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Quello che resta

Racconto ottavo classificato al concorso Space Prophecies Episodio IX

Data di pubblicazione: 16-06-2013

Presentazione: Quello che resta è il seguito di Una vita a metà (Star Trek TNG 4x22), l'episodio in cui Lwaxana Troi incontra Timicin, lo scienziato di Kaelon II che cerca di ravvivare il sole morente del suo pianeta con l'aiuto dell'equipaggio del capitano Picard. I due si innamorano, ma Lwaxana scopre che, una volta tornato a casa, Timicin dovrà affrontare la Risoluzione, il suicidio rituale a cui si sottopongono i membri della sua specie al raggiungimento dei sessant'anni. Lwaxana considera l'usanza una barbarie e fa di tutto per impedire a Timicin di subirla, finché Dara, la figlia dello scienziato, sale a bordo dell'Enterprise e lo convince a tornare a casa.

Lwaxana e Timicin
Lwaxana e Timicin, fonte: Memory Alpha - The Star Trek Wiki

Lwaxana sbattè le palpebre e mise a fuoco la stanza. Il gesto, collaudato in anni di trasferimenti, l'aiutò a riprendere contatto con la realtà dopo lo sballottamento delle molecole nel teletrasporto: lei e Timicin si tenevano ancora per mano, i gomiti sollevati e le dita intrecciate, come quando erano partiti dall'Enterprise.
Ad attenderli, impettita dietro la consolle delle operazioni, c'era Dara. La capigliatura nera, acconciata a forma di scodella sopra uno chignon piazzato in cima alla testa, le conferiva un'aria severa. Teneva per mano il figlio, che torceva il braccio e piagnucolava: – Voglio andare dal nonno!
– Devi aspettare il completamento della procedura – lo esortò lei.
Il bambino non le diede retta: con uno strattone, si liberò dalla presa e corse verso il teletrasporto. Il tecnico, un giovanotto dalle macchie frontali appena accennate, in pantaloni neri e casacca arancione, con una manica grigia e una beige, tese il braccio e lo bloccò al volo, prima che andasse a sbattere contro il campo di forza che separava la zona d'attesa da quella d'arrivo. Lo restituì alla madre e tornò al suo posto. Abbassò lo sguardo sulla consolle e fece scorrere sui tasti la mano destra sollevata a mezz'aria, con l'indice teso, come se non sapesse quale premere.
Lwaxana voltò la testa e sorrise a Timicin. Con la coda dell'occhio, vide che la postazione dietro di lui era vuota. Fece spallucce e disse al compagno: – Forza, caro. La tua famiglia ci aspetta.
I due scesero dalla pedana senza slacciare le dita, come una coppia pronta a lanciarsi in un giro di valzer.
Quando arrivarono davanti al posto di controllo, il tecnico abbassò il campo di forza per farli passare.
– Nonno! Nonno! – gridò il bambino.
Timicin si piegò sulle ginocchia, tese le braccia in avanti e chiamò: – Ashar, vieni.
Questa volta Dara non lo trattenne.
Il bimbo si infilò nella galleria di stoffa e appoggiò la guancia sul petto del nonno, cingendogli il torace con i braccini. Timicin lo afferrò da sotto le ascelle, si raddrizzò e fece finta di lanciarlo per aria; abbassò le braccia e ripetè il gesto. A ogni sollevamento, Ashar gettava la testa all'indietro e rideva. Dopo quattro o cinque di quei lanci simulati, Timicin lo depose a terra.
– Ancora! – protestò il nipote.
– Lascia in pace il nonno e saluta l'ambasciatrice Troi – gli disse la madre.
Ashar sbuffò e sbattè i piedi sul pavimento. – Benvenuta, signora ambasciatrice – mugugnò a testa bassa e braccia conserte.
– Grazie, giovanotto – rispose compita lei.
Dara non aggiunse i suoi saluti a quelli del figlio.
La sua mente è più impenetrabile di quella dei mostriciattoli Ferengi, ma non mi serve la telepatia per sapere cosa pensa, si disse Lwaxana. La guardò dritta negli occhi e proclamò: – Stia tranquilla. Non sono venuta qui per causare problemi.
L'altra le lanciò un'occhiata in tralice e strinse le labbra. – Lo spero bene – replicò in tono più affilato del rasoio di un barbiere Boliano. – Per causa sua, a momenti scoppiava un incidente diplomatico.
Lwaxana sfoderò il più amichevole dei suoi sorrisi: – Ho dato la mia parola al capitano Picard che mi sarei comportata bene.
Dara non sembrava però soddisfatta: la scodella sulla sua testa ballonzolava, mossa dalla stizza della proprietaria.
– Ecco cosa succede a intromettersi negli affari degli altri – brontolò.
– Dara, ti prego. Non c'è bisogno di rivangare. La questione è risolta – la blandì Timicin. – Sono pronto ad affrontare la Risoluzione.
– Lo spero davvero, padre. Non avrei mai creduto che tu potessi rinnegare le nostre tradizioni. Mi hai fatto vergognare così tanto...
Il ronzio del teletrasporto mise fine alla querelle. Il tecnico si girò a guardarli con le labbra distese in un sorriso di sollievo. – Tutto a posto! – esclamò. – Sono riuscito a stabilizzare il flusso di materia.
Il signor Homn si materializzò sulla pedana. Con lui, arrivò anche il baule di Lwaxana.
Ashar spalancò gli occhi alla vista del gigante pallido e calvo, con la tunica bianca a sottili righe grigie, e andò a nascondersi dietro la madre. Si aggrappò ai suoi fianchi e fece capolino da un lato per guardare meglio lo strano visitatore.
– Non avere paura, piccolo – lo rassicurò Lwaxana. – Il signor Homn è il mio valletto.
– Lo perdoni, ambasciatrice – disse fredda Dara. – Non siamo abituati a ricevere visite. La vostra è un'eccezione.
A Lwaxana sembrò che la voce della donna rimarcasse l'ultima frase.
Ora che tutti i viaggiatori erano arrivati, lei prese Timicin sottobraccio, pronta ad andare. Subito, Ashar abbandonò il suo rifugio e corse ad afferrare la mano libera del nonno, come a rivendicare il diritto di precedenza sul suo affetto.
Con un gesto semicircolare del braccio, Dara indicò agli altri di seguirla e il terzetto si incamminò dietro di lei. Il signor Homn lo affiancò: silenzioso e impassibile, trasportava la voluminosa valigia come se non avesse alcun peso.

Dara separava gli abiti del padre: quelli da buttare finivano nel sacco del tritarifiuti, quelli ancora buoni in scatoloni di latta. Ogni volta che ne riempiva uno, lo chiudeva con uno scatto della cerniera e vi appiccicava sopra un'etichetta con la descrizione dettagliata del contenuto.
– Posso darle una mano? – chiese Lwaxana.
– Meglio di no – rispose asciutta lei.
Afferrò un indumento blu dal mucchio e lo sollevò davanti a sè, tenendolo per le maniche. Lo rigirò davanti e dietro e lo distese di nuovo. Alla fine, lo appallottolò e lo infilò nel sacco. – Io stessa faccio fatica a decidere quello che va e quello che resta. Come potrei spiegarlo a lei? – disse, quasi a giustificare il tono brusco di prima. – Quella era la casacca che mio padre indossava il giorno del mio matrimonio. Ci sono affezionata, ma è troppo vecchia per tenerla.
Non avendo nulla da fare, Lwaxana si mise a passeggiare su e giù per la stanza. Si avvicinò a una poltrona e fece per sedersi, ma poi si raddrizzò e riprese a ciondolare.
Sdraiati a pancia in giù sul tappeto, Homn e Ashar imbrattavano fogli di carta. Lwaxana si avvicinò per osservare i disegni. Lo scarabocchio di Homn era un'ellisse annerita dal tratteggio irregolare della matita con sopra un cerchio contornato da spuntoni e, sotto, quattro rettangoli allineati. Un targ, o forse un sehlat, ipotizzò lei. Il disegno di Ashar rappresentava la sua famiglia: il nonno a destra, la madre a sinistra e lui al centro che teneva per mano entrambi. Il bambino aveva calcato i pastelli sulle figurine, regalando alla copia di Dara, sfavillante in rosa e fucsia, un aspetto ben più affabile di quanto non lo avesse in realtà l'originale.
