Presentazione: Star Trek ci ha abituato a
vite alternative che svaniscono in un lampo, quando l'universo
riprende il suo corso naturale, da "Una vita per ricordare" (The
inner light) a "Una vita da ricordare" (World enough and time).
Ma cosa pensano i protagonisti di quelle vite, quando esse
appaiono ancora così "reali"? Il racconto si colloca nel
domani di "Ieri, oggi e domani", l'episodio conclusivo di Star
Trek The Next Generation, quando l'Enterprise non è ancora
entrata in gioco e il destino dell'umanità non si è
ancora compiuto. È la storia d'amore tra il capitano
Picard e Beverly Crusher, vista con gli occhi di uno dei
protagonisti, una specie di Christmas Carol, sospesa tra i
ricordi del passato e i desideri per il futuro.
"Spegnere le luci."
Il capitano Picard poggiò il libro sul comodino, si
stiracchiò nel letto e attese che il computer eseguisse
l'ordine appena impartito. Gradatamente, le luci si fecero
soffuse e poi si spensero del tutto. Con gli occhi spalancati, il
capitano Picard fissava il buio e ripensava agli avvenimenti
recenti, alla sua tranquilla routine sconvolta dalla prospettiva
di un'avventura come ai vecchi tempi e si rese subito conto che
quella sarebbe stata una lunga notte priva di sonno, infestata
dai ricordi del passato.
Il capitano Picard, il capitano Beverly Picard. Aveva conservato
il nome per uno strano vezzo, - lei e Jean-Luc non erano
più sposati da anni - ma, anche dopo il loro divorzio,
Beverly non se l'era sentita di riprendere il nome Crusher,
né quello di famiglia, Howard. Riteneva un suo preciso
dovere far risuonare ancora il nome Picard nella galassia e nella
flotta stellare, per tutti gli anni che Jean-Luc aveva dedicato
all'esplorazione della prima e al servizio della seconda.
Conosceva bene Jean-Luc, come e forse più di se stessa. I
lunghi anni di comunanza e consuetudine le avevano insegnato che
non sapeva come comportarsi con i bambini, che non ne comprendeva
l'esigenza di gioco e che, per questo, preferiva starne a
distanza. Era un uomo sobrio, a tratti severo, che in fondo non
era mai stato un bambino lui stesso. Anche con Wesley le cose non
erano andate molto bene, all'inizio. Ricordava ancora quando, a
Farpoint, si era presentata sul ponte dell'Enterprise, per
prendervi servizio. Wesley era rimasto nel vano del
turboascensore e lei aveva immediatamente percepito l'imbarazzo
di Jean-Luc che, sulle prime, aveva cercato di mostrarsi
accondiscendente, forse perché rivedeva in suo figlio
quindicenne un giovane Jack e manifestava a quel modo il suo
risentimento, o senso di colpa, per quanto era accaduto, sotto il
suo comando, sulla Stargazer. Poi, però, si era
spazientito e aveva invitato seccamente Wesley ad allontanarsi.
Ma suo figlio era così speciale e dotato che Jean-Luc non
poteva non rimanerne impressionato. Per questo, lo aveva
successivamente accolto tra i membri dell'equipaggio,
considerandolo parte integrante di esso e trattandolo alla
stregua di un adulto. Tuttavia, era vero, Jean-Luc non amava i
bambini. Ma, proprio perché lo conosceva bene, Beverly
sapeva anche che, dopo la tragica scomparsa della sua famiglia
nel rogo di La Barre, una voglia nuova si era insinuata in lui,
un'urgenza quasi che, se non era un desiderio vero e proprio di
paternità, era quanto di più vicino gli potesse
andare. L'idea che non ci sarebbe mai più stato nessuno a
tramandare il nome dei Picard causava in Jean-Luc una lacerante
sensazione di perdita. Per questo Beverly aveva mantenuto il
nome. Per questo era fiera di portarlo.
Mille pensieri le affollavano la mente,
continuando a tenerla sveglia: la giornata era stata lunga, le
emozioni tante. Si stavano dirigendo verso il sistema Devron,
nella zona neutrale, dove, secondo Jean-Luc, era comparsa
un'anomalia spaziale. Almeno, questo era quanto aveva sostenuto,
presentandosi a bordo della sua nave assieme a Geordi e Data.
Beverly non sapeva se dare credito alle sue parole o ritenere che
si trattasse solo di una fantasia, innescata dalla sindrome
irumodica, ma se Jean-Luc si era messo in testa di avere la sua
missione, non sarebbe stata lei a negargliela. Almeno, per
attraversare quei territori a loro ostili, potevano contare
sull'aiuto di Worf, dopo che Will aveva negato il suo.
Si sentiva tesa e, per conciliare il sonno, pensò di
tentare qualcuno dei trucchi che si usano solitamente a questo
scopo: contare le pecore, concentrarsi su ogni singola parte del
corpo, lasciandola rilassare poco a poco. Ma, come in un racconto
di Dickens, i fantasmi del tempo passato vennero presto a
visitarla. Il ricordo che le sovveniva adesso era dolce e
struggente allo stesso tempo: era quello della prima volta in cui
aveva capito di essere innamorata di Jean-Luc. Era stato quando
gli aveva riscontrato il difetto nel lobo parietale. Allora, si
era sentita così colpevole per non averlo sottoposto prima
a un esame di livello quattro, nonostante sapesse che non era
quella la prassi comune e che, seppure lo avesse fatto, la
prognosi non sarebbe in alcun modo cambiata: per quanto si
conoscessero le cause della sindrome irumodica, una delle
possibili conseguenze di quel difetto, le cure restavano
solamente palliative e non ci sarebbe stato niente che lei
avrebbe potuto fare per frenare il decorso della malattia.
Così, si era comportata come il suo dovere le imponeva,
spiegando quante fossero le probabilità che il difetto
evolvesse nella sindrome conclamata, attingendo alle rare
statistiche e alle sue conoscenze mediche, e lasciando aperto un
varco alla speranza. Ma, in cuor suo provava una pena infinita al
pensiero che un uomo di quella levatura si sarebbe chiuso al
mondo e che nessuno avrebbe mai più potuto godere anche
solo della semplice gioia di conversare con lui. Jean-Luc glielo
aveva letto in faccia e aveva cercato di fugare le sue angosce,
poggiandole le mani sulle spalle e sorridendole. Era stato quello
l'istante perfetto, il momento magico in cui aveva capito che non
avrebbe più potuto fare a meno di quell'uomo e che,
comunque fossero andate le cose, tutto ciò che desiderava
era dividere la sua vita con lui.
Continuava a rigirarsi nel letto, l'insonnia la
tormentava. Beverly pensava che non occorreva essere un medico
per sapere che in quel caso era meglio distogliere l'attenzione,
dedicarsi ad altro, piuttosto che restare in attesa di un sonno
che tardava ad arrivare. Perciò si alzò, si diresse
verso il replicatore e chiese un latte caldo con un po' di noce
moscata. In quel momento, avrebbe tanto desiderato uno di quei
rimedi o infusi medicinali che sua nonna Felisa era solita
preparare, ma le formule non erano inserite nel replicatore. Sua
nonna conosceva l'arte di mescolare erbe e radici e aveva sempre
pronta una pozione contro ogni malanno. Come medico, Beverly
aveva dedicato tutta la sua vita alla scienza e non credeva ai
poteri magici delle erbe. Però, era di mente aperta,
sempre pronta a studiare medicine alternative e aliene, e
perciò disposta a concedere che ci fosse una sapienza
antica, o anche un fondamento scientifico, in quello che sua
nonna faceva, sebbene non escludesse che gli effetti prodigiosi
di quegli strani intrugli fossero dovuti più ai rituali e
all'affetto con cui Nana accompagnava la tazza fumante che alla
potenza delle erbe. Era quella la magia vera che, quando era
bambina, faceva sparire immediatamente non soltanto i dolori
fisici, ma anche la strana sensazione, che ogni volta le
procurava timore e sorpresa, - come se il suo cuore si
dondolasse sull'altalena - che provava quando il suo sguardo
incrociava quello di Stefan.
Sorseggiando la bevanda, Beverly si diresse al suo tavolo, si
sedette e accese l'oloproiettore posizionato sopra di esso. Le
foto del suo matrimonio erano sempre in memoria. Lei e Jean-Luc
si erano sposati a bordo dell'Enterprise, con una cerimonia
intima, cui avevano partecipato pochissime persone e che era
stata seguita da un piccolo rinfresco per l'equipaggio. Wesley
non vi aveva preso parte. Da quando suo figlio aveva lasciato la
nave, per seguire il viaggiatore nell'esplorazione dell'universo
e di altri piani dell'esistenza, i loro contatti si erano
allentati. Tuttavia, Beverly poteva giurare di averlo sentito
accanto a sé nell'istante stesso in cui aveva pronunciato
il suo: "Lo voglio."
Guardò l'ologramma e si rivide, radiosa, con l'abito di
seta blu e i fiori tra i capelli. Jean-Luc, accanto a lei, era
magnifico nella sua uniforme di gala bianca. Al loro fianco, i
due testimoni, Deanna per lei e Riker per il capitano. Si
concentrò sui loro volti. Pur non essendo una betazoide,
riusciva a leggere la rabbia repressa su quello di Will. Poco
prima del suo matrimonio, Deanna e Worf avevano preso a uscire
insieme e, a Will, la cosa, non era andata giù. Beverly,
che aveva condiviso l'intimità di Will durante le ore
concitate in cui la vita di Odan era appesa a un filo e lui si
era offerto di ospitare il simbionte, in attesa dell'arrivo del
trill predestinato, comprendeva la sua ambivalenza nei confronti
di Deanna. Da una parte c'era il desiderio di libertà, la
possibilità di avere una ragazza su ogni pianeta, senza
doversi legare a nessuna, dall'altra l'attaccamento a quell'amore
giovanile, che era stato talmente sorprendente, gioioso e
intenso, da indurlo a ripromettersi di coltivarlo, quando fosse
stato più avanti negli anni e la voglia di
stabilità avesse prevalso su quella di avventura. Quello
che Will si ostinava a ignorare è che, se non si è
pronti a cogliere il momento, quello poi passa per sempre.
Beverly sorrise tra sé e sé - un piccolo sorriso
un po' amaro - e tornò a guardare l'ologramma.
L'espressione di Deanna, accanto a lei, era invece serena. Al
tempo, Deanna le aveva confidato di essere decisa a esplorare
fino in fondo il suo nuovo sentimento per Worf, che,
nell'immagine, se ne stava un po' discosto, con la consueta
espressione corrucciata sul volto. Beverly lo aveva già
notato durante il suo matrimonio. Sapeva che era solo la maniera
klingon di contenere le emozioni, ma ricordava di avere pensato
che a Deanna sarebbe occorsa tutta la sua emotività di
betazoide per far funzionare quella relazione, visto che avrebbe
dovuto essere espansiva per entrambi. Al tempo stesso, Deanna e
Worf le erano sembrati così desiderosi di capire dove li
avrebbero condotti i loro sentimenti, che Beverly si era sentita
in dovere, subito dopo la cerimonia, di augurare loro la stessa
felicità che stava provando lei, quel giorno.
Per la luna di miele, lei e Jean-Luc avevano
scelto Risa. Una scelta convenzionale e niente affatto in linea
con il rigore di entrambi: era un pianeta più adatto alle
follie dei giovani che a una coppia matura. E inoltre lei si era
sentita anche un po' insicura, visto che era stato proprio su
Risa che Jean-Luc aveva incontrato Vash, condividendo con lei
molto più di un'avventura archeologica. Lo aveva saputo
solo quando Vash si era presentata, con tutta la sfrontatezza di
cui era capace, a bordo dell'Enterprise, per partecipare alla
conferenza annuale del Consiglio Archeologico della Federazione.
Allora, Beverly non era ancora disposta ad ammettere con se
stessa di provare attrazione per Jean-Luc, ma era rimasta
comunque molto sorpresa nello scoprire che lui e Vash avevano
avuto una storia. Non avrebbe mai creduto che Jean-Luc potesse
essere interessato a una donna così diversa da lui, -
così diversa da lei - poco rispettosa delle regole e
sempre pronta a trarre un vantaggio personale dagli eventi. Ma
forse, era proprio per il fatto di essere diametralmente opposti
che Jean-Luc si era sentito così irresistibilmente
attratto. Ed era anche quella la ragione per cui, tra tutte le
donne avute da Jean-Luc, Vash era l'unica che la rendeva
gelosa.
Appena arrivati su Risa, però, i suoi timori erano
evaporati al calore dei due soli che illuminavano il pianeta. La
loro felicità era stata perfetta. Di giorno, le lunghe
passeggiate sulla spiaggia di Suraya Bay - le loro mani
allacciate - le avevano dato modo di scoprire il lato
romantico di Jean-Luc. Di notte, dopo l'ubriacatura di suoni,
luci e profumi del Festival della Luna, le fiamme della passione
li avevano avvolti.
Il solo ricordo le accese il cuore e i sensi.
Ancora seduta al tavolo, - l'ologramma
dinanzi a lei - Beverly si stava chiedendo quando le cose tra
lei e Jean-Luc erano cambiate. Era iniziato tutto con la morte di
Deanna, avvenuta circa cinque anni dopo il loro matrimonio. La
navetta su cui Deanna stava viaggiando, di ritorno da una
conferenza, si era ritrovata nel bel mezzo di una tempesta ionica
di inusuale portata e aveva fatto naufragio sulla superficie di
un vicino pianeta di classe N, troppo inospitale per permettere
all'Enterprise, che si trovava distante da lì, di arrivare
in tempo a cavarla d'impaccio.
Alla notizia della scomparsa di Deanna, l'urlo di Worf si era
sentito risuonare lungo tutti i ponti: terribile, agghiacciante,
straziante. Ma anche gli altri ne avevano sofferto, come per
Tasha, molto più che per Tasha, e le cose non erano mai
più state le stesse. Era sceso su loro e tra loro uno
strano silenzio, un perenne imbarazzo, come se starsi vicini non
servisse altro che a perpetuare all'infinito quel dolore. Era
stato allora che avevano cominciato a pensare a carriere separate
e le loro strade si erano divise. Worf era stato il primo ad
abbandonarli. Il suo risentimento per quello che sarebbe potuto
succedere tra lui e Deanna, ma che non era successo, e l'orgoglio
di Will nel non ammettere che forse ne era lui il responsabile,
avevano reso la frattura tra i due insanabile. Worf era tornato
alla sua gente, a occupare il posto che a lui era riservato
nell'alto consiglio klingon.
Poi, era stata la volta di Geordi. Dopo il matrimonio con Leah,
si erano trasferiti su Rigel III, dove avrebbero cresciuto i loro
tre figli.
L'allontanamento di Worf e Geordi e la crisi del settimo anno
erano stati fatali per il suo matrimonio. Jean-Luc sentiva
approssimarsi la fine dei suoi viaggi spaziali e, difatti, di
lì a poco avrebbe abbandonato il comando dell'Enterprise
per un incarico d'ufficio, dove avrebbe scalato tutti i ranghi
della marina, fino a che gli sarebbe stato conferito il titolo
- puramente onorifico - di ambasciatore.
A Will era rimasto il comando dell'Enterprise. Realizzava
così il suo desiderio di restare sulla nave, per il quale
aveva rinunciato alle tante occasioni di carriera che gli erano
state prospettate durante gli anni. Data gli era rimasto accanto,
- avrebbe mantenuto per sempre il suo viso liscio di androide
- ma, nel suo tentativo di umanizzazione, aveva cercato di
somigliare il più possibile ai suoi compagni, ormai avanti
con gli anni. Per questo, quando si era finalmente deciso a
occupare la cattedra Lucasiana di matematica
dell'Università di Cambridge, la stessa cattedra che era
stata di Newton prima e di Hawking poi, aveva inalberato una
vistosa ciocca di capelli grigi, che secondo la sua domestica lo
faceva somigliare ad una donnola.
Quanto a lei, avrebbe seguito Jean-Luc ovunque, ma lui non
desiderava che la fine della sua carriera fosse anche la fine
della carriera di lei e perciò l'aveva spinta ad accettare
il comando della Pasteur, la nave che ormai guidava da ben
quindici anni. Così, Beverly si era ritrovata sola,
impegnata in missioni umanitarie e di soccorso come quella che
stava conducendo, prima che Jean-Luc arrivasse a bordo, a
requisire la sua nave.
