Matematici

Nicolò Fontana (Tartaglia)

Gerolamo Cardano

La disputa tra Tartaglia e Cardano

 

La disputa tra Tartaglia e Cardano

Fu una pittoresca combriccola di matematici italiani del XVI secolo a capire come utilizzare il linguaggio dell'algebra per risolvere le equazioni cubiche. La scoperta maturò in un'epoca in cui la cultura europea si fondava unicamente sulle conquiste compiute dai greci. Sembrava che, a distanza dì un millennio, ben pochi progressi fossero stati realizzati rispetto alla geometria di Euclide e di Archimede.

Non solo: gli scavi in Italia stavano riportando alla luce i monumenti della Roma antica. Era come se l'Europa del Rinascimento non potesse sfuggire alle sue antiche radici. Quando gli studiosi italiani scoprirono una nuova matematica, che i greci e perfino gli arabi nemmeno avrebbero potuto sognarsi, ciò fu accolto come un potente stimolo per la moderna scienza europea.

L'architetto di questa nuova matematica, Niccolò Fontana, non aveva trascorso un'adolescenza tranquilla. Era sfuggito alla morte per un soffio all'età di dodici anni, durante l'invasione di Brescia, nel 1512, da parte dei francesi. Durante il massacro degli abitanti a opera delle truppe di Luigi XII, Niccolò fu colpito da una sciabolata al volto, e, creduto morto, fu lasciato a terra. Fu salvato dalla madre, che cercò di curare le orribili ferite alla mandibola e al palato. Il ragazzine rimase danneggiato da un grave impedimento che non gli permetteva di articolare correttamente le parole e di lì in avanti fu sempre additato con il soprannome «Tartaglia». Da adulto, si fece crescere la barba per nascondere le brutte cicatrici lasciategli dal soldato francese.

Se con la spada era stato sconfitto, sarebbe risultato più tardi vittorioso nel duello con la mente. Escluso dai compagni dì scuola per il suo aspetto deturpato, Tartaglia si rivolse alla matematica anche per sfuggire alla propria incapacità di socializzare. Seppur da autodidatta, si accorse di avere una grande predisposizione per la materia. Pubblicò un libro che, corredato delle prime tabelle balistiche, spiegava in che modo la matematica avrebbe potuto essere usata per prevedere le traiettorie dell'artiglieria. Ma la sua grande passione era la risoluzione di equazioni.

Agli inizi del secolo XVI, si riteneva che le equazioni cubiche fossero impossìbili da risolvere. Era questa la convinzione di Luca Pacioli, un matematico che aveva scritto ciò che all'epoca era considerata la parola definitiva sulla conoscenza in fatto di equazioni. La svolta non avrebbe potuto verifìcarsi se non al di fuori dei perimetri accademici, dal momento che il punto di vista di Pacioli era considerato incontrovertibile dalla maggior parte degli studiosi. Combattendo contro queste equazioni nell'isolamento della sua stanza, Tartaglia riuscì a trovare il primo punto debole nell'armatura della cubica. La sua idea fu quella di usare le radici cubiche allo stesso modo delle radici quadrate. L'idea sembra oggi banale, ma le radici quadrate avevano una realtà fìsica che conferiva loro credibilità, mentre le radici cubiche non l'avevano.

Grazie al teorema di Pitagora già si sapeva che le radici quadrate erano lunghezze di lati di triangoli. Di fatto, le radici quadrate rappresentano il limite di ciò che è possibile costruire geometricamente usando nient'altro che una riga e un compasso. Per questo, l'idea di utilizzare radici cubiche aveva per i matematici un che di irreale. Questa crepa nell'armatura della cubica bastò tuttavia a Tartaglia per produrre una formula utile a risolvere casi particolari di equazioni cubiche.

Tartaglia scoprì di non essere l'unico a credere di avere risolto la cubica. Un giovane veneziano, tale Antonio Maria Fiore, detto «Fior», andava vantandosi di essere in possesso della formula segreta per la risoluzione delle equazioni cubiche. Quando si diffuse la notizia delle scoperte dei due matematici, fu subito indetta una tenzone per porre i due a diretto confronto. Mentre i combattimenti di cani contro un orso o quelli tra i galli erano le forme di intrattenimento più in voga tra i contadini, lo spettacolo di due matematici impegnati in una gara mentale era considerato una chicca negli ambienti intellettuali dell'Italia settentrionale. Fior era estremamente fiducioso di poter battere il rozzo autodidatta, convinto che Tartaglia stesse semplicemente bluffando.

Il guaio era che, a causa dell'incapacità europea di affrontare l'idea dei numeri negativi, vi erano molteplici tipi diversi di equazioni cubiche che dovevano essere analizzati. Già Omar Khayyam, escludendo questa classe numerica, ne aveva classicati 14. Un procedimento che funzionava per la risoluzione di x3 = 5x + 1 non sarebbe stato utile nel caso di x3 + 4x = 1, per cui era necessaria una nuova strategia. I moderni matematici, armati di numeri negativi, non farebbero altro che riscrivere x3 + 4x = 1 come x3 = - 4x + 1, utilizzando così lo stesso metodo che vale a risolvere l'equazione x3 = 5x + 1, sostituendo il 5 con il -4 in tutta l'analisi. Ma, senza numeri negativi, i matematici europei dovevano trovare un modo alternativo per risolvere questi differenti tipi di cubiche.

In realtà, il metodo del giovane Fior non era farina del suo sacco: si narra che il suo maestro, il bolognese Scipione del Ferro, glielo avesse trasmesso sul suo letto di morte, nel 1526. Del Ferro non voleva che il suo segreto scendesse con lui nella tomba, e decise così di metterne a parte Fior. Ma aveva confidato al suo allievo come risolvere uno solo dei 14 tipi di equazioni cubiche.

Il giorno della contesa arrivò. I matematici si diedero convegno all'università di Bologna, una della più grandi e famose università europee dell'epoca, che richiamava studiosi da tutta Europa, come la Casa della Sapienza aveva fatto secoli prima a Baghdad. Le disfìde accademiche pubbliche attraevano folle di astanti e l'università era in gran fermento Ìl giorno in cui Fior e Tartaglia si apprestarono a incrociare le armi della matematica.

Ciascun contendente avrebbe dovuto risolvere 30 equazioni proposte dall'avversario. Si calcolò che ognuno dei due avrebbe avuto bisogno di 40 giorni per risolvere l'intera lista con il proprio metodo. Si era convenuto che, per ogni equazione risolta, l'avversario avrebbe dovuto pagare una cena. Per quanto i problemi che Fior aveva preparato per Tartaglia fossero abbigliati in una varietà dì fogge differenti (dal calcolo del profitto sulla vendita di zaffiri alla determinazione dell'altezza di un albero tagliato in pezzi), tutte le 30 equazioni si riducevano di fatto allo stesso tipo: la forma x3 + 2x = 5, dove b e c assumevano semplicemente un diverso valore numerico a seconda del quesito. Fior mise tutte le sue uova in un solo paniere, ma era ancora persuaso che Tartaglia non avesse alcuna possibilità di vittoria.

La strategia di Fior, di concentrare tutti i 30 problemi in un solo tipo di equazione cubica, rischiò di avere successo. Infatti, nonostante Tartaglia avesse fatto progressi nella risoluzione delle cubiche, era riuscito solo a trovare il modo per risolvere uno dei 14 tipi di quelle equazioni, precisamente quello che si presentava come x3 + bx2 = c, anziché quelle che Fior stava meditando di sottoporgli. Ma, stimolato dall'incombere della contesa, nelle prime ore del 13 febbraio 1535, otto giorni prima del duello con Fior, Tartaglia riuscì a sintetizzare le proprie idee in un metodo generale che avrebbe risolto tutte le equazioni cubiche. Manipolando le equazioni per mezzo di astute sostituzioni, Tartaglia capì che in realtà esistevano solo due tipi differenti di cubiche, e che egli era in grado di risolvere entrambi.

Tartaglia riuscì a risolvere tutte le 30 sfide di Fior in sole due ore. In contrasto con la strategia di Fior, che aveva basato tutti i suoi quesiti su un solo tipo di cubica, Tartaglia aveva proposto un intero campionario di cubiche differenti, che Fìor non era in grado di decifrare. SÌ mostrò quindi per quel mediocre matematico che era, incapace di estendere il metodo appreso dal maestro al di là dell'unico tipo di cubica di cui gli era stata offerta la spiegazione. Nonostante il trionfo, Tartaglia rinunciò signorilmente alle 30 cene vinte a spese di Fior.

