Le opere

Storia di una capinera (1870)


Scritto durante il soggiorno fiorentino, nell’estate del 1869, Storia di una capinera conobbe un notevole successo di pubblico fin dalla prima pubblicazione, avvenuta nel 1870 sulla rivista «La ricamatrice».
Attenendosi alla cronologia, esso appartiene al periodo dei romanzi giovanili, collocandosi a cavallo fra Una peccatrice (1866) e Tigre reale (1873), dai quali, però, si distacca notevolmente. Innanzitutto per l’ambientazione, la campagna rispetto alla città, poi per l’amore, visto come elemento che sfocia nella follia, e, non ultimo, per il taglio epistolare che garantisce una certa linearità alla narrazione.
La trama è piuttosto semplice: Maria, una novizia destinata per volontà della famiglia a una vita monacale, in seguito allo scoppio di un’epidemia di colera, lascia temporaneamente il convento per trasferirsi con la famiglia in campagna.
In questo scenario Maria scopre sensazioni ed emozioni mai vissute prima, tra le quali la gioia dell’amore, seppur pudicamente vissuta, per Nino, il promesso sposo della sorellastra.
La felicità di quei giorni, però, dura poco: la matrigna, resasi conto di quello che sta accadendo, la fa confinare nella sua stanza, dove essa a poco a poco si ammala.
Passata l’epidemia, Maria ritorna al convento, ma ben presto si accorge che nulla potrà essere come prima, quel sentimento puro si trasforma in passione struggente e da qui fino a una totale follia, che la porta a essere rinchiusa in una sorta di cella, dove piano piano si consumerà.
L’intento di Verga è sicuramente quello di proporci una vicenda realmente accaduta, non tanto, come si potrebbe pensare, per compiere una denuncia sociale sulla condizione femminile dell’epoca, ma per descrivere la trasformazione di sentimenti che avviene parallelamente alla vicenda.
L’amore impossibile di Maria viene quindi esasperato e drammatizzato all'eccesso, così come la tensione sentimentale che l’autore ha voluto infondere nella protagonista

-Malavoglia-

Quello di "Malavoglia” è solo un soprannome, una ‘ngiuria come si direbbe usando il dialetto siciliano, un epiteto che non rende onore alla famiglia Toscano, da tempo immemorabile «tutta buona e brava gente di mare». Proprio della loro storia si narra qui: storia non di “umili”, come riecheggia dal Manzoni, ma di “umiliati”. Storia di poveri pescatori che sono,
oltre che frutto del forte atteggiamento fatalista dell’autore, vittime di un triste scherzo del destino il quale mima, a mo’ di sortilegio, e predicendo, una storia che pareva esser già tutta in quel nomignolo, indossato lungo generazioni diverse.

