Il capitolo si apre con la descrizione del castello dell'Innominato, una sorta di tetra fortezza in cima ad un monte: difficile l'accesso: dall'alto il padrone ne controlla ogni via. Ad esso si accosta don Rodrigo accompagnato dal fedele Griso: i due subiscono l'umiliazione di vedersi disarmare e non fiatano. Questa è la legge del castello. Nel colloquio don Rodrigo esalta le difficoltà dell'impresa, quella del ratto di Lucia, anche per giustificare la propria impotenza fallimentare. L'Innominato accetta l'impresa, quasi internamente stimolato da una voce che lo induce, da un lato, a respingere le abituali forme di vita che caratterizzavano l'esistenza, dall'altro ad accogliere su di sé la responsabilità delle azioni tanto più fervidamente, quanto più apparivano impossibili. Dentro la coscienza dell'Innominato da un certo tempo si svolgeva un conflitto che egli non ancora era riuscito a chiarire nei suoi termini. A dare esecuzione all'impresa è dato incarico al più abile dei suoi bravi, il Nibbio. A Monza il signore ha un punto di appoggio: da lui dipende quell'Egidio che era l'amante di Gertrude. Con autentica sofferenza questa è costretta a dare il suo assenso e con un finto motivo spedisce fuori del convento Lucia. Tre uomini sono accanto ad una carrozza: sono i bravi bell'Innominato. Lucia nonostante la sua resistenza è rapita e messa sulla carrozza. Tutto si è svolto con l'efficienza rapida propria a autentici professionisti del crimine. L'ordine era di portarla al castello, dove l'aspetta l'Innominato, stavolta più turbato ed agitato del solito. A dare per così dire il benvenuto a Lucia viene mandata una vecchia che abitava nel castello; dagli uomini che praticava e dalla vita che faceva era portata alla cieca obbedienza, ad aver paura di coloro che comandavano. A questa donna è dato l'incarico di rincuorare Lucia che, durante il trasporto in carrozza, aveva tanto pianto ed implorato da gettare lo scompiglio anche nell'animo duro e corazzato del Nibbio.