La notizia della travolgente vittoria di Tartaglia sì diffuse rapidamente ben oltre i corridoi dell'università di Bologna. Un matematico, in particolare, sentì il vivo desiderio di scoprire Ìl segreto del successo di Tartaglia e cominciò a fare pressioni su quest'ultimo per estorcergli la sua formula magica.

Girolamo Cardano aveva un gran talento per mettersi nei guai. Il tatto non era il suo forte, e sembrava non poter fare a meno di irritare chi ricopriva ruoli di potere. Aveva compiuto studi dì medicina, non di matematica, presso le università di Pavia e di Padova. La sua brama di potere lo aveva portato a candidarsi come rettore dell'università di Padova, e sì aggiudicò la carica per un solo voto. Era del tutto consapevole di quanto potesse risultare sgradevole ai più Ìl suo stile aggressivo e arrogante, ma di ciò pareva non volersi scusare in alcun modo.

Anche se avvocato dì professione, il padre di Cardano, Fazio, era un matematico di talento, che aveva fornito la propria consulenza perfino a Leonardo da Vinci su questioni di geometria. Mori durante la campagna di Girolamo per il rettorato, ma aveva trasmesso al figlio la sua inclinazione per la matematica. Gli aveva insegnato il rigore della logica, nella speranza che gli potesse tornare utile per una carriera forense. Ma il ribelle Girolamo aveva intenzioni del tutto diverse. Le conoscenze matematiche in suo possesso gli diedero accesso alla comprensione della teoria delle probabilità, che pensò bene di mettere a frutto nelle sale da gioco di tutta l'Italia.

Cardano fu uno dei primi a rendersi conto che il lancio dei dadi poteva essere regolato da princìpi scientifici. Tentò di mettere in pratica la sua analisi delle probabilità di uscita di un doppio sei, ma il demone del gioco iniziò a prevalere sulla sua analisi razionale della matematica applicata al gioco dei dadi, e finì con il dilapidare il patrimonio che ìl padre gli aveva lasciato.

In una serata di gioco particolarmente disperata, accusò un giocatore dì avere barato alle carte. La matematica gli aveva detto che avrebbe dovuto vincere, perciò Cardano non riuscì ad accettare la sconfitta e sguainò il coltello, colpendo il suo avversario al volto.

A causa di tali incresciosi episodi, perse del tutto credibilità e le basi della sua professione medica furono irreparabilmente minate. Quando le autorità scoprirono la sua condizione di figlio illegittimo, colsero il pretesto per espellerlo dal Collegio dei Medici. Avendo dato in pegno i gioielli della moglie e perfino i mobìli per finanziarsi il vizio del gioco, Cardano finì dritto all'ospizio dei poveri nel 1535.

I matematici vennero in suo soccorso. I suoi talenti non erano passati inosservati, cosicché fu risollevato dalle ristrettezze e gli fu offerta una posizione di docente a Milano. Contìnuo a praticare la medicina, con alcuni notevoli successi, ma furono i suoi scritti sulla matematica ad assicurargli la celebrità.

Cardano era molto interessato alle equazioni. La convinzione comune era che, a differenza delle equazioni quadratiche, quelle comprendenti elevazioni al cubo non potessero essere risolte usando una formula. Questo era quanto Cardano aveva letto nel libro definitivo di Pacioli sull'aritmetica, scritto nel 1494. Ma ora, dopo la notizia del successo di Tartaglia, Cardano si rese conto che risolvere 30 equazioni cubiche con una rapidità sorprendente era realizzabile solo con l'aiuto di una formula. Quando si viene a sapere che una soluzione è possibile, e che una mente umana è riuscita a trovare una strada per insinuarsi in un luogo che sembrava impenetrabile, si pone la sfida di verificare che Ìl percorso sia accessibile a tutti. Quasi ogni matematico è certo che, se un'altra persona riesce a escogitare qualcosa, può riuscirci anche lui. Dopo tutto, l'argomentazione matematica possiede una natura tale da risultare indipendente dalla mente che l'ha escogitata. Una volta dimostrata, essa assume una realtà oggettiva. Ma prima che quel passo decisivo sia compiuto, è diffusa la sensazione che nessuno possa riuscirci, e che ci sia qualcosa di intrinsecamente impossibile in quell'impresa.

