La mia città.

  Rimini
  stemma
  storia
  riminesi
  RICETTE
  mappa
  cartoline

 

Ricette

La piada
La piada è un cibo semplice. Molto meno semplice è ricostruire la sua storia. Cominciamo dal nome. L'etimologia è incerta: la maggior parte degli studiosi collega il romagnolo "piè", "pièda" (poi italianizzato in "piada") al greco plakous, focaccia. Il termine, se non l'alimento, sarebbe quindi un relitto della dominazione bizantina. Il "testo" su cui viene cotta la piada deriva invece dal latino testa, coccio (i "testi" degni di questo nome sono infatti di terracotta refrattaria). Il che ci rimanda all'età romana. Al mondo latino sembra rinviare anche il famoso episodio del VII libro dell'Eneide: il segno celeste del sospirato approdo alla terra promessa - e dell'happy end - è proprio quella specie di piada che il pio Enea e i suoi affamati compagni sono costretti a sgranocchiarsi in mancanza di meglio. Chi non ha dubbi sulla latinità della piada è Giovanni Pascoli, che la chiama "pane r ude di Roma" e le dedica un verboso poemetto-ricetta.

Intendiamoci: come le numerose consorelle di cereali impastati e cotti su lastre di pietra o terracotta (dalla yufka turca alla rodha indiana, dalla burgutta eritrea alla taguella dei Tuareg), la piada è realmente un alimento arcaico. Le radici di questi cibi affondano nel neolitico, nientemeno.

La prima menzione di una vivanda chiamata "piada" si trova, per quel che è dato sapere, nella Descriptio Romandiole del cardinale Anglico, del 1371. Alla comunità di Modigliana è imposto, tra gli altri balzelli, un tributo alla Camera Apostolica di due piade. E' francamente difficile immaginare che da una comunità di 621 focolari (circa tremila anime) ci si accontentasse di esigere due piadine, che bastano sì e no per l'antipasto di un inappetente. Si dovrà quindi pensare che queste piade trecentesche fossero larghe focacce lievitate e forse condite con strutto, cotte nel forno: del tipo di quelle che nel ravennate si chiamano tuttora "piè" e nel resto della Romagna "spianate".

Intorno al 1572 il medico riminese Costanzo Felici, in un trattato sulle insalate, parla incidentalmente delle "placente, cresce o piade", e le definisce "pessimo cibo, con tutto che a molti tanto piaccia". Qual è la ragione di un giudizio così sprezzante? Ci aiuta ad orientarci meglio un'altra testimonianza.

Nel 1622 il cronista Giacomo Antonio Pedroni, dopo alcune considerazioni sulla carestia che imperversava e sul micidiale rincaro dei prezzi dei generi alimentari, annota che "più persone facevano delle piadine di sarmenti e fave macinati insieme, per mangiarle in così gran bisogno". Queste miserabili piadine fabbricate con ingredienti vili e vilissimi avranno avuto la forma, se non la composizione, delle attuali.

Nel 1801 Michele Rosa consiglia ai più derelitti di confezionare piade colla ghianda macinata. Alla piada il cronista ottocentesco Filippo Giangi dedica non più che un paio di brevi citazioni. Là dove ci informa che i popolani riminesi erano soliti consumarle, al sacco, nelle scampagnate estive alle Grazie, le giudica, sdegnosamente, un cibo plebeo. Singolare è una notizia del 1823: una ragazza di diciott'anni, tale Adelaide Bazzini, muore per un'indigestione di uova sode e piadine: ma si tratta di laute piadine fritte.

Il sospetto, in breve, è che la fragrante piada di fior di farina che Maria Pascoli preparava al commosso (e goloso) fratello e che un immane terziario piadaiolo ammannisce quotidianamente, oggi, a tutti i romagnoli, sia una variante nobile - e relativamente recente - delle meschine piadine di cerali vili e altri miserabili ingredienti (fave, ghiande, crusca e perfino segatura) che, nei "bei" tempi andati, servivano almeno a calmare i morsi della fame. Se ne traevano delle piade per una sola ragione: che quella robaccia non si poteva mescolare al lievito e panificare. Si può ulteriormente supporre che le piadine abbiano avuto un massiccio rilancio nel secolo scorso, a seguito della diffusione del mais. Si sa che i romagnoli, anche i più indigenti, non hanno mai avuto in simpatia la polenta. Non potendo fare il pane con la farina di frumentone, si saranno adattati a cavarne delle tortillas. Le grandi inchieste sociali dell'Ottocento, le relazioni dei medici e la memoria concorde dei vecchi contadini tramandano il ricordo di tristi piade "d'furmantoun" o, nel migliore dei casi, "armes-ci", cioè di farina di grano e di mais. "Maria / nel fiore infondi l'acqua e poni / il sale": magari.

