Domenico Tiburzi

Nacque a Cellere il 28 maggio 1836 da Nicola e Lucia Attili.
A sedici anni fu incluso in un elenco di ricercati per furto; a diciannove subì un processo per lo stesso reato, ma venne assolto. A ventisette venne arrestato per aggressione e ferimento, poi rimesso in libertà per "desistenza della parte offesa". Si sposò con Veronica dell'Aia che gli dette due figli.
Nel 1867 uccise il guardiano del marchese Guglielmi, Angelo Del Bono. I testimoni tacquero per paura della vendetta.
Un anno dopo fu arrestato e condannato a 18 anni di galera da scontarsi del bagno penale di Corneto, presso Tarquinia.
Nel 1872 evase insieme a Domenico Annesi detto "l'Innamorato" e Antonio Nati detto "Tortorella".
Si rifugiò nelle macchie della zona castrense dove si unì ad altri latitanti.
In questo periodo si affacciò alla ribalta del brigantaggio Domenico Biagini di Farnese, con il quale Tiburzi strinse un duraturo patto di alleanza; i due compari iniziarono la loro attività criminale.
Si unirono a loro David Biscarini e Vincenzo Pastorini.
Il Biscarini divenne capo della banda, anche se per poco, dato che nel 1877 fu ucciso dai carabinieri.
Da questo momento le redini della banda passarono nelle mani di "Domenichino" che accolse nel gruppo Giuseppe Basili, detto "Basiletto".
Basili e Pastorini furono uccisi da Tiburzi, il primo perché commetteva continue estorsioni ai danni dei mercanti, il secondo perché lo metteva sempre in ridicolo raccontando della sua fuga in mutande dalla grotta nella quale fu colpito il Biscarini.
Sulla testa del brigante venne posta una grossa taglia; Antonio Vestri, boscaiolo, condusse i carabinieri presso il rifugio dei briganti, che riuscirono a fuggire. Dopo qualche tempo il boscaiolo era cadavere. E cadaveri erano anche i due asini con i quali trasportava la legna.
Nel 1888, Tiburzi uccise Raffaele Pecorelli, reo di aver rubato un maiale al nipote. Nel 1889 indusse Luciano Fioravanti (affinché fosse degno di entrare nelle grazie del "Livellatore") ad uccidere un certo Luigi Bettinelli, sgradito a Domenichino, perché arrecava continue molestie alle donne.
Il suo ultimo omicidio fu quello del fattore Raffaello Gabrielli, perché non aveva avvertito i briganti che ci sarebbe stata una perlustrazione dei carabinieri.
Nel 1893 il Governo, presieduto da Giovanni Giolitti, ordinò alle autorità di intervenire energicamente per la cattura di tutti i briganti.
150 uomini vennero inviati nel territorio fra Grosseto e Viterbo.
In breve tempo furono effettuati molti arresti che coinvolgevano persone di ogni ceto sociale: nobili, contadini, pastori, tutti accusati di associazione a delinquere per aver sottratto i latitanti alle perlustrazioni dei carabinieri.
Ma i più erano contadini e pastori, alle cui famiglie venne a mancare, con il loro arresto, l'unico mezzo di sostentamento.
Giolitti stesso si indignò per la situazione venutasi a creare in Maremma.
L'azione delle forze dell'ordine portò il brigantaggio maremmano, e Tiburzi in particolare, agli onori della popolarità nazionale e da quel momento la caccia al bandito divenne serrata e spietata.

Nel 1896, presso Capalbio, Tiburzi fu ucciso, nella sua impotenza di anziano, dai militari del capitano Michele Giacheri, ufficiale dotato di grande esperienza nel settore, dopo 24 anni di latitanza.
Il luogotenente di Domenichini, Luciano Fioravanti, più giovane di oltre vent'anni, riuscì a fuggire. Fu ucciso nel 1900 per mano di un amico traditore, Gaspero Mancini, che per derubarlo e assicurarsi la taglia posta sulla sua testa, lo freddò con un colpo a bruciapelo mentre dormiva.

 

Di Tiburzi si conoscono i delitti, quelli che risultano negli archivi. Ma nessun archivio riporta, di un brigante, le manifestazioni positive; altrimenti non si spiegherebbe l'ammirazione da parte di tanta gente del popolo.
E Tiburzi contò certamente per la popolazione di Capalbio che al prete intenzionato a negare la sepoltura del brigante in terra consacrata rispose con ostinazione, con fare sdegnato, fino a raggiungere il noto compromesso del "mezzo dentro e mezzo fuori dal piccolo cimitero".
Così, infatti, lo seppellirono, attraverso il muro di cinta del camposanto.

 

Alla morte di Domenichino il suo regno rimase tutto a disposizione della banda che più volte aveva cercato di stringere alleanza con lui, senza riuscirci.
I tre che la componevano, Settimio Menichetti, Settimio Albertini e Antonio Ranucci, erano troppo malvagi per poter aspirare all'amicizia del "Livellatore".

 

Tratto da:
Alfio Cavoli, Maremma Amara. Scipioni Ed.