Matematici

Gerolamo Cardano

La disputa tra Tartaglia e Cardano

 

Gerolamo Cardano

Tra Fibonacci e Pacioli, era avvenuto un fatto di notevole importanza. Nel 1453, le truppe del sultano Maometto avevano conquistato Costantinopoli. La caduta di quella che, per secoli, si era vantata di essere la «Città di Mezzo», perché si trovava a metà strada tra Roma e Baghdad, mise a diretto confronto il mondo occidentale e quello musulmano. L'avvenimento ebbe conseguenze inattese: centinaia di eruditi e traduttori bizantini si diedero alla fuga, portando con loro centinaia di opere greche il cui arrivo massiccio in Occidente cambiò il volto della cultura europea. I turchi divennero il nemico per eccellenza.

In un'opera di ricreazioni matematiche, genere nuovo per l'epoca, Nicolò Fontana detto Tartaglia propose il seguente problema: « Un vascello sul quale si trovano quindici turchi e quindici cristiani viene colpito da una tempesta e il pilota ordina di gettare fuori bordo la metà dei passeggeri. Per sceglierli, si procederà come segue: tutti i passeggeri verranno disposti in cerchio e, cominciando a contare a partire da un certo punto, ogni nono passeggero verrà gettato in mare». La domanda era: «In che modo si devono disporre i passeggeri perché solo i turchi siano designati dalla sorte per essere gettati in mare? » Per ironia della sorte, allo scopo di risolvere il problema, il comandante cristiano, tramite Tartaglia, doveva ricorrere all'algebra creata dagli arabi!

Tartaglia era interessato alla soluzione delle equazioni di terzo grado. Un'espressione ricorreva spesso nelle opere da lui consultate, «soluzione delle equazioni per radicali». Si trattava della ricerca di formule per la soluzione di un'equazione, ma non dì formule qualsiasi, bensì soltanto di quelle che utilizzavano le quattro operazioni e i radicali, ossia l'estrazione di radici quadrate, cubiche, eccetera, e quelle soltanto. Vale a dire, formule operative che permettevano un calcolo numerico efficace delle soluzioni]

Ci si erano già cimentati Omar al-Khayyàm, Sharaf ai-Din al-TusI e altri matematici arabi, ma senza successo. Avevano ottenuto soluzioni, certo, però unicamente per mezzo di costruzioni geometriche. Infine, Omar al-Khayyam aveva espresso l'augurio che i matematici del futuro riuscissero là dove lui aveva fallito, arrivando a risolvere le equazioni con «il solo calcolo», vale a dire «per radicali»... E fu proprio quello l'intento che si prefisse Tartaglia.

Dopo l'apprendistato solitario che gli aveva consentito d'imparare il resto dell'alfabeto, Tartaglia ne aveva fatta, di strada. Era sempre piccolo di statura, ma con una barba molto folta, che nascondeva quasi del tutto le cicatrici. Soltanto un orecchio molto attento sarebbe riuscito a distinguere qualche strascico della balbuzie nella sua pronuncia. Ormai celebre come saggio, non soltanto aveva lavorato sulle «opere di uomini defunti», come aveva scritto, ma le aveva anche tradotte. Euclide, Archimede...

Nell'opera di Pacioli, la chei araba, l'incognita, era diventata la cosa latina; da allora, l'algebra divenne nota come «l'arte della cosa». Il quadrato dell'incognita era chiamato censo, il cubo, cubo. L'equazione di secondo grado si scriveva, in lettere: censo et cose egual a numero, cioè: « un quadrato e delle cose danno come risultato un numero». L'equazione di terzo grado nella forma ridotta (senza incognita al quadrato) diventava: cubo et cose egual a numero, cioè: «un cubo più delle cose da come risultato un numero». E fu a quest'ultima equazione che i matematici italiani della scuola di Bologna, nel xvi secolo, dedicarono i loro sforzi, facendo per un secolo dell'Italia settentrionale una terra algebrica.

Il primo ad aprire una breccia era stato un professore di matematica di Bologna, Scipione del Ferro, che riuscì a trovare una particolare regola per la soluzione dell'equazione di terzo grado. Invece di pubblicarla, però, l'aveva tenuta segreta. Evidentemente era quello il punto che Grosrouvre voleva sottolineare: non era il solo a tenere per sé i risultati raggiunti, oltre naturalmente ai pitagorici, che avevano aperto la strada.