 

I cappelletti
Nel riminese e in tutta la Romagna il piatto canonico, il "convitato passivo" d'obbligo del pranzo di Natale sono i cappelletti. Qual è l'età dei cappelletti? Le fonti storiche non consentono di stabilirla con precisione. La prima testimonianza è del 1811. In quell'anno il Regno d'Italia promosse un'indagine (nota come Inchiesta napoleonica) sulle tradizioni, le usanze, i dialetti e le superstizioni degli abitanti delle campagne. Utilizzando le informazioni fornite da sacerdoti, insegnanti e podestà, il prefetto di Forlì, il milanese Leopoldo Staurenghi, provvide poi a stendere un rapporto finale. Le notizie d'interesse alimentare e gastronomico sono irrisorie, ma non manca un sorridente e un po' malizioso accenno ai cappelletti. A Natale - scrive dunque Staurenghi - "presso ogni famiglia si fa una minestra di pasta col ripieno di ricotta che chiamasi di cappelletti". "L'avidità di tale minestra è così generale," egli co ntinua "che da tutti, e massime dai preti, si fanno delle scommesse di chi ne mangia una maggior quantità, e si arriva da alcuni fino al numero di 400 o 500. Questo costume produce ogni anno la morte di qualche individuo per forti indigestioni".

Nel 1811, quindi, i cappelletti già esistevano ed erano di rigore a Natale. Poichè si era già instaurata una tradizione, è logico pensare che la loro nascita sia anteriore di almeno un cinquantennio, e forse di un secolo buono. Com'erano fatti? Più o meno come quelli attuali. Ce lo conferma il forlivese Michele Placucci, che nel 1818 pubblicò una memoria sugli Usi e pregiudizi dei contadini della Romagna, dove fornì una sintetica ricetta dei cappelletti, "minestra composta di ricotta, formaggio, uova, aromi: il tutto avvolto in pasta, detta spoglia da lasagne".

Nel ripieno (o "compenso") dei cappelletti "arcaici" non entrava la carne. La sua introduzione è forse abusiva? E' vero, come sostiene il ravennate Corrado Contoli, che "l'aggiunta di carni esula dalle migliori tradizioni"? E' condivisibile l'asserzione di Aldo Spallicci che il cappelletto con la carne è una contaminazione col suo cugino bolognese, il tortellino? E' il caso - come fa Spallicci - di appellarsi all'autorità dell'Artusi, che, a suo dire, li voleva rigorosamente magri?

Non è il caso di essere integralisti. Da un secolo abbondante si hanno due o forse tre varianti, tutte legittime. E tutte ammissibili: ecumenicamente. La tradizione ravennate e cesenate generalmente non accetta le carni; quella forlivese è possibilista; quella riminese, sammarinese e pesarese addirittura le esige; e ne vuole addirittura di tre tipi: maiale, vitello e cappone. Quanto all'Artusi, Spallicci prende evidentemente un abbaglio, perchè nella sua ricetta dei "Cappelletti all'uso di Romagna" il celebre gastronomo di Forlimpopoli prescrive espressamente il petto di cappone e non si formalizza neppure sul lombo di maiale.

Esistono insomma, dei cappelletti, una versione "povera" (o "di magro") e una "ricca" (o "di grasso"), entrambe presenti nella "bibbia" artusiana. Generale è invece l'accordo sul fatto che la "morte" dei cappelletti è la cottura in brodo (di gallina vecchia, o di cappone, e di poco manzo magro). La spolverizzata finale di parmigiano sul piatto è, peggio che un pleonasmo, un eccesso. Il solo cappelletto asciutto praticabile è quello "di magro" (cioè senza carne) condito con burro e formaggio (va benissimo anche il "formaggio di fossa"), poichè il ragù aggredisce e strapazza il delicato impasto. Di panna, esecrabile relitto degli anni Sessanta, di funghi e di pasticci vari non si parli neppure, o rompiamo un'amicizia.

 

Il formaggio di fossa
Gli umili natali non gli hanno impedito di far fortuna e oggi, smessi i modesti panni paesani (ma senza aver perso il suo olezzo pungente), frequenta prevalentemente ambienti di un certo tono e ristoranti esclusivi. A Bologna se lo contendono. A Milano è quasi un mito. Si sta parlando, naturalmente, del "formaggio di fossa", nelle due sole versioni "autografe": quella, più tradizionale e nota, di Sogliano e quella, più recente, di Talamello.

Il "formaggio di fossa" - com'è arcinoto - è formaggio preferibilmente "misto", cioè di latte vaccino e di pecora, stagionato per circa tre mesi nelle cosiddette "fosse". Le quattro "fosse" principali di Sogliano sono antichi depositi granari (d'età malatestiana, si pensa) scavati nel tufo. Sono di forma ovale e sono alti tre metri e larghi due. Le "fosse" di Talamello sono di dimensioni più ridotte e di fattura più rozza. Le forme, chiuse in sacchi di tela bianca (si consigliano le vecchie federe dei cuscini), sono sepolte alla fine d'agosto e riesumate alla fine di novembre. A Sogliano il giorno canonico della riapertura delle fosse è il 24 novembre, vigilia della fiera di Santa Caterina.

Le fosse garantiscono una temperatura costante di 21 gradi, un'umidità vicina al cento per cento e un'aerazione minima. Fermentando in queste specialissime condizioni, il formaggