica è piena di grandi album trascurati da pubblico
e critica, e Tangerine Dream rientra a pieno titolo in questa statistica. A
posteriori, può essere definito un autentico gioiello, ideale dimostrazione
del fermento artistico e creativo che animava Londra in quell'anno magico. Gli
arrangiamenti mostrano tutta la maturità raggiunta dal gruppo in tre
anni di concerti, ed il fascino della voce di Daltrey, apparentemente incerta
ma cristallina ed efficace, si afferma deciso. Meno obliqui dei Pink Floyd di
"Piper" e tuttavia permeati da un'intima stranezza che ne contamina
persino le più lineari strutture pop, i Kaleidoscope si offrono alla
foto di copertina in sgargianti tenute artistiche ed ornati da gioielli di ogni
tipo, e sul retro della cover un breve scritto di Daltrey ne preannuncia le
intenzioni: "Il soggetto collettivo delle nostre canzoni è semplice:
la vita e le persone. Abbiamo scritto le nostre canzoni su di voi. Persone allegre,
persone tristi, persone amabili e qualche persona confusa. Abbiamo scritto dei
bambini, del re e della sua regina, e abbiamo anche incluso qualche parola su
di noi, sulle nostre vite e sui nostri sogni".
E se sono i testi
la parte più peculiare del disco, tanto da portare il Melody Maker a
sostenere che il gruppo fosse "fortemente influenzato da Tolkien",
le musiche raggiungono vette notevoli: a fianco di motivi rapidi ed efficaci
come l'allegra marcetta iniziale di "Kaleidoscope", martellata
da piano, chitarre e voce in un allegro crescendo, o la solare e townshendiana
"holydaymaker", troviamo emotive ballate ("Please excuse
my face"), e aperte escursioni nella psichedelia più sfacciata
come "Dive into yesterday", sontuoso brano i cui vertiginosi
chiaroscuri sono carichi di effetti nascosti.
L'album ci presenta una band in aperta esplosione, persino in difficoltà
nel contenere i propri estri creativi in una forma omogenea: la triste e deliziosa
descrizione di un orologiaio in "Mr. Small, the watch repairer man",
con un leggero strato di ottoni ad accompagnare la batteria ed un ritornello
irresistibile, l'onirica e pulsante "Flight From Ashiya", con il suo
fascino ambiguo ancora intatto, l'esitante litania di "The Murder of
Lewis Tollani", quasi dolorosa nel suo incedere prima di un ritornello
liberatorio, mostrano le infinite sfaccettature di un sound ricco e variegato.
Né va trascurata la fosca progressione di "In The Room of Percussions"
con la sua inquietante introduzione vocale che sfuma nella delicatezza di "Dear
Nellie Goodrich", irresistibile pop song triste con cantato sognante
punteggiata da leggere pennellate di chitarra e tastiere. E dopo la narrazione
fiabesca di "A lesson perhaps" arriva la splendida "The
sky children", lunga e sognante ballata sospesa tra splendide visioni
e distensioni strumentali, la musica a fornire un riposato appoggio al fiume
di parole di Daltrey, un brano tanto semplice nella sua costruzione quanto memorabile
nella sua irresitibile progressione, ideale ponte verso le composizioni di più
ampio respiro che seguiranno e per la quale condividiamo la descrizione di Daltrey
in seconda di copertina: "a fairytale dream"
Tangerine Dream è un disco sontuoso e traboccante genio, illuminato da
una luce fioca e distante. Persino per anni prolifici come quelli, suona straordinariamente
retrò, una interpretazione personale della psichedelia filtrata attraverso
una patina di tenue polvere. Pretenzioso ? Forse, ma in retrospettiva possiamo
affermare che i Kaleidoscope avevano i titoli per esserlo.