Scipione del Ferro, comunque, finì per confidare il suo metodo al genero, Annibale della Nave. Annibale non seppe custodire il segreto, e si confidò con un amico, Antonio Maria Fior, che a sua volta mantenne il silenzio fino alla morte di Scipione del Ferro, avvenuta nel 1526, ma poi, invece di rendere pubblico ciò che gli era stato confidato, cominciò a lanciare sfide «personali» ai matematici.

Tartaglia raccolse la sfida, e i due si confrontarono in un « duello algebrico ». Ciascuno depositò presso un notaio una lista di trenta problemi, insieme con una somma di denaro. Colui che, entro quaranta giorni, avesse risolto il maggior numero di problemi sarebbe stato dichiarato vincitore e avrebbe intascato il denaro. I trenta problemi di Fior erano noti. Uno diceva, per esempio: «Trovare un numero che, sommato alla sua radice cubica, dia come risultato sei»; un altro: «Due uomini vincono insieme cento ducati, ma la vincita del primo è pari alla radice cubica della parte che spetta al secondo »; e un altro ancora: « Un ebreo presta un capitale a condizione che alla fine dell'anno gli venga pagata come interesse la radice cubica del capitale. Alla fine dell'anno, l'ebreo riceve ottocento ducati, tra capitale e interessi. Qual era il capitale? » Tartaglia ce l'aveva con i turchi, Fior con gli ebrei...

Tutti i problemi di Fior mettevano in gioco equazioni di terzo grado, e Tartaglia li risolse in pochi giorni. Dal canto suo, invece, Fior non era riuscito a risolvere nessuno dei problemi proposti dall'avversario, e quindi aveva contestato i risultati. Proclamato vincitore, Tartaglia non aveva voluto accettare nulla da un avversario che si era rivelato un così pessimo giocatore e aveva perciò rifiutato il denaro. Ci si aspettava, tuttavia, che pubblicasse il metodo che gli aveva permesso di ottenere così facilmente il trionfo.

Fu allora che entrò in scena un medico di Milano, per la precisione un medico appassionato di matematica. Gerolamo Cardano era nato a Pavia nel 1501, nel periodo in cui la regione era ancora occupata dai francesi. Se Ruche poteva conoscere la sua vita, e per giunta con abbondanza di dettagli intimi, era perché Cardano, in età avanzata, aveva scritto De vita propria, una delle prime autobiografie della letteratura occidentale.

Cardano, a meno di un mese di età, era stato colpito dal vaiolo, ma, immerso in un bagno d'aceto, ne era guarito. A otto anni aveva avuto la dissenteria; a nove era ruzzolato dalle scale, cadendo in malo modo. Al momento della caduta, aveva in mano un grosso martello, che gli era sfuggito, colpendolo al centro della fronte e aprendo una ferita che arrivava fino all'osso. Le disgrazie non arrivano mai sole: qualche tempo dopo, mentre stava tranquillamente seduto sulla soglia di casa, una pietra si era staccata dal tetto e gli era caduta sulla testa.

A diciotto anni era stato contagiato dalla peste. Aveva rischiato di annegare a Venezia e nel lago di Carda, si era fratturato l'anulare della mano destra a Bologna ed era stato azzannato due volte da un cane. Per colmo di sfortuna, si era scoperto impotente e, nonostante ripetuti tentativi con fanciulle di facili costumi, non aveva potuto risolvere la faccenda fino al momento del matrimonio. La prima notte di nozze, quando aveva ormai trentun anni, l'impotenza aveva cessato per sempre di affliggerlo; a trentacinque anni aveva preso a urinare spesso, fino a sessanta volte al giorno, e da quel disturbo non era mai guarito, a differenza di quanto era avvenuto per le emorroidi, che lo fecero soffrire molto fin quando, per miracolo, sparirono del tutto, all'età di cinquantanni. «A volte sono stato assalito dalla tentazione di uccidermi », diceva. « Penso che accada anche ad altri, che però non lo ammettono nelle loro opere.»

