La Stampa
REPUBBLICA DA NON GETTARE
di Marcello Sorgi
08-10-2005
COM’ERA da aspettarsi in presenza di una scelta così controversa,
l’intervento del Quirinale sulla riforma elettorale ha dato il via a una
serie di interpretazioni: da quella, prevalente e minimalista, del
centrodestra, che ha cercato riparo alle riserve del Colle prima dello
scontro parlamentare di martedì, a quella, pesantissima, che non esclude che
la legge proporzionale, anche se approvata, possa essere rinviata alle
Camere. Ma al di là dei rilievi e in presenza del tradizionale silenzio del
Capo dello Stato, che tace sempre quando il Parlamento è al lavoro,
l’iniziativa del presidente Ciampi su una materia così delicata forse
contiene un richiamo più alto, il tentativo di spingere i parlamentari a
valutare il senso vero della svolta che si prepara. Da non leggersi solo
come un semplice cambio di sistema elettorale; ma, al di là perfino della
volontà dei suoi stessi proponenti, come qualcosa che potrebbe portare a
chiudere l'esperienza della Seconda Repubblica. L'epoca nuova cominciata nel
'94, sull'onda di Tangentopoli e dei referendum per il maggioritario e la
preferenza unica, finirebbe così, se il proporzionale dovesse andare in
porto, con le elezioni del prossimo anno. In un Paese che, dopo il fascismo,
aveva scelto il parlamentarismo, ed era finito con la partitocrazia,
l'introduzione di una forma più diretta di democrazia diretta e del potere
degli elettori di scegliersi i governi era stato l'approdo di una mezza
rivoluzione. Una rivoluzione rimasta incompiuta, ma cominciata, e in qualche
modo razionalizzata proprio da Ciampi. Basta andarsi a rileggere quel che il
Presidente disse il 7 maggio '93, presentando alle Camere il suo governo, e
se stesso come primo cittadino non eletto chiamato a guidare l'Italia in un
frangente drammatico. Questo governo, spiegò l'allora premier, è vincolato
all'attuazione della volontà popolare emersa dai referendum elettorali.
Dopodiché, ridarà la parola al popolo. Ora è proprio quella volontà
popolare, espressa così chiaramente, che la nuova legge elettorale verrebbe
a contraddire. Ed anche se è del tutto legittimo, per una maggioranza forte
come quella della Casa delle libertà, sentirsi autorizzata a proporre la
riforma, il maggioritario che si va a cancellare non è un aspetto: è il
pilastro fondamentale della Repubblica fondata sul rapporto diretto tra
cittadini ed elettori. Un'esperienza, quella di questi anni, certo non
scevra da critiche e non immune da delusioni: ma sulla quale, forse,
converrebbe riflettere, per tentare di trarre un bilancio, prima di andare
verso un approdo che al momento non è chiaro. Dei «pro» della Seconda
Repubblica rispetto alla Prima, esiste infatti un elenco completo: la fine
del sistema bloccato, che aveva visto per mezzo secolo un gruppo di partiti
sempre al governo e un altro, contrapposto, sempre all'opposizione.
L'avvento, conseguente, della piena agibilità e legittimazione al governo
anche delle forze estreme. L'alternanza alla guida del Paese di schieramenti
avversari, verificatasi puntualmente nel ‘96 e nel 2001. La stabilità dei
governi nelle legislature, culminata con il record di Berlusconi per cinque
anni a Palazzo Chigi. E infine, anche se contestata, la riduzione dei costi
della politica, con l'abolizione del sistema delle preferenze e delle
«ditte» autonome e oblique di parlamentari che si gestivano in proprio.
Insieme ai «pro» c'è, tuttavia, una lunga lista dei «contro» del nuovo
sistema. Dai due poli, dalle due coalizioni, non sono nati né due grandi
partiti, né due liste unitarie in grado di contrapporsi chiaramente davanti
agli elettori. La frammentazione che doveva ridursi quasi automaticamente
con il maggioritario è invece esplosa, raddoppiando e moltiplicando da
entrambe le parti sigle e partitini. Ed è cresciuto il potere di ricatto
delle forze estreme (Lega e Rifondazione) sui partiti maggiori degli
schieramenti. Così, l'obbligo di alleanze spurie (Tabacci con Speroni,
Enrico Letta con Bertinotti), in un regime in cui nessuna delle due
coalizioni può permettersi di lasciare autonomia ad ogni potenziale alleato,
ha finito con il paralizzare i governi. Ne è derivata, dopo la grande
decapitazione della vecchia classe dirigente della Prima Repubblica, la
sostanziale sclerotizzazione di quella nuova, emersa dopo il '93. I leader
sono sempre gli stessi da oltre un decennio, e Berlusconi e Prodi si
ritrovano uno contro l'altro dieci anni dopo il loro primo big match. Ma a
ben vedere, il limite maggiore della rivoluzione italiana è stata la sua
identificazione con Berlusconi, la trasformazione del Cavaliere in una sorta
di totem del centrodestra e in perenne bersaglio del centrosinistra. Se
Berlusconi non è mai riuscito ad immaginare la Casa delle libertà come una
formazione che in futuro, non importa quanto lontano, da lui potrebbe anche
prescindere, il centrosinistra, privato del «mostro» attorno al quale danza
da oltre dodici anni, difficilmente sarebbe di nuovo in grado di accordarsi
su un programma e ritrovare ragioni per vincere. Non è per caso quindi che
Berlusconi, l'uomo che l'ha incarnata per tanto tempo, si avvii adesso,
pensando di salvare se stesso, a seppellire la Seconda Repubblica. Mentre a
difenderla, e a ricordare a tutti che malgrado i suoi limiti questa
Repubblica non è da gettare, sia proprio Ciampi: l'altro grande protagonista
di questi anni, che dopo aver aperto la strada al governo dei cittadini, si
oppone oggi al tentativo di chiuderla, con uno sforzo che merita rispetto.