Un po' distante dal gruppetto c'era una dama in un sontuoso abito giallo-verde, con pendenti alle orecchie e folti capelli scuri. Lwaxana si riconobbe e si intenerì. – Davvero uno splendido disegno – commentò.
Ashar si puntellò sui gomiti e le chiese: – Tu sei la mia nuova nonna? Sposerai nonno Timicin?
Lei aprì e chiuse la bocca, tra il sorpreso e l'estasiato, in cerca di una risposta adeguata.
Dara lasciò cadere a terra i panni che teneva in mano, come se fosse stata punta da uno sciame di mosche cornute di Vayan. – Non essere sciocco, Ashar – sbottò. – Nonno Timicin compirà presto la sua Risoluzione. Ne abbiamo già parlato. Ti ho anche aiutato a scrivere la lettera d'addio. Non lo avrai dimenticato, spero?
Il bambino si tirò su e andò ad aprire un cassetto. Ne estrasse un foglio e tornò da Lwaxana. Glielo mostrò tutto orgoglioso e chiese: – Vuoi sentire la mia letterina?
Lei si accomodò in poltrona e Ashar le saltò sulle ginocchia; chinò il capo sulla pagina e recitò con enfasi: – Caro nonnino, è arrivato il giorno in cui dobbiamo lasciarci, ma io non sono triste perché ho imparato molto da te. Mi hai raccontato mille storie, insegnato a riconoscere le stelle e inventato per me tanti giochi nuovi. Custodirò nel cuore i momenti belli e sifigna... signafi...
– Dillo bene! Non vorrai farmi fare una brutta figura durante la cerimonia – lo redarguì la madre.
Il bimbo arricciò le labbra in un broncio dispiaciuto.
– Vuoi che continui io? – gli chiese Lwaxana.
Lui fece segno di sì con la testa e le porse il foglio.
– ...significativi trascorsi assieme e guarderò a te come esempio e punto di riferimento per la mia vita futura. Ti voglio bene, Ashar.
Lwaxana restituì la lettera al piccolo e lo aiutò a rimettersi in piedi. Si alzò dalla poltrona e si girò verso il muro per spalmare sulle guance, senza essere vista, le goccioline spuntate al canto mediale degli occhi. Quando ebbe finito, piroettò su se stessa e annunciò: – Vado da tuo padre.
Dara tese in avanti un braccio con il palmo all'insù, come a dire "accomodati".
Lwaxana raggiunse lo studio e si affacciò sulla soglia: seduto alla scrivania, Timicin osservava il DiPAD con aria sconfortata. Lei gli si avvicinò in punta di piedi e sbirciò lo schermo da sopra la sua spalla. – Qualcosa ti preoccupa, caro? – chiese con voce squillante.
Timicin sussultò: – Lwaxana, non ti ho sentito arrivare!
Toccò il display con la punta dell'indice e sospirò: – Non riuscirò mai a sistemare i dati in tempo.
– Geordi e Data sono efficienti. Avranno già trasmesso al tuo governo i risultati degli esperimenti effettuati a bordo dell’Enterprise.
Lui continuò a picchiettare il polpastrello sullo schermo, lo sfregava, lanciava documenti dal dispositivo alle memorie: – Lo so, ma ci sono quarant'anni di studi in questi appunti e soltanto un giorno per riordinarli.
– Avrei dovuto pensarci prima – si rammaricò, senza smettere di strapazzare il display – ma trovavo sempre una scusa per rimandare. Mi dicevo che c'era tempo e ora il tempo è scaduto.
Lwaxana gli mise una mano sulla spalla. La fece scorrere lungo il braccio del compagno e la fermò sul suo polso. Con una lieve pressione del pollice e indice allargati ad arco, glielo bloccò: – Hanno detto che possono fare a meno di te. Non devi più niente a nessuno.
– Anzi no – ritrattò subito dopo. – Devi qualcosa a me. Sull'Enterprise sono stata la tua animatrice. Ora tocca a te farmi da guida. Vorrei visitare la città. Ti prometto che non ti farò fare tardi per il tuo funerale.
Timicin rimase a bocca aperta. – Riesci sempre a farmi ridere! – esclamò.

Il sole morente di Kaelon II tramontava sulla città. Le strade si svuotavano, le attività rallentavano. Nuvole ardesia si allargavano sul cielo giallo zafferano come macchie di vino su una tovaglia pulita. Le vetrate del Palazzo della Risoluzione, che sino ad allora avevano riflesso la strada, le case, i veicoli e le piante, scurirono. La notte calava e, quando nell'edificio si accesero le luci, una fluorescenza diamantina si sparse tutto intorno alla grossa teca. La porta ad arco si aprì e la folla si precipitò all’interno. Dara, Ashar e Lwaxana si tennero in disparte ed entrarono soltanto quando fuori non ci fu più nessuno ad aspettare.
Due blocchi di poltrone allineate, separate da un passaggio centrale, e un podio in lacca nera erano l'unico arredamento della sala. Lwaxana notò l’assenza di fiori, ritratti, bandiere.
Il ministro delle scienze B'Tardat era già ritto dietro il palco, mentre la folla formicolava ancora in cerca del posto migliore. Tamburellò le dita sul leggio e tutti si affrettarono a sedersi.
Il suo discorso di saluto fu breve: – Oggi, il mio amico e mentore Timicin compie sessant'anni. Secondo le nostre tradizioni, si unirà a coloro che lo hanno preceduto nel rituale della Risoluzione. Gli siamo grati per sollevare la sua famiglia e il nostro popolo dall'onere di accudirlo in vecchiaia. Se qualcuno vuole parlare, si faccia avanti.
Una fila composta e silenziosa si formò a lato del palco. Dara e Ashar la scavalcarono e la madre aiutò il figlio a salire sullo sgabello che qualcuno si era premurato di nascondere dietro il podio: il bimbo recitò la sua letterina a memoria, senza inciampi.
Altri discorsi seguirono, ma dopo i primi Lwaxana smise di ascoltare: tutte quelle parole di elogio e ringraziamento, il cui vero significato era che Timicin aveva fatto il suo tempo e doveva andarsene, la riempivano di amarezza. Aveva lottato per sottrarre il compagno a una tradizione che considerava una barbarie, ma aveva perso. Guardandosi intorno, si accorse che non c'erano persone della sua età: lei si considerava ancora vitale e piacente, ma ora quei volti giovani e indifferenti la facevano sentire una sopravvissuta.
Quando nessuno ebbe più nulla da dire, tutti imboccarono un corridoio e andarono ad ammassarsi contro la vetrata semicircolare in fondo a esso. Lasciarono uno spazio centrale per Dara e il bambino e Lwaxana si sistemò accanto a loro. Nella stanza di fronte c'era un lettino con a fianco una piantana che reggeva una bottiglia, piena di liquido lattescente, da cui pendevano un tubicino e un ago.
Il brusio della folla cessò di colpo, quando la porticina interna dell'anfiteatro si aprì. Timicin varcò la soglia, accostò la porta e si guardò intorno, incerto. Lwaxana sventolò il braccio in segno di saluto.
– Non può vederla – ringhiò Dara. – La parete interna è oscurata per non disturbare il raccoglimento di chi si appresta a compiere la Risoluzione.
Timicin andò al lettino e sedette su di esso; tirò su la manica della casacca e inserì l'ago nella farfalla infilata nel suo braccio. Si sdraiò e ne ruotò le ali. A goccia a goccia, il livello del liquido nella bottiglia cominciò a scendere.
Le sonorità sinuose, vibranti e stridenti di un theremin invasero la stanza.
– È il Capriccio di Moog – sussultò Dara. – Il preferito di mio padre. Lui e mia madre si sono conosciuti a quel concerto.
Un profumo di acqua di rose si sparse nell’aria. La musica si impennò e la parete di fronte a Timicin si trasformò in uno schermo su cui scorrevano immagini stereoscopiche, accompagnate da odori e suoni: una nascita (profumo di talco e latte), la prima candelina (sapore di vaniglia e cioccolato), un bambino che giocava con due adulti in un parco ornato da arbusti carichi di corimbi bianchi (odore di lillà), la consegna dei diplomi (pizzicore di alcol e agrumi nel naso), uno sposalizio (effluvi di arrosti e vino), un'altra nascita, il premio per le scienze (fanfare), un altro sposalizio, un'altra nascita...
Le immagini si sovrapponevano, gli odori si mescolavano. Lwaxana era stordita da quel carosello impazzito che saturava i sensi e le impediva di concentrarsi su quanto stava accadendo.
– Ho vissuto tutto questo e non me ne sono neanche reso conto – sospirò Timicin. Chiuse gli occhi e si accasciò. Il braccio in cui era infilato l'ago penzolò fuori dal lettino.
La porticina si aprì di nuovo e nel vano apparvero alcuni assistenti in camice bianco. Uno di essi reggeva un telo dello stesso colore con cui coprì il corpo di Timicin. Mentre la parete ritornava opaca, gli uomini spinsero il letto fuori dalla stanza e la folla cominciò a sciamare.
– È finita – bisbigliò Dara.
– Dove portano il nonno? Voglio andare con lui! – strillò Ashar.
– Ne abbiamo già parlato. Ora usciamo – lo sollecitò la madre.
Il bambino appiccicò i palmi alla parete e si irrigidì contro di essa.
– Muoviti! – ordinò Dara. – Dobbiamo accompagnare la signora Troi alla partenza.
Ashar si coprì le orecchie con le mani. – Non ti sento. Non ti sento – cantilenò.
La madre gli afferrò il polso e lo costrinse a seguirla.
Lungo il tragitto, il bambino frignava, ma Dara non ebbe il coraggio di sgridarlo. A Lwaxana sembrò di vedere un luccichio nei suoi occhi.
Davanti al teletrasporto, Lwaxana si chinò per dare un bacio ad Ashar. Lui la respinse con un calcio: – Vattene!
Tirò la giacca della madre e chiese: – Adesso possiamo tornare dal nonno?
Un'espressione costernata si dipinse sul volto di Dara. Accarezzò la testa del figlio e sussurrò con dolcezza: – Il nonno non c'è più, gli abbiamo detto addio.
Fece un cenno al tecnico che prese per mano il bambino e lo portò alla consolle per mostrargli i pulsanti colorati.
– Mi dispiace – disse a Lwaxana. – Credevo che Ashar avesse capito.
Lei scrollò le spalle: – Non fa niente.
Dara la guardò di sotto in su: tutta la sua durezza sembrava svaporata. – Ha visto la proiezione. Mio padre se n'è andato e di lui non restano che immagini isolate, frammenti da cui decifrare una vita. Per Ashar non sarà facile capire chi era davvero suo nonno.
– Conta ciò che resta nel cuore – obiettò Lwaxana. – Non dovrà fare altro che trasmettergli i suoi ricordi e suo figlio imparerà a conoscere il nonno attraverso quelli.
– Sul mio pianeta, ci insegnano ad accettare la Risoluzione. Credevo di essere preparata, ma ora sento soltanto un gran vuoto ed è così... sbagliato – si lamentò Dara.
Lwaxana scosse la testa: – No, non lo è. Lasci affiorare i suoi sentimenti.
Un singulto scosse il petto dell'altra e lei l'accolse tra le braccia. – Coloro che ci lasciano non vanno mai via per davvero. Timicin ci è stato padre, amico e maestro e noi lo abbiamo amato. D'ora in avanti, sarà il nostro esempio e punto di riferimento, proprio come ha detto Ashar – le bisbigliò all'orecchio.
Lwaxana si sciolse dall'abbraccio, raggiunse il signor Homn sulla pedana e si girò a salutare i suoi ospiti. Il "grazie" sussurrato a fior di labbra da Dara fu l'ultima cosa che sentì, prima che le sue molecole cominciassero a volteggiare nel buffer del teletrasporto.



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