Tanto basta per la salute. E per quanto riguardava la famiglia? Il padre di Cardano, Fazio, era procuratore del fisco, medico, giurista, erudito; il tipico uomo del Rinascimento. Come Tartaglia, anche Fazio era balbuziente. Da bambino aveva ricevuto un colpo terribile, che lo aveva privato di alcuni frammenti di ossa del cranio; da allora, non aveva mai potuto indossare il cappello, ma si era rifatto con la vista. Infatti di notte ci vedeva come i gatti e non ebbe mai bisogno di occhiali, neanche da vecchio. Come me, pensò Ruche. Ma a me, per quanto ne so, non hanno tolto pezzetti d'osso dalla testa.

Quanto alla madre di Cardano, secondo il figlio era « grossa, bigotta e irascibile », ma « dotata di una memoria e di uno spirito davvero superiori». Fazio trattava il figlio come un servitore, esigendo che lo seguisse ovunque, per quanto risultasse faticoso per il bambino. Così padre e madre, che non andavano mai d'accordo, si trovavano concordi su una sola cosa: lo picchiavano a non finire. E ogni volta, confessa Cardano, lui se ne ammalava al punto di sfiorare la morte. Quando raggiunse i sette anni, i genitori decisero finalmente di smetterla.

Statura mediocre, piedi piccoli e larghi soprattutto all'altezza degli alluci, torace stretto, braccia molto gracili, dita della mano destra distanziate al punto che i chiromanti lo giudicavano stupido e balordo, mano sinistra bella, con le dita lunghe, affusolate e serrate; mento contrassegnato da una fossetta, labbro inferiore tumido e pendulo, occhi piccoli e quasi chiusi, a meno che non guardasse qualcosa con attenzione. Una macchiolina simile a una lenticchia sulla palpebra dell'occhio sinistro, testa ritratta all'indietro, come una sorta di piccola sfera; nella parte inferiore della gola, un piccolo tumore di forma globulare, duro e sporgente, ereditato dalla madre.

Nonostante tutti quei difetti fisici, la testa gli funzionava bene, anzi molto bene. A vent'anni insegnava Euclide all'università di Pavia, che lasciò per andare a Padova quando Francesco i decise di rifugiatisi per dare battaglia. Era il 1525. Il re di Francia, fatto prigioniero, dichiarò che tutto era perduto tranne l'onore. E dire che era stato lui a sferrare l'attacco: non era stato allora che aveva perso l'onore?

Gerolamo Cardano divenne medico e matematico come il padre, e come lui si dedicò all'insegnamento della matematica, ma era soprattutto medico. Esercitò tale professione prima in un villaggio, poi a Milano e Pavia, città nelle quali insegnò medicina. Un giorno i suoi nemici, che erano molti, inviarono una specie d'ispettore a controllare i suoi corsi. Pur senza essere entrato nella sala dove Cardano faceva lezione, l'ispettore scrisse nel rapporto: «Ho constatato che Gerolamo Cardano insegna non agli allievi, bensì ai banchi. È un uomo di scarsa moralità, sgradito a tutti, non privo di astuzia... »

Avendo conquistato una vasta fama come astrologo, Cardano dedicava gran parte del suo tempo a preparare oroscopi, come aveva fatto al-Khayyam quattro secoli prima. In due occasioni, nel corso della sua vita, bruciò una parte delle sue opere: la prima volta, nove libri, la seconda ben centoventiquattro. Dopo uno di quei roghi, comunque, gli rimasero una cinquantina di libri a stampa e altrettanti manoscritti.

Tra i libri sfuggiti al fuoco, c'era l'opera: Sul modo di preservare la salute. Cardano sapeva il fatto suo! E poi l'Ars magna, il suo capolavoro matematico. Le sue opere furono pubblicate non solo in Italia, ma anche a Basilea, Norimberga, Parigi. Sempre più celebre, Cardano era richiesto in tutta Europa, a Roma, a Lione, in Danimarca, in Scozia; fu pagato lautamente per recarsi a Edimburgo a curare un arcivescovo e, lungo la via del ritomo, passando da Londra, ne approfittò per tracciare l'oroscopo di Edoardo VI, il giovane figlio di Enrico VIII e di Jane Seymour, salito sul trono a nove anni. Il sovrano andava per i sedici anni e lesse con gioia l'oroscopo di Cardano, che gli prediceva una lunga vita, «ben più lunga della media dei suoi contemporanei».