I Malavoglia, scritto nel 1881, doveva essere parte di una più articolata intenzione, un grande progetto cui Verga aveva fatto riferimento in una lettera del 21 aprile 1878 a Salvatore Paolo Verdura: «…Ho in mente un lavoro che mi sembra bello e grande, una specie di fantasmagoria della lotta per la vita, che si estende dal cenciaiuolo al ministro all’artista, e assume tutte le forme, dall’ambizione all’avidità del guadagno, e si presta a mille rappresentazioni del grottesco umano». Si riferiva, ovviamente, al ben noto “ciclo dei vinti” al disegno che, comprendendo Mastro Don Gesualdo e La Duchessa di Leyra, avrebbe potuto essere portato a termine, se proprio quest’ultimo non fosse rimasta incompiuto.
Nella prefazione al romanzo Verga presenta il tema di fondo dello scritto: la rottura di un equilibrio dato dalla tradizione immobile e abitudinaria di una famiglia semplice di Aci Trezza, per l’irrompere di nuove forze, «la fiumana del progresso» scrive Verga, il desiderio di migliorare le condizioni di una vita grama, lasciando risplendere i luccichii di una necessaria modernità nel buio fitto dell’universo arcaico. La prefazione potrebbe leggersi insieme al commento di Luigi Russo, noto recensore dell’opera omnia verghiana: per il critico il testo rappresenta l’esaltazione del mondo primitivo, la «religione della casa» e della famiglia.
La lotta de “i Malavoglia” non è esclusivo battersi contro la natura geografica incarnata dal mare, bestia famelica che inghiotte la piccola barca dei pescatori, la Provvidenza, portando morte e disperazione, ma anche scontro con la natura umana, rivisitata nelle malelingue degli abitanti di Aci Trezza: gente invidiosa, pettegola e cattiva.
Quando il giovane ‘Ntoni lascia il focolare domestico perché disgustato dalle condizioni estreme di un’esistenza il cui peso non riesce a sopportare, getta l’intera famiglia nel tormento, lasciando gravare la funerea sensazione che i valori da sempre perseguiti, ormai senz’anima, non abbiano più ragion d’essere. E questi valori sono la casa, in quanto materializzazione della possibilità di sopravvivere, ma anche l’onestà, l’onore. Vessilli in costante estinzione.
Ne I Malavoglia restano ancora in vita i depositari delle leggi e dei codici esistenziali messi in crisi dal progresso: oltre al vecchio ‘Ntoni, anche Bastianazzo e altri; ma da vicino i loro valori rivelano la natura di ideali ormai incomprensibili ai più, a quella massa che si è sporta ad ammirare i nuovi dei, il denaro, il successo. Il paese, Aci Trezza, è un coro di abbrutiti, di gente avvelenata dai principi avari del materialismo. Verga non descrive gli ambienti, lo stile impersonale glielo impedisce. E allora getta pennellate veloci e poi scrive: racconta del mare che è, tuttavia, metafora infausta dell’onda del progresso che travolge chi è incapace di cavalcarla.
Il momento storico è la fotografia degli stessi anni in cui Verga narra (1863-1878). E’ la quotidianità dell’Italia post-unitaria, la vita dei nostri predecessori nei suoi risvolti umanamente impoveriti quali il brigantaggio, il lavoro minorile, il servizio militare e le tasse. E’ uno sfondo che, tuttavia, ha dato modo al romanzo verghiano di farsi voce viva e attuale di una storia realmente vissuta, regionale e universale insieme.
Verga ha un chiaro atteggiamento di premuto pessimismo. D’altronde è ateo e materialista, non si giova dei privilegi donati dallo spirito paraclito della religione, che egli intende come insieme di atteggiamenti di sola pratica abitudinaria senza valore consolatorio alcuno. Non si intromette nella narrazione, affida tutto alla tecnica ben nota dell’impersonalità, del lasciare che sembri, davvero, che l’opera si sia scritta da sé. Nessun filo si percepisce tra il romanzo e il suo autore, nessun collegamento da potersi fare. Tanti sono i proverbi, simbolo della saggezza di una generazione passata, molti i paragoni, mente il flusso gergale è usato solo là dove serve.
E la vita, nel romanzo, assume un po’ i caratteri dell’immobilismo: nulla evolve o muta. Verga si lascia trascinare indietro e regredisce, quasi risucchiato dalle pagine del romanzo. Si abbassa al livello dei suoi personaggi in modo da poter dire, fare e vedere così come essi dicono, fanno e vedono. La sintassi e il lessico sono di stampo popolare, di un siciliano carico di anacoluti ed errori, che tuttavia, fatta eccezione per quei pochi vocaboli assolutamente intraducibili, non è dialettale. E il discorso è totalmente libero. Diretto, nonostante venga reso indirettamente.
Dopo il naufragio della Provvidenza, i ripetuti lutti, i debiti dovuti al fallimento del commercio di lupini e l’allontanamento del giovane ‘Ntoni, fuggito alla scoperta della vita nella grande città, Alessi, uno dei nipoti del vecchio ‘Ntoni, troverà il modo di riscattare la “casa del nespolo” e ricomporre un frammento dell’antico nucleo familiare. Dunque, sembrerebbe di ravvisare un lieto fine tra le ultime righe del romanzo, ma la critica recente non è del tutto concorde.
C’è chi, come Barberi Squarotti, la pensa diversamente: l’uscita di prigione del giovane ‘Ntoni, il ritorno a casa dello stesso e, di nuovo, il suo definitivo allontanarsi nella piena coscienza di una spaccatura insanabile con la propria famiglia, è il simbolo di un commiato ancora più disgregante. E’ il distacco dal mondo arcaico irrimediabilmente sconfitto per l’avvicinarsi dell’era moderna. E’ un passaggio. Il percorso del giovane ‘Ntoni, d’altra parte, sarà ripreso e continuato da Gesualdo che, esponente più tipico del mondo evoluto, avrà il dinamismo e l’intraprendenza di un self made man.