La fortuna di essere una bambina bionda e con gli occhi azzurri

Nonna Maria si salva dalla rappresaglia

di Arianna Volante

Mia nonna Maria, che durante la guerra aveva 6 anni, mi racconta sempre un episodio che fortunatamente si risolse bene per tutti. Un giorno era stato ritrovato nella fitta boscaglia di Monte Trocchio il cadavere di un soldato tedesco crivellato di colpi. Il comandante della guarnigione tedesca, che aveva sede a San Vittore del Lazio, immediatamente fece una retata di civili, uomini, donne e bambini, nella frazione di Santa Lucia di Cervaro, minacciando di uccidere tutti se i colpevoli dell’omicidio del suo commilitone non si fossero fatti avanti. Il momento era tragico e ormai tutti temevano il peggio, cioè che sarebbero morti sotto le raffiche di mitra dei soldati tedeschi.Le donne e i bambini cominciarono a piangere disperati, stringendosi gli uni agli altri nel mezzo dell’aia comune nella quale li avevano radunati. Mia nonna, stretta in braccio alla madre, (la mia bisnonna), fissava con i suoi occhi azzurri pieni di terrore il comandante che urlava minacciosi ordini in tedesco. Evidentemente il suo aspetto ariano, per via dei capelli biondi, gli occhi azzurri, colpì il comandante tedesco che improvvisamente si calmò e, avvicinandosi alla mia bisnonna, le chiese se fossero di origine tedesca. Il terrore paralizzò la risposta sulla bocca della mia bisnonna, ma ormai la rabbia del comandante tedesco era svanita e prendendo in braccio mia nonna bambina, probabilmente gli venne in mente la figlia lasciata in Germania... Forse fu proprio questo a salvare la vita a mia nonna e agli altri civili perché, inspiegabilmente, il comandante tedesco rinunciò all’esecuzione della rappresaglia.

 

Al Liceo Ginnasio “Carducci”

La prima festa da ballo organizzata dal professore di filosofia

 

di Renato Bartolomucci

Nonna, Grazia Margiotta, è una signora allegra e scherzosa, ha un aspetto giovanile nonostante i suoi 68 anni, i capelli biondi e occhi castani. Mi ha raccontato del dopoguerra un fatto che a noi oggi potrebbe apparire curioso e che lei conserva vivo nella memoria . “Avevo 14 anni e frequentavo il IV Ginnasio - dice -. Mia sorella, due anni più di me, stava invece al primo Liceo Classico. Il professore di Filosofia, veniva da Arpino, organizzò per la società “Dante Alighieri”, nel 1950, la prima festa da ballo del dopoguerra. Noi ragazze eravamo naturalmente prive di una varietà di vestiti, tanto più di vestiti eleganti. Così pure le nostre più care amiche, anch’esse sorelle, figlie di un medico, che era anche il preside del nostro Liceo-Ginnasio. Io e la più piccola delle sorelle avevamo rimediato due vestitini di lana blu. Quindi ci auguravamo di tutto cuore che la giornata, anche se era maggio, fosse fredda e piovosa. Le nostre rispettive sorelle, più grandicelle, possedevano, invece, soltanto due vestiti, carine ma estivi. Contrariamente a noi, speravano che facesse caldo per poterli indossare. Sono passati tanti anni e sinceramente non ricordo quale fu il clima di quella giornata. Fatto sta, però, che partecipammo alla festa indossando i vestiti che avevamo. Quindi, o due di noi morirono di caldo, o due di freddo. Non c’era altra alternativa”.

 

Curiosità ed usanze nel dopoguerra a Sant’Angelo in Theodice

“Cepponata” del pretendente

Zia Francesca, una vicina di casa di mia nonna, ha la veneranda età di novanta anni. Mi ha parlato di una strana usanza che c’era nella zona di Sant’Angelo in Theodice fino al dopoguerra e che riguardava il corteggiamento e il fidanzamento: la cepponata. L’usanza della cepponata ha radici antiche ma si è mantenuta viva fino a circa cinquanta anni fa. Veniva organizzata durante il mese di maggio ad una ragazza da marito mentre per il giovane interessato rappresentava un modo per manifestare il proprio amore. Per fare la cepponata si utilizzava un tronchetto di quercia (detto appunto ceppo) che si ornava di fiori di maggio e si poggiava, di notte, alla porta di casa della ragazza cui era destinato. Al mattino, la madre della ragazza lo raccoglieva e con il marito si recava sul sagrato della chiesa, posava il ceppo a terra e si rivolgeva ai giovani presenti con le seguenti parole: “Chi ha incepponato la figlia mia?”. Il pretendente poteva farsi avanti e dire “L’ho incepponata io”. A questo punto subentrava il padre-padrone, quello della ragazza. Se il giovane spasimante era di suo gradimento, raccoglieva il ceppo e lo portava in casa come segno di accettazione del futuro genero. Diversamente, il giovane doveva riprendersi il ceppo e tornarsene da dove era venuto.

 

Il marito? Con l’uovo sulla finestra

Nel dopoguerra le persone, specialmente in campagna, erano molto superstiziose. Mia zia Emilia, che ora ha 76 anni, alla fine della guerra ne aveva 16, mi ha raccontato di un’usanza molto particolare che si faceva il 24 giugno, festa di San Giovanni. “A Sant’Angelo c’era un’usanza legata a questa festa: la sera della vigilia ogni ragazza riempiva una bottiglia d’acqua, vi lasciava scendere l’albume di un uovo e la poggiava sul davanzale. La mattina successiva osservava la forma assunta dalla chiara d’uovo e da essa cercava di individuare il mestiere del futuro marito. Se, ad esempio, si formava una barca il marito sarebbe stato un marinaio o un pescatore, se si formava una casa un muratore e così via. Se non si riusciva a decifrare la forma assunta, voleva dire che la ragazza sarebbe rimasta senza pretendente fino al prossimo 24 giugno”.

 

La veglia funebre

Zia Mariuccia vive a Sant’Angelo e ha circa 80 anni. Mi ha raccontato quello che accadeva nelle campagne quando ci si ammalava e quando moriva una persona. Quando uno stava male, per prima cosa si ricorreva “agliu ‘nciarmatore”, un guaritore di mali che neanche il medico riusciva a guarire. “Gliu ‘nciarmatore” con massaggi, preghiere e formule propiziatorie riusciva a guarire la sciatica, a togliere il mal di denti, a distruggere porri, a far passare il dolore di pancia, ecc... Non si faceva pagare per i suoi interventi perché sosteneva che il denaro è del diavolo mentre egli agiva nel nome del Signore. Se nonostante tutto l’ammalato non guariva era segno che la fede non lo animava abbastanza. Appena una persona moriva veniva aperta la finestra come per annunciare la morte alla campagna e al mondo. Le donne iniziavano con un canto, su una nota sola, il racconto della morte. Se era venuto a mancare un giovane, quel canto sarebbe continuato senza riposo fino all’interramento: era un lamento angosciante che faceva venire un nodo alla gola. Se si trattava della morte di una persona non più giovane, si faceva ugualmente la veglia che durava fino al mattino. Ma come si passava la nottata? In principio ci si raccoglieva in preghiera, si recitava il rosario, si passava poi al racconto della morte, infine, arrivava il parroco: si leggevano le preghiere e si benediceva il defunto. Arrivati ad un’ora di notte, qualcuno si faceva vincere dal sonno, altre, per evitare che ciò accadesse, passavano a raccontare fatti che nulla avevano a che fare con la preghiera: mormorazioni, storielle piccanti, pettegolezzi, ecc. Al mattino, i rintocchi della campana a morto annunciavano il funerale: una lunga e triste compagnia conduceva il defunto prima in chiesa per la funzione liturgica, poi al cimitero per l’interramento. Ma non finiva lì, c’era da assolvere al rito di “gliu cuonzolo”. “Gliu cuonzolo” consisteva in uno scambio di pranzetti tra la famiglia del defunto ed i parenti più prossimi. Per i primi due giorni i pranzi erano a base di brodo di gallina, poi si passava ai piatti di “maccaruni cu la carne accattata”. La famiglia a lutto riceveva “gliu cuonzolo” per almeno otto giorni consecutivi, poi si riprendevano le attività quotidiane.

pag. 10 Prima pagina pag. 12