I matematici non sopportano di dover ammettere una sconfitta. L'ultima cosa che vogliono è chiedere la risposta a un quesito che non sanno sciogliere. Cardano continuò così a cimentarsi con il problema per diversi anni, convinto com'era che, se esisteva una formula, sarebbe stato capace di scoprirla autonomamente. Ma, nel 1539, non riusci più a resistere e gettò la spugna. Inviò a questo misterioso Tartaglia una lettera, chiedendogli di poter includere la sua formula in un libro di aritmetica che stava scrivendo. Tartaglia, però, avrebbe preferito essere dannato piuttosto che permettere a qualcun altro di diffondere la sua scoperta, e fece sapere a Cardano che intendeva pubblicare la formula egli stesso.

Ora, però, Cardano desiderava più di ogni altra cosa conoscere il segreto. Prese di nuovo contatto con Tartaglia, promettendogli che non avrebbe divulgato la formula ad anima viva. Gli spiegò che bramava solo sapere di quale misteriosa formula si trattasse. Ma di nuovo Tanaglia si rifiutò. Cardano era esasperato. Che ragione c'era di mantenere segreta la formula? Non era forse dovere di Tartaglia condividere la sua scoperta con i colleghi matematici? Sfidò Tartaglia a un dibattito aperto. La vicenda assunse un risvolto curioso. Non vi era alcun dubbio sul fatto che Tartaglia avesse realmente fatto la scoperta: a differenza di altre rivendicazioni matematiche, il fatto stesso che egli fosse riuscito a risolvere le equazioni cubiche che gli erano state sottoposte era la prova indiscutibile che egli avesse sottomano una formula. Dunque, Tartaglia non aveva nulla da temere: invece rifiutò ancora.

Alla fine, Cardano comprese che il modo per indurre Tartaglia a svelare il suo segreto era il denaro. Gli scrisse, accennando che un ricco mecenate, il governatore dì Milano, era interessato a sponsorizzare il grande matematico che aveva risolto la cubica. Se Tartaglia fosse stato disposto a venire a Milano, Cardano pensava di potergli combinare una presentazione al governatore. Il piano funzionò. Tartaglia aveva una necessità disperata di mezzi finanziari. La modesta posizione di insegnante che ricopriva a Venezia gli era a malapena sufficiente per le spese dì vitto e alloggio, così scrisse a Cardano, accettando l'offerta, e, nel marzo del 1539, si recò a Milano.

Stando al resoconto di Tartaglia, Cardano fu estremamente ospitale, ma continuò a fargli pressione affinchè gli rivelasse il segreto della cubica. Tartaglia, dai canto suo, continuava a chiedere quando sarebbe stato possibile incontrare il suo ricco mecenate. Astuto calcolatore e manipolatore, Cardano aveva fatto coincidere la visita dì Tartaglia con Ìl momentaneo trasferimento del governatore nella vicina città di Vigevano. «Avremo ogni opportunità dì parlare e discutere delle nostre cose fino al suo rientro in città.» Cardano iniziò così a premere su Tartaglia, chiedendogli il motivo di tutto quel mistero sulla sua formula per la risoluzione della cubica.

Quando si fa una scoperta decisiva in matematica, vi è sempre la sensazione che forse quella nuova idea possa preludere a molto di più. Tartaglia pensava che, se la formula da lui escogitata era valsa a risolvere l'equazione di terzo grado, forse la si sarebbe potuta estendere a equazioni ancora più complicate, come quelle di quarto o addirittura di quinto grado. Spiegò quindi a Cardano che non intendeva rendere pubblici i suoi risultati almeno fino a quando non fosse stato ragionevolmente certo di non essere seduto su una miniera d'oro, matematicamente parlando. In quel momento era però oberato dal lavoro di insegnante, oltre a essere occupato in una nuova traduzione di Euclide.

Cardano promise che non avrebbe mal svelato il suo segreto e spiegò di voler conoscere la formula magica solo per un proprio bisogno intellettuale. Tartaglia non gli credette. A Cardano parve quasi di impazzire: disperava dì ottenere la risposta dopo avere sudato per anni senza successo nel tentativo di risolvere la cubica con le sue sole forze. Gli giurò sui Vangeli di Dio, e come vero uomo di onore, che non solo non avrebbe mai pubblicato quelle scoperte, ma le avrebbe anche annotate in modo crìptico, affinchè, dopo la sua morte, nessuno avrebbe potuto decifrarle. Così almeno racconta Tartaglia riguardo alla promessa fattagli da Cardano tre giorni dopo il suo arrivo a Milano.

La pazienza del matematico bresciano era ormai agli sgoccioli. Sarebbe andato a Vigevano da solo e avrebbe parlato direttamente al governatore. Ma Cardano aveva dichiarato il suo prezzo per la lettera di presentazione di cui Tartaglia avrebbe comunque avuto bisogno. Così, di fronte al giuramento solenne con il quale Cardano si impegnava a non divulgare la formula ad alcuno, e a non scriverla neppure così che nessuno la potesse scoprire dopo la sua morte, Tartaglia cedette.

«Per essere in grado di ricordare il metodo in qualsiasi circostanza imprevista, Tho espresso con una poesia in rima.»

I versi erano alquanto verbosi e criptici, ma Tartaglia spiegò che erano stati la chiave del suo successo in tutte le contese da lui vinte. Cominciò così a trascrivere le rime per l'impaziente Cardano:

Quando che il cubo con le cose appresso,
Se agguaglia a qualche numero discreto,
Trovami dui altri differenti in esso.

Dapoi terrai questo per consueto
Che il lor prodotto sempre sia eguale
Al terzo cubo delle cose netto.

El residuo poi tuo generale
Detti lor lati cubi ben sottratti
Varrà la tua cosa principale.

In tutto, la poesia consisteva dì 21 versi che spiegavano come manipolare l'equazione fino a quando essa svelasse i segreti delle sue soluzioni. La poesia terminava:

Questi trovai, et non con passi tardi
Nel mille cinquecentè, quatro e trenta
Con fondamenti ben sald'è gagliardi
Nella citta dal mar'intorno centa.

Il sollievo di Cardano fu palpabile: già gli sembrava che l'arcano si dipanasse ai suoi occhi. Ma quanto più l'uno si illuminava, tanto più grande si faceva la sensazione di disagio dell'altro. Tartaglia iniziava a maledire se stesso per aver divulgato la sua grande scoperta, la formula che gli avrebbe potuto aprire la vìa verso le formule per tutte le equazioni. Non si fidava di Cardano. Invece di cavalcare sino a Vigevano, Tartaglia rivolse il suo cavallo verso Venezia e se ne tornò a casa. Strada facendo, sentiva la rabbia montargli. Cominciava a rendersi conto di come Cardano, adescandolo con la prospettiva di trovare un mecenate, fosse riuscito a circuirlo estorcendogli l'ambita formula. Prima di aver raggiunto Venezia, si sentiva totalmente certo che fosse solo questione di tempo prima che Cardano rompesse la promessa e pubblicasse la sua scoperta. Quando l'anno successivo furono pubblicati due nuovi libri di Cardano, Tartaglia temette che Ì suoi più cupi timori fossero in procinto di realizzarsi. Ma, sfogliando quei libri, non trovò nulla che accennasse alla sua soluzione della cubica. Nondimeno, colse l'opportunità per schernire il contributo di Cardano.

Quest'ultimo, nonostante il suo carattere alquanto odioso, rimase fedele alla parola data e mantenne il segreto sulla formula di Tartaglia. O quasi. Non riuscì a trattenersi dal confidarsi con Il suo migliore allievo, Lodovico Ferrari. Ferrari era stato in origine servitore di Cardano, ma, quando questi si rese conto che quel ragazzo di quattordici anni sapeva leggere, lo promosse a suo segretario personale. Con il passare del tempo, Ferrari andava imbevendosi delle idee che Cardano condivideva con lui. Ora che Ì due passavano insieme gran parte del tempo, fu del tutto naturale che Cardano discutesse col segretario della poesia di Tartaglia.

Decifrando a poco a poco il significato dei versi, Cardano iniziò ad afferrare Ìl metodo. Il guaio era che, quando tentava di applicarlo a certe equazioni, accadeva qualcosa di alquanto preoccupante. Talvolta, a metà della poesia di Tartaglia, si imponeva il calcolo della radice quadrata di un numero negativo. Cardano non conosceva alcun numero il cui quadrato fosse negativo, e non sapeva quindi che pesci pigliare. L'antica formula per le equazioni quadratiche, o di secondo grado, dava qualche volta radici quadrate dì numeri negativi, ma quando ciò accadeva, se ne usciva affermando semplicemente che l'equazione era insolubile. Vi era qualcosa di alquanto strano nel procedimento di Tartaglia per la risoluzione della cubica. Se si ignorava il fatto di non conoscere la radice quadrata di un numero negativo, alla fine della poesia queste misteriose radici quadrate erano scomparse, dopo essersi in qualche modo annullate a vicenda, per lasciare il posto a un numero perfettamente normale che avrebbe risolto l'equazione. C'era forse della magia in quella poesia? L'aveva interpretata correttamente?

Il 4 agosto del 1539, scrisse a Tartaglia in merito allo strano problema che stava rilevando. Non è chiaro se Tartaglia sia stato o meno illuminante sulla faccenda, ma certamente colse al volo l'opportunità di depistare Cardano: «Dico in risposta che Voi non siete giunto a dominare il vero modo per risolvere problemi di questo tipo, e mi spingerei addirittura a dire che i Vostri metodi siano del tutto falsi».

Comunque, le peggiori paure di Tartaglia circa la divulgazione della sua formula erano in procinto di materializzarsi. Il giovane Ferrari, appena diciottenne, aveva scoperto come usare la soluzione della cubica per produrre una formula risolutiva per equazioni che comprendessero un termine di quarto grado x4, o equazioni quartiche. Cardano fu così impressionato dalla scoperta del giovane che si dimise dalla sua carica alla fondazione Piatti di Milano per fare posto al giovane prodigio. Il solo problema era che, data la necessità di utilizzare la soluzione di Tartaglia nel corso del procedimento, non vi era modo di rendere pubblica la scoperta di Ferrari. Pur avendo già parzialmente infranto la sua promessa nel momento in cui aveva discusso con Ferrari della formula di Tartaglia, Cardano si sentiva comunque impegnato sul proprio onore a non pubblicare nulla. Ma come avrebbe potuto negare al proprio allievo i giusti onori che questi meritava?

Cardano pensò bene di recarsi a Bologna, per chiedere al suo collega Annibale della Nave un consiglio su come affrontare il dilemma. Della Nave sì rivelò la persona più giusta. Possedeva infatti un vecchio taccuino malridotto appartenuto a suo suocero Scipione del Ferro, il matematico che per primo aveva risolto una cubica e, sul letto di morte, aveva affidato la sua scoperta all'allievo Fior. Quando Cardano e Ferrari sfogliarono il taccuino, riconobbero la formula che Tartaglia aveva scoperto indipendentemente alcuni anni più tardi. Ecco la via dì uscita cercata. Cardano poteva legittimamente pubblicare la formula di del Ferro senza per questo rompere la promessa fatta a Tartaglia. Nella grande opera, Ars magna, con cui finalmente comunica al mondo la soluzione per la cubica e per la quartica, Cardano esprime i dovuti riconoscimenti a Tartaglia per la sua scoperta indipendente. Ma è il contributo di del Ferro a ricevere le lodi più altisonanti: «Quest'arte sorpassa tutta la sottigliezza umana e la perspicacia del talento dei mortali ed è da considerare un vero dono del Ciclo».

Non sorprende che il riconoscimento di Cardano non sia stato accolto da Tartaglia come una ricompensa sufficiente. Non aveva pubblicato nulla sulla sua scoperta della formula, e ora veniva battuto nella soluzione dell'equazione di quarto grado da un diciottenne venuto dal nulla. Era davvero intollerabile.

Nel vano tentativo di riscattarsi, Tartaglia scrisse la propria versione di tutta la storia, comprendente una sfilza di attacchi velenosi a Cardano. Avendo pestato molti calli durante le sue ambiziose scalate, Cardano era talmente abituato agli insulti che non ne rimase per nulla scosso, ma il suo giovane allievo Ferrari si sentì obbligato a difendere l'onore del maestro. Scrisse a Tartaglia con toni di scherno e lo sfidò a pubblica tenzone. Una contesa con un matematico relativamente sconosciuto non avrebbbe per nulla giovato alla reputazione di Tartaglia. Battere Cardano in un combattimento matematico in campo aperto sarebbe stato tutt'altra cosa. Tartaglia rispose allora a Ferrari, tentando di trascinare Cardano nella mischia.

