Il consumo

Il consumo ci consuma

Il consumo sembra oggi l'unica cosa che ci garantisce un'identità, un senso di libertà, uno stato sociale. Un ben-essere ma senza essere, tutto teso sull'avere.  Se il fine ultimo è la produzione è ovvio che bisogna consumare e assistiamo oggi che sì la produzione di merci soddisfa i bisogni, ma anche che bisogna produrre bisogni per garantire la produzione di cose. La pubblicità sempre più invadente ha dunque questo scopo, convincerti che hai bisogno, che "devi" aver bisogno di qualcosa di nuovo, per sentirti vivo. E la moda non è che una strategia per opporsi alla resistenza dei prodotti per rendere ciò che è materialmente utilizzabile in socialmente inadeguato e quindi da eliminare.
Le cose quindi assumono un valore sempre più evanescente. Ma questo meccanismo dalle "cose" si estende anche alle persone, all'altro. Gunther Anders scrive "L'umanità che tratta il mondo come un mondo da buttar via, tratta anche se stessa come un'umanità da buttar via". dalle cose alle persone, tutto è intercambiabile, l'usa e getta vale anche per i rapporti umani e le relazioni (anche affettive) che diventano sempre più spesso "senza impegno".

Questo modo di agire, a volte inconsapevole, sotto la spinta del consumo fa slittare "il senso" dalla profondità alla superficie. E' una mutazione antropologica in atto che ci presenta una modernità liquida, superficiale che scioglie le griglie sociali e polverizza i rapporti. La profondità è un ostacolo e un freno al consumo perché ha bisogno di tempo, di riflessione e se riflettiamo un po'  va a finire che ci rendiamo conto che non serve acquistare "quella" cosa, che forse ne possiamo fare a meno.


 

Un uomo è ricco in proporzione al numero di cose di cui può fare a meno
-- Henry David Thoreau

Limiti


Bisogna dunque riscoprire e praticare dei limiti: rallentare (i ritmi di crescita e sfruttamento), abbassare (i trassi di inquinamento, di produzione, di consumo), attenuare (la nostra pressione verso la biosfera, ogni forma di violenza). Un vero regresso rispetto al "più veloce, più alto, più forte". Difficile da accettare, difficile da dare, difficile persino a dirsi".   Alex Langer

L'impronta ecologica


L'impronta ecologica e' un metodo di misurazione che indica quanto territorio biologicamente produttivo viene utilizzato da un individuo, una famiglia, una città, una regione, un Paese o dall'intera umanità per produrre le risorse che consuma e per assorbire i rifiuti che genera.

Il metodo è stato elaborato nella prima metà degli anni '90 dall'ecologo William Rees della British Columbia University e poi approfondito, applicato e largamente diffuso a livello internazionale da un suo allievo, Mathis Wackernagel, oggi direttore dell'Ecological Footprint Network, il centro più autorevole e riconosciuto a livello internazionale.

Il metodo consente di attribuire, sulla base dei dati statistici di ogni paese e delle organizzazioni internazionali, un'impronta ecologica di un certo numero di ettari globali pro capite come consumo di territorio biologicamente produttivo.


Il WWF utilizza dal 2000 il metodo di calcolo dell'impronta ecologica nel suo rapporto biennale Living Planet Report, commissionando a Wackernagel ed al suo team il calcolo delle impronte ecologiche di tutti i paesi del mondo.
 

  I,E, I,E, rispetto alla terra
Austria 4,9 -3,12
Stati Uniti 9,6 -7,82
Australia 6,6 -4,82
Svezia 6,1 -4,32
Canada 7,6 -5,82
Francia 5,6 -3,82
Italia 4,2 -2,42
Spagna 5,4 -3,62
Argentina 2,3 -0,52
Cina 1,6 0,18
Egitto 4,2 -2,42
Etiopia 0,8 0,98
India 0,8 0,98
Mondo 1,78 0

L’impronta ecologica è in sostanza la “porzione di territorio” (sia essa terra o acqua) di cui una popolazione necessita per produrre in maniera sostenibile tutte le risorse che consuma e per assorbire i rifiuti.
L’impronta ecologica di qualsiasi popolazione (dal livello individuale fino al livello di città o di nazione) è il totale della terra e del mare ecologicamente produttivi occupati esclusivamente per produrre tutte le risorse consumate e per assimilare i rifiuti generati da una popolazione.