Cardano era appena arrivato in Italia quando apprese la notìzia della morte di Edoardo vi: subissato di sberleffi da parte dei detrattori, non si smontò affatto, invocando come scusante alcuni errori di calcolo, il che era ancor più sorprendente per un matematico. Decise di rifare daccapo i calcoli e scoprì finalmente che... Edoardo vi «aveva avuto ragione a morire come aveva fatto. La sua morte, avvenuta un momento prima o un momento dopo, non avrebbe rispettato le regole». Questa sì che è arte!

Cardano ebbe due figli e una figlia. Con la figlia, le cose andarono bene, ma con i figli maschi... Il primogenito, Giovanni Battista, era il suo prediletto, ma era anche lui di salute fragile. A quattro anni, a causa della mancanza di cure da parte della balia, divenne sordo dall'orecchio destro; eppure riuscì lo stesso a studiare musica, diventando un musicista di vaglia. Come il padre, abbracciò la professione di medico, ma, pur non essendo del tutto impotente, com'era stato il padre, non riusciva a portare la moglie alla temperatura giusta, e lei lo tradì in continuazione, fin quando lui non le fece mangiare un certo dolce. Accadde così che fosse condannato a morte per avvelenamento e decapitato, all'età di ventisei anni. Quella fu la grande tragedia della vita di Cardano; ma aveva un altro figlio, per sua sfortuna. Aldo, il figlio cadetto, era estremamente violento; non faceva che scappare di casa e commettere furti. Poi, tornato dal padre, gli faceva scenate terribili. Cardano finì per averne paura, al punto di scacciarlo di casa e diseredarlo. A chi gli chiedeva come facesse, lui così saggio, ad avere figli così folli, rispondeva: «Perché non sono tanto saggio quanto loro sono folli».

Con l'aiuto di uno studente che faceva da segretario a Cardano, Aldo s'introdusse in casa del padre, forzò un cofanetto e rubò Foro e le pietre preziose che vi trovò. I ladri, però, non andarono lontano. Catturati e giudicati, furono condannati: Aldo, all'esilio e il suo complice, alle galere. Aldo decise di vendicarsi e, dal carcere, inviò una lettera al Sant'Uffizio a Roma, la terribile Inquisizione. In quella lettera, denunciava il padre. Cardano fu immediatamente imprigionato. L'Inquisizione gli ordinò di abiurare gli errori contenuti nelle sue opere e di rinunciare a insegnarli. Cardano sottoscrisse l'abiura e fu radiato dall'università.

Trent'anni dopo, nel 1600, lo stesso Sant'Uffizio condannerà Giordano Bruno al rogo, e trentatré anni più tardi, nel 1633, sempre lo stesso Sant'Uffizio intenterà a Galileo Galilei un processo che nei secoli a venire non contribuirà di certo ad accreditare un'immagine della Chiesa di Roma ispirata a mitezza e clemenza.

Quali crimini aveva commesso Gerolamo Cardano per attirarsi i fulmini dì quell'istituzione criminale? Anzitutto aveva scritto che il cristianesimo non era veramente superiore alle altre religioni monoteiste; poi che era contrario al dogma dell'immortalità dell'anima e, infine, aveva commesso il crimine supremo: nel Commento a Tolomeo aveva tracciato l'oroscopo nientemeno che di... Gesù Cristo, come se fosse stato un essere umano qual-siasi! Non si sa se avesse previsto quello che gli era accaduto millecinquecento anni prima in Galilea.

Una celebre frase di Cardano: « Quando stai per lavarti, prepara anzitutto la salvietta per asciugarti».

In quella frase era racchiuso tutto l'uomo. E il suo rapporto Con Tartaglia? E con la soluzione delle equazioni di terzo grado? Dopo aver appreso della magistrale prestazione di Tartaglia, Cardano si mise in contatto con lui, sollecitandolo per anni a comunicargli le sue formule; ma Tartaglia rifiutò. Cardano diventava sempre più insistente: lusinghe, preghiere, inganni, per-sino minacce. Furioso per la tenacia di quel rifiuto, finì per scrivergli una lettera in cui gli dava del presuntuoso, accusandolo di credersi « un personaggio importante, che si sefltiva arrivato in vetta alla montagna, mentre era ancora nella valle».

Subito dopo, cambiando linea di condotta, Cardano si raddolcì e riuscì a diventare amico di Tartaglia, che cominciò a confidargli il testo di alcuni dei problemi che aveva proposto a Fior. Ma continuò a tenere per sé gli altri segreti, per esempio: « Suddividere un segmento di lunghezza data in tre segmenti con i quali sia possibile costruire un triangolo rettangolo », oppure: «Una botte è piena di vino puro. Ogni giorno se ne attingono due secchi, che vengono sostituiti con due secchi d'acqua. In capo a sei giorni, la botte è piena per metà d'acqua e per metà di vino. Qua! è la sua capacità? »

Nel 1537, Tartaglia pubblicò la Nova scientia, e tutti si precipitarono a leggere il libro per scoprirvi le fantastiche formule e i procedimenti impiegati per la soluzione delle equazioni. Invece, non una parola sull'argomento: l'opera non conteneva nessun riferimento all'algebra. E qual era l'argomento trattato dallo scampato al massacro nella chiesa di Brescia? La fabbricazione degli esplosivi. E poi? La traiettoria delle palle di cannone. Un problema lo aveva appassionato più di ogni altro: quale rapporto esiste tra la portata di un proiettile e l'angolazione con la quale viene lanciato? Interrogativo al quale Tartaglia diede due risposte: 1) La traiettoria di un proiettile non è mai rettilinea, ma, più è veloce, meno la traiettoria è curva. 2) La portata massima di un cannone corrisponde a un angolo di tiro di quarantacinque gradi.

Grazie a quelle due scoperte, Tartaglia fondò una nuova scienza, detta « balistica », ossia la scienza dei movimenti dei proiettili. D'ora in poi, gli spadaccini del conte de Foix avrebbero fatto bene a restare fuori della portata dei proiettili di Tartaglia. Visto che le formule continuavano a restare segrete, l'insistenza di Cardano aumentò, e parallelamente diminuì la resistenza di Tartaglia. Rendendosene conto, Cardano gli fece una promessa: « Se mi rivelerete le vostre scoperte, non solo non le pubblicherò mai, ma le annoterò in cifre per mio esclusivo uso personale, in modo che dopo la mia morte nessuno possa comprenderle ».

Un giorno di marzo del 1539, Tartaglia cedette. Cardano sentì il cuore battergli più forte e si sedette ad ascoltare. La voce dell'amico, nella quale si distinguevano i lievi strappi provocati dalla balbuzie, si levò per recitare:

Quando che il cubo con le cose appresso,
Se agguaglia a qualche numero discreto,
Trovami dui altri differenti in esso.

Da poi terrai questo per consueto
Che il lor prodotto sempre sia eguale
Al terzo cubo delle cose netto.

El residuo poi tuo generale
Detti lor lati cubi ben sottratti
Varrà la tua cosa principale.

Dopo al-Khayyam e le sue quartine, ecco Tartaglia e le sue terzine! Ruche non aveva mai sospettato che nelle acque della matematica navigassero tanti poeti. La poesia diceva: « Se vuoi risolvere l'equazione 'un cubo e delle cose danno come risultato un numero dato', trova due numeri la cui differenza sia il numero dato e il cui prodotto sia pari al cubo di un terzo delle cose. Allora la soluzione sarà la differenza tra le radici cubiche dei due numeri». Dunque: «x3 +ax = b»... Ah, era così semplice per i matematici!

Per la verità, non era tanto semplice neppure per i matematici.

Nonostante la poesia, Cardano non riuscì a risolvere le equazioni, e lo confessò a Tartaglia, insinuando che forse non aveva trovato davvero la soluzione. Tartaglia ribatte che l'errore era dovuto a Cardano stesso, il quale aveva interpretato male l'ultimo verso della seconda terzina, Al terzo cubo delle cose netto: non significava « il terzo del cubo », bensì « il cubo del terzo ».

Ed eccola, finalmente, la formula cercata invano da cinque secoli! L'auspicio di al-Khayyàm era stato esaudito. Ma solo per le equazioni di terzo grado.

Qualche tempo dopo la lettura di quella poesia, Cardano pubblicò l'Ars magna, la « Grande arte », e Tartaglia si affrettò a leggere l'opera dell'amico. E che cosa vi trovò? Il suo metodo di risoluzione dell'equazione di terzo grado descritto per filo e per segno! Cardano lo aveva ingannato. Nel suo libro, descrivendo l'inganno e la tristezza che gli aveva causato, Tartaglia scrisse: « Non provo più affetto per Cardano ». Poi aggiunse: « Quello che tu non voi che si sappia, noi dire ad alcuno ». In margine a quel passo, Grosrouvre aveva segnato ben due crocette. A nessuno! Grosrouvre aveva fatto suo il consiglio di Tartaglia, ed ecco perché non gli aveva inviato le dimostrazioni.

I quesiti si chiudevano senza fare il minimo cenno al grande trattato che Tartaglia avrebbe dovuto pubblicare. La pubblicazione di quella grande opera in sei parti, intitolata General trattato, ebbe inizio solo undici anni dopo. Le prime quattro sezioni comparvero nel 1556, dopodiché il tipografo diede alle stampe la quinta parte. Prima che l'opera uscisse, Tartaglia morì. La sesta parte, proprio quella che doveva trattare della soluzione delle equazioni di terzo grado, non fu mai pubblicata e non se n'è mai trovata traccia.

Dunque il balbuziente era stato perseguitato dalla malasorte sino alla fine. Pensò subito: Se Cardano non avesse pubblicato le sue formule contro la volontà di Tartaglia, quelle sarebbero scomparse con lui, e noi non le conosceremmo affatto. Le formule di Tartaglia sono tra le più celebri dell'algebra, pur essendo note sotto il nome di «formule di Cardano ». Ma quali erano?

Ardeva dal desiderio di leggerle, ma, quando le vide, restò deluso. Sì aspettava formule che avessero il fascino dì quelle alle quali lo avevano abituato i suoi studi ormai lontani, con tante x e y, a e b e un'infinità di segni che attestassero che ci si trovava sul terreno della matematica; e invece scoprì qualcosa che somigliava a un testo di letteratura. Neanche un misero « = », ma solo degli Aeq che stavano per aequalis, delle P per « più » e così via. Nell'Ars magna, Cardano si era spinto oltre Tartaglia, e aveva fornito non soltanto le formule di quest'ultimo, che in effetti valevano solo per certe equazioni particolari, ma anche altre. Così, fu il primo a presentare la soluzione completa dell'equazione di terzo grado: grazie a lui divenne noto che l'equazione di terzo grado si poteva risolvere per radicali. In quello stesso libro, però, era esposto un altro risultato formidabile: anche l'equazione di quarto grado si poteva risolvere con i radicali. La scoperta non era dovuta né a Tartaglia né a Cardano, nonostante i loro sforzi, bensì a Ludovico Ferrari.

Ferrari era stato ingaggiato come segretario da Cardano all'età di quindici anni. Si dice che fosse un ragazzo roseo e lindo, con la voce sommessa, il viso sereno e un nasino grazioso, amante dei piaceri, dotato di grande intelligenza, ma... con un carattere infernale.

Di fronte all'interesse manifestato dal suo segretario, Cardano lo autorizzò a seguire i suoi corsi. Ludovico li frequentò con tanta diligenza da superare il maestro, verso il quale sembrava provare un autentico affetto: fu per lui il figlio devoto che tanto gli era mancato. Prendendo le parti di Cardano, Ludovico si schierò in prima linea nello scontro che lo oppose a Tartaglia. Tra i due si susseguirono terribili dispute, dalle quali Ferrari uscì vincitore; giacché riusciva in tutto ciò che intraprendeva, si ritrovò ben presto ricco.

Schiavo dei piaceri, conduceva una vita dissoluta: la sorella fu l'unica persona cui dimostrò un sincero affetto, Morì a quarantatré anni, avvelenato, si dice, proprio dalla sorella. Altri, invece, sostennero che fosse stato l'amante di lei a somministrargli il veleno. Un marito che avvelena la moglie, una sorella che avvelena il fratello! La soluzione delle equazioni algebriche per radicali è disseminata di morti tragiche. E anche vero che tutto questo avveniva in pieno Rinascimento nell'Italia settentrionale, e che i Borgia avevano effìcacemente divulgato l'uso del veleno.

Terzo, quarto grado... ormai il problema era stato risolto con successo. Sarebbe stato lo stesso per l'equazione di quinto grado? Si poteva risolvere anche questa per radicali, come le precedenti? E anche quel percorso sarebbe stato costellato di tragedie?

(Tratto da "Il teorema del Pappagallo - Denis Guedj - 2003 TEA)