Aveva cercato di tenersi in contatto con lui, ma i rapporti con
le altre razze viaggiavano sul filo del rasoio da un po' di tempo
a quella parte e le comunicazioni, che dovevano necessariamente
attraversare territori altrui, non sempre erano facili, né
veloci.
Lei e Jean-Luc si erano persi.
Si risvegliò al cinguettio degli uccelli.
Jean-Luc, accanto a lei nel letto, dormiva ancora. Beverly si
alzò, si diresse alla finestra e si affacciò:
l'odore del caprifoglio riempiva l'aria. Grossi fiori di ibisco
sporgevano tra i cespugli: la pioggia battente degli ultimi
giorni aveva reso le loro corolle enormi. La vendemmia sarebbe
stata buona quell'anno - pensò - e il vino avrebbe
acquistato quel delicato sapore fruttato che aveva reso le
cantine Picard famose in tutta la Francia.
Indossò una leggera vestaglia e uscì. La casa
padronale era stata ricostruita secondo il disegno originale,
grosse mura e alberi ombrosi li difendevano dall'approssimarsi
della calura estiva. I vigneti si stendevano a perdita d'occhio
dinanzi a lei, lunghi filari carichi di uve ancora acerbe.
Adesso, Beverly stava camminando lungo il selciato antistante la
casa. Indossava un largo cappello di paglia e guanti da
giardinaggio. Era sempre stata appassionata di etnobotanica e ora
coltivava varie specie di fiori, i cui semi aveva riportato con
sé dai suoi viaggi, nel suo giardino, dove nasturzi e
sterlizie si mescolavano a muktok e crystilie, in un'allegra
macchia di colore. Prese le forbici dalla cesta che portava
appesa al braccio, si diresse verso il cespuglio delle rose e ne
recise alcune.
Senza sapere come, si ritrovò in cucina con i fiori che
aveva appena raccolto a fare bella mostra di sé nel vaso,
al centro del tavolo. Aprì il frigo, prese il succo
d'arancia e ne riempì la brocca, mise i croissant a
scaldare nel forno e l'acqua per il tè nel bollitore.
Apparecchiò la tavola. Stava mettendo le foglie di
tè nella teiera, quando sentì uno sguardo poggiarsi
su di lei. Si girò e vide Jean-Luc che, nel vano della
porta, si stava stropicciando gli occhi ancora pieni di sonno: i
rumori della cucina, o forse i suoi profumi, lo avevano
svegliato. Sedettero a tavola, uno accanto all'altro, e si
apprestarono ad assaporare il loro petit déjeuner,
e, con quello, le piccole cose quotidiane, quelle che davano loro
una gioia immensa.
"Capitano in plancia", disse il computer.
Beverly si risvegliò di soprassalto, rendendosi conto di
essersi addormentata sulla seggiola, con il capo reclinato sul
tavolo e il rumore dell'oloproiettore in stand-by a fare da
sottofondo.
Si riassettò, chiese al replicatore un caffé nero,
caldo, senza zucchero, che bevve tutto di un fiato, ordinò
al computer di aprire la porta e si diresse rapida verso il
ponte, dove Jean-Luc, Geordi, Data e Worf la stavano aspettando.
Non sapeva ancora dove l'avrebbe condotta quell'avventura, e
neppure se c'era davvero un'avventura ad aspettarla, ma
capì che nei sogni che aveva appena fatto era scritto il
suo futuro.
Jean-Luc avrebbe compiuto la sua ultima missione, poi sarebbe
tornato alla sua quieta vita nei campi di La Barre e lei con lui.
Seguirlo contrastava con gli sforzi di tutta una vita e
significava buttare all'aria la sua carriera. Ma non le
importava.
Si trattava di dare retta ad un sogno che poteva essere fallace.
Ma non le importava.
Non era affatto ragionevole e Beverly se ne rendeva perfettamente
conto. Ma neppure di questo le importava, perché,
dopotutto, una donna non è responsabile dei propri
sogni.
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