Vi fu un fitto fioccare dì lettere tra Venezia e Milano. Il loro contenuto fu reso pubblico, poiché entrambi tentavano di prevalere nel dibattito agli occhi dell'intera comunità dei matematici. Gli insulti erano inframmezzati da problemi di matematica, che i due si sottoponevano a vicenda a mo' dì sfida. La varietà dei quesitì posti da Ferrari a Tartaglia rivela che la sua soluzione alla quartica non era un fuoco di paglia: il giovane aveva la stoffa di un pensatore profondo e filosofìa). Oltre alle equazioni cubiche, Ferrari sfidava Tartaglia a risolvere problemi di geometria «dimostrando tutto», a spiegare brani dì Platone e anche a discutere del problema filosofico Ìnsito nella proposizione «l'unità è un numero».

Nonostante ìl suo disprezzo per Ferrari, Tartaglia non potè resistere alla sfida di risolvere problemi che gli erano stati inviati, e gradualmente si lasciò trascinare in una vasta corrispondenza. Le discussioni filosonche su Fiatone e il concetto di numero furono rifiutate da Tartaglia come questioni indegne di un matematico: un atteggiamento non infrequente anche tra molti matematici moderni, disdegnosi di chi dedica il proprio tempo alla riflessione filosofica sulla loro materia. In risposta alle sfide matematiche di Ferrari, Tartaglia spesso insinuava che il rivale tentasse di estorcergli risposte a quesiti che non sapeva risolvere, nella speranza di rubare qualcun'altra delle sue idee. «E una gran vergogna proporre un tale problema in pubblico e non sapere come risolverlo.»

Ferrari rispondeva biasimando il fatto che Tartaglia omettesse la dimostrazione quando presentava le sue soluzioni: «Come un falsario, voi omettete la parte importante, in particolare ignorate quelle due parole "provando tutto"». E la riluttanza di Tartaglia a discutere di più profondi argomenti di interesse matematico era da lui bollata come caratteristica di chi «passa tutto il suo tempo su radici, quinte potenze, cubi e altri gingilli. Se stesse a me ricompensarvi, prendendo esempio dall'usanza di Alessandro, vi caricherei talmente di radici e ravanelli che non potreste più mangiare nient'altro in tutta la vostra vita». Si arrivò al dunque quando a Tartaglia fu offerta una prestigiosa posizione all'università di Brescia, sua città natale. L'offerta era però subordinata al suo successo in un confronto pubblico con un altro matematico scelto dalla facoltà. Senza dubbio ebbe un tuffo al cuore quando ricevette una lettera che lo invitava a recarsi a Milano per competere contro Ferrari. Se voleva ottenere ìl lucroso incarico che da tre anni stava inseguendo, avrebbe dovuto quindi accantonare il proprio orgoglio e competere contro il pupillo di Cardano. Comunque, non credeva che Ferrari disponesse davvero di una preparazione matematica sufficiente a opporgli grande resistenza.

Il mattino del 10 agosto 1548, i due studiosi si incontrarono nei magnifici giardini di uno dei monasteri francescani di Milano. La corrispondenza pubblica che era stata scambiata nei due anni precedenti aveva fatto sì che si generasse un notevole interesse sull'esito del confronto, e Ì giardini erano affollati da spettatori, tra cui un buon numero di celebrità milanesi, desiderose dì veder scorrere sangue matematico. Per Tartaglia, le competizioni come queste erano inviti a nozze, e contava di poter archiviare agevolmente la sfida di Ferrari. Mentre Tartaglia aveva con sé solo il fratello a sostenerlo, Ferrari era spalleggiato da un'intera folla dì amici.

