PRICIPALI ESPONENTE DEL NATURALISMO IN ITALIA DETTO ANCHE "VERISMO"
GIOVANNI VERGA
Vita
Giovanni Verga nacque a Catania il 2 settembre 1840. L’attività
del giovane scrittore si svolse, sia in campo letterario (nella composizione
dei romanzi storici e patriottici), sia in campo politico (con Niceforo fondò
e diresse il settimanale «Roma degli italiani»), nella città
natale. Primariamente influenzato dal suo insegnante Don Antonio Abate, autore
di opere intrise di romanticismo, Verga esordì con un romanzo intitolato
Amore e Patria, scritto fra il 1856 e il 1857 e rimasto inedito.
La lettura appassionata di Dumas, Sue, Scott e Radcliffe produsse un inesorabile
effetto. Nel 1861 infatti, su «Roma degli italiani» uscì
a puntate I carbonari della montagna, opera in cui si trovavano mescolate
una certa qual retorica patriottica e un vieto repertorio romantico. Nel 1863
venne pubblicato su «La nuova Europa» il secondo romanzo d’appendice
verghiano intitolato Sulle lagune: ancora “amore” e “patria”,
anche se il tema sentimentale cominciava a prevalere su quello patriottico.
Giunse il momento di lasciare la Sicilia, era il 1865: Firenze, capitale del
regno d’Italia già da un anno, offriva a Verga l’ambiente
mondano ideale in cui far spaziare il proprio talento. L’interesse del
giovane provinciale inurbato per i fasti della mondanità trovò
ampio sfogo in Una peccatrice (1866): «un peccato letterario»,
come ebbe a definirlo più tardi lo stesso autore. Il successo giunse
più sonoro con Storia di una capinera (1871), romanzo in cui l’accento
era posto sul tema delle passioni travolgenti e fatali. In esso si riscontrava,
a ben vedere, una sorta di verismo ante litteram, soprattutto là dove
Verga aveva narrato della pazzia della giovane protagonista costretta a farsi
monaca.
Trasferitosi a Milano nel 1872, Verga frequentò i ritrovi eleganti
del capoluogo lombardo ed entrò in contatto con gli scapigliati, pur
non condividendo fino in fondo l’atteggiamento nichilista del loro movimento.
Testimonianza di questa fase è il romanzo Eva (1873), che affianca
alla figura del protagonista, Filippo Lanti, quella di Eva, una donna caratterizzata
dalla spensieratezza vitale e dalla passionale psicologia amorosa: i benpensanti
gridarono allo scandalo, mentre i critici decretarono la congiura del silenzio.
Non altrettanto felice può considerarsi il Verga dei successivi romanzi:
Tigre reale (1873) ed Eros (1875) sono opere in cui si riscontra una perdita
della coerenza del personaggio femminile, ormai sdoppiato nella figura della
donna fatale, da una parte e in quella di femmina fedele al mito della casa,
dall’altra. Si registra, intanto, un grande progresso sul piano della
lingua e dello stile. La lezione data dall’Education sentimentale di
Flaubert si assapora con piacevole certezza. Il gusto verghiano è comunque
ancora troppo teatrale. Lo scrittore non si è del tutto congedato dal
bel mondo: si è invece convinto della necessità di un distacco
dalla vita di una certa parte della società, rappresentata dall’aristocrazia
e dai gentiluomini.
Nel 1878, traumatizzato dalla morte della madre e angosciato dai sensi di
colpa per aver abbandonato il focolare domestico, Verga avvierà la
scrittura de I malavoglia, tornando nostalgicamente alla Madre mediterranea.
Se Nedda (1875) rappresenta per alcuni l’inizio della nuova arte del
Verga, per altri — in particolare Momigliano — non farà
che rivelare come «l’elegante reduce dei salotti» abbia
«cambiato materia ma non… il suo spirito e le sue abitudini mentali».
Tesi, questa, che troverà conferma nel volume successivo Primavera
e altri racconti, dove si tornerà alla società elegante e salottiera
di Eros.
A proposito dell’incontro di Verga con il Verismo, Momigliano sostenne
che, se fu per lo scrittore, inizialmente, una «spinta liberatrice»
(Croce), si risolse poi in un motivo di debolezza. L’itinerario del
Verga maggiore sarà segnato dallo sforzo di sottrarsi al verismo massiccio,
per elevarsi ad un più consapevole realismo. Quando nel 1875 compose
il “bozzetto marinaresco” Padron ‘Ntoni e quando, poi, nel
1878 annunciò a Salvatore Paola il ciclo della “marea”
(successivamente rinominato “ciclo dei Vinti”), per Verga il Verismo
era ancora uno strumento tecnico, che suggeriva un linguaggio nuovo. Solo
con l’introduzione a L’amante di Gramigna Verga fu in grado di
accettare la dottrina dell’impersonalità; con Fantasticheria,
poi, il provvisorio distacco dalla tematica mondana potrà dirsi consumato.
Primo frutto della “conversione” letteraria del Verga è
Vita dei campi (1880): qui il Verismo è ancora liricamente sublimato,
e si scorge, inoltre, il solito influsso vittorughiano dato dalla inevitabile
catastrofe finale. Il senso di una tragedia ineluttabile appare anche ne I
Malavoglia (1881), una grande opera nel senso drammatico del dolore e della
morte e per la genialità della tecnica narrativa del “discorso
rivissuto”.
Ne I Malavoglia, tuttavia, Verga continuò a fare retorica sul focolare
e sulla necessità di non infrangere la legge della solidarietà
che lega i poveri fra loro. L’ideale “dell’ostrica”,
teorizzato in Fantasticheria, non è una condizione di fatto, ma una
formulazione ideologica. È stato spesso osservato come Verga mancasse
di una chiara idea sociale. In realtà nello scrittore siciliano visse
una coerente ideologia conservatrice, anche se di «conservatore illuminato»(Sapegno),
che può spiegare il pessimismo fatalistico e il terrore della storia,
rivissuto nell’Aci Trezza de I Malavoglia, paese reso microcosmo astorico,
di vita vissuta secondo le necessità della natura, più che della
storia.
La sfumatura ironica, invece, si ritrova in un altro grande romanzo: Mastro
Don Gesualdo (1889), sintesi di tutta l’opera verghiana e capolavoro
del Realismo italiano. Tra quest’ultimo e I Malavoglia si collocano
Il marito di Elena (1882) — un ritorno alla complessa psicologia femminile
dei romanzi mondani — le novelle milanesi Per le vie (1883) e, infine,
le Novelle rusticane (1883). E così, al motivo della “casa”
subentra quello della “roba”: mentre la visione del focolare si
addice ai poveri, la passione per la “roba” prescinde dalle differenze
di classe.
Dopo Mastro Don Gesualdo comincia a potersi scorgere il tramonto dello scrittore
che, invano, ricerca una nuova espressione nel linguaggio teatrale. Il giudizio
negativo sul teatro verghiano è unanime: il linguaggio e l’azione
scenica non hanno la stessa intensità del paesaggio, elemento di forza
dell’arte verghiana. Di questo periodo è Dal tuo al mio (1905),
romanzo tratto dal un lavoro teatrale, che racchiude in sé una prefazione
piena di strali polemici verso i socialisti.
L’involuzione delle idee politico sociali di Verga è ormai netta
e rapida: in una lettera a Camerini del 1888 egli si definiva politicamente
«moderato», ma era intimamente avverso al metodo della democrazia
parlamentare. Più tardi diventerà sostenitore della politica
crispina e africanista e, quando si verificheranno i luttuosi fatti di Milano
del 1898, plaudirà alle repressioni di Bava-Beccaris. Nel 1912 aderì
esplicitamente al partito nazionalista, fu interventista, dannunziano e antinittiano,
non mancando di mostrare simpatie per il nascente partito fascista. A provocare
queste prese di posizione interverranno anche motivi economici: Verga, proprietario
terriero, era molto preoccupato dalla legge agrumaria che danneggiava i produttori,
era in ansia per la mancata vendita dei suoi limoni di Novalucello e chiuso
in una senile deformazione che aveva del maniacale: tale situazione valse
a spiegare il silenzio artistico degli ultimi anni.
Dopo la raccolta Vagabondaggio (1887), iniziò il crepuscolo di Verga
con I ricordi del capitano d’Arce (1891), stanca ripresa di motivi aristocratici
mondani. Fallì il tentativo di dar vita, con la Duchessa di Leyra,
a un imponente quadro della vita aristocratica siciliana: del romanzo, che
doveva essere parte del progettato e mai concluso “ciclo dei Vinti”,
comprendente anche I Malavoglia e Mastro Don Gesualdo, vide la luce solo il
primo capitolo, pubblicato nel 1922, dopo la morte dell’autore.
Verga visse i suoi ultimi anni a Catania, dove morì nel 1922 abbandonato
a una vita inerte e tranquilla, a una solitudine sdegnosa e scontrosa, noncurante
della tardiva fama consacrata dalla nomina a senatore nell’ottobre del
1920.