Nella seconda metà dell'ottocento e i primi anni del novecento, la qualità della vita nella provincia di Grosseto non era certo delle migliori. I problemi maggiori erano costituiti dal latifondo, dalla carenza di comunicazioni interne, dalla malaria, dall'analfabetismo, dal brigantaggio. Buona parte del territorio pianeggiante era caratterizzata dalla presenza di immense paludi acquitrinose. L'economia si basava essenzialmente sull'agricoltura. L'industria, tranne che nel settore estrattivo, si presentava embrionale e debole.

Fortunato Ausini

La scarsità di collegamenti, la lontananza tra paese e paese e la gestione semi - feudale della terra contribuivano a determinare un pesante stato di degrado, di miseria. Uno dei flagelli che facevano della Maremma una terra inospitale era la malaria. I mesi più colpiti dalla malattia erano quelli tra luglio e ottobre. In estate quasi tutti gli abitanti delle basse località erano costretti a emigrare lasciando in balìa della ventura tutte le loro sostanze e i loro averi. Chi ne aveva la possibilità si trasferiva nei paesi di montagna per sfuggire alle febbri malariche. Era il singolare fenomeno della "estatura": per espressa disposizione di legge (dei Lorena prima e del Regno d'Italia dopo), tutti gli uffici pubblici venivano trasferiti nelle località di collina.

Le persone che correvano maggiori rischi di infezione erano quelle appartenenti ai ceti più deboli: il morbo colpiva perché trovava terreno fertile in alcune cause indirette, come il lavoro a cottimo faticosissimo, lo scarso nutrimento, i cattivi alloggi, ecc. In quel periodo la vita media nella provincia di Grosseto si aggirava intorno ai 23 anni.

Settimio Menichetti

Antonio Ranucci

Anche se le campagne antimalariche e le prime bonifiche avevano contribuito a migliorare la situazione, la diffusione del morbo agli inizi del 1900 era ancora notevole.
Malgrado tutto il bisogno di nutrirsi e nutrire la famiglia spingeva molti lavoratori stagionali nelle campagne maremmane, disposti a correre il rischio della malaria e della morte. Questi uomini vivevano in condizioni precarie: si nutrivano poco e male, vivevano in grotte o capanne e la loro sorte era legata agli "umori" del caporale che li aveva reclutati.
Venire licenziati significava vagare sbandati per la zona, morire di fame o commettere furti e delitti.
Nella seconda metà del diciannovesimo secolo, il brigantaggio era una delle piaghe più evidenti della provincia di Grosseto, anche se non raggiungeva proporzioni vaste come nell'Italia meridionale.
In Toscana i briganti erano dei solitari: ebbero degli allievi, imposero il loro stile, ma non ebbero mai l'ambizione di comandare piccoli eserciti. Era più che altro un modo di vivere, un mestiere senza giustificazioni di carattere politico.

Domenico Tiburzi

Il primo brigante che lasciò un segno del suo passaggio fu Enrico Stoppa che imperversò nell'orbetellano dal 1853 al 1863.
Gli altri nuclei più importanti erano quelli di Domenico Tiburzi e quello di Ausini, Albertini, Fioravanti, Ranucci, Settimio e Domenico Menichetti.
Ma chi erano i briganti, dei delinquenti comuni  o dei gentiluomini che rubavano ai ricchi per dare ai poveri?
L'onorevole Massari definì il fenomeno del brigantaggio come "la protesta selvaggia e brutale della miseria contro le antiche e secolari ingiustizie", legato all'esistenza delle grandi tenute maremmane e delle tensioni sociali.
Non a caso i più gravi episodi di violenza  si verificavano ai danni di guardiani, guardiacaccia, fattori, carabinieri e altri rappresentanti del potere padronale e dello Stato.


Molti banditi erano avvolti da un alone di leggenda e circondati dalla simpatia popolare.
In Maremma il brigantaggio era caratterizzato da una forma di tassa ai danni dei grandi proprietari che tenevano in pugno l'economia agricola della zona; per gli insolventi il ricatto era l'incendio, tipico mezzo di reazione antipadronale dei braccianti maremmani.
All'inizio del 1900, Antonio Magrini si distinse per le continue estorsioni perpetrate ai danni dei ricchi possidenti di Montieri e Roccastrada. "Non faceva sgarbi alla povera gente, Dicono che divenne bandito perché un giorno intese difendere il posto di lavoro di un povero, licenziato senza ragione, padre di cinque figli. Magrini non era cattivo, agiva con la forza perché la fame e la grande miseria della sua famiglia lo costrinsero a combattere la prepotenza e lo sfruttamento dei ricchi di allora".
Il più famoso brigante fu Domenico Tiburzi, divenuto una leggenda tra gli abitanti della provincia di Grosseto.
Tiburzi rappresenta l'esempio più evidente di una criminalità nata come risposta alle ingiustizie della società.
Dai grandi proprietari pretendeva la "tassa del brigantaggio" e in cambio garantiva protezione.
Tiburzi divenne un eroe popolare, il brigante buono e soccorrevole che uccideva "perché fosse rispettato il comando di non uccidere".
Eliminò, infatti, molti briganti che si erano distinti per la loro prepotenza e cattiveria, quando capì che non sarebbe riuscito con la persuasione a ridurli a più miti comportamenti.
Enrico Stoppa, invece, fu uno dei più spietati briganti della Maremma. Nella zona del suo paese natale (Talamone) si rese responsabile di una escalation di violenza di inaudita ferocia (omicidi, sequestri di persona estorsioni).
Il brigantaggio fu debellato alla fine del diciannovesimo secolo. Pochi briganti finirono ammanettati: preferirono cadere sotto il piombo dei carabinieri piuttosto che arrendersi e finire agli arresti.
Tratto da:
Angelo Russo. Dai briganti agli spacciatori. Le monnier. 1994.