All'incrociare delle armi, Tartaglia iniziò a capire che Ferrari non bluffava quando diceva di conoscere le risposte a tutti i problemi che gli aveva proposto. Come fu evidente, Ferrari aveva un controllo di gran lunga maggiore delle formule per risolvere le equazioni dì terzo e di quarto grado. Tartaglia si aggrappava alla poesia che aveva composto per richiamare alla mente il proprio metodo, ma Ferrari era semplicemente troppo rapido per lui. Tartaglia non trovò di meglio che sparare frecciate all'indirizzo dello sfidante, criticando i suoi metodi, nel tentativo di deconcentrarlo. Al tramonto, il bresciano si rese conto di aver perso la battaglia. Ferrari continuava a portare a segno colpi sempre più efficaci, rivelando quanto fosse superficiale la maestria di Tartaglia nella risoluzione dì equazioni rispetto alla capacità del giovane di rigirare le formule a proprio vantaggio.

Quando il pubblico si ritrovò ìl giorno successivo per assistere alla seconda tornata di combattimento, fu informato che Tartaglia era partito per Venezia, preferendo sottrarsi alla completa umiliazione. Ferrari fu dichiarato vincitore e tempestato da offerte di impiego, tra cui la richiesta da parte dell'imperatore Carlo V (il cui nonno aveva scacciato i mori dall'Alhambra) di far da tutore a suo figlio. Ferrari preferì privilegiare il proprio tornaconto economico e divenne così assessore alle tasse del governatorato di Milano. Quanti matematici, da allora, sono stati sedotti dagli allettamenti della sicurezza borghese! Il bolognese si arricchì grazie alla sua formula per la risoluzione della quartica, ma morì a soli 43 anni dopo essere stato avvelenato con l'arsenico dalla propria sorella.

Tartaglia trascorse un anno a dare lezioni a Brescia, ma, dopo la sua ignominiosa sconfitta, l'università decise di non pagarlo, e l'offerta dell'incarico a Brescia fu revocata. Tartaglia fece fuoco e fiamme, ma, nonostante le numerose cause legali intentate, non riuscì a ottenere nulla dall'università per tutto il lavoro svolto. Umiliato e senza un quattrino, terminò i suoi giorni a Venezia.

Cardano, dal canto suo, non riuscì più a dedicarsi in modo serio alla matematica, distratto come fu da una serie di catastrofi familiari. Il suo figlio maggiore, Giambattista, aveva sposato segretamente "una donna indegna e svergognata", interessata soltanto a estorcere quanto più denaro possibile al ricco e famoso suocero. La relazione fra Ì coniugi iniziò presto a deteriorarsi, e la donna prese a insultare il marito in pubblico, dichiarando l'estraneità di lui al concepimento dei loro tre figli. Giambattista non resse l'onta, e uccise la moglie avvelenandola.

Al processo per uxoricidio, il giudice disse che avrebbe risparmiato Ìl patibolo a Giambattista se suo padre fosse riuscito a patteggiare una riconciliazione con i familiari della donna uccisa. Costoro però, avidi di denaro quanto la loro congiunta, fissarono un prezzo ben superiore a quanto Cardano fosse in grado di pagare e pertanto non riuscì a salvare il figlio, che fu torturato in prigione e poi giustiziato Ìl 13 aprile 1560.

Inoltre il suo figlio più giovane, che aveva ereditato la passione del padre per Ìl gioco, perse ogni suo avere e si ridusse a rubare denaro e gioielli al padre. Cardano denunciò il figlio alle autorità e lo fece esiliare.

Nella propria autobiografia, De vita propria, Cardano scrisse che le quattro grandi tragedie della sua vita erano state: il suo matrimonio, la tragica morte del figlio maggiore, lo spregevole comportamento del figlio minore e infine la prigionia. La quarta tragedia si riferisce al tempo passato nelle carceri dell'Inquisizione, verso la fine della sua vita, con l'accusa di eresìa. Aveva deliberatamente offeso la Chiesa nel tentativo di conquistarsi un posto nella storia, scrivendo un libro che lodava Nerone per avere tormentato i martiri, e osando compilare un oroscopo di Gesù. Ad assicurargli fama postuma non fu però la blasfemia, bensì il suo ruolo nella storia della risoluzione delle equazioni. Cardano morì il 21 settembre 1576. Qualcuno ha avanzato l'ipotesi di suicidio, non tanto per la disperazione indotta dalle pene sofferte, quanto per comprovare una sua predizione astrologica fatta alcuni anni prima sulla data del proprio trapasso.

(Tratto da "Il disordine perfetto - Murcus du Sautoy - 2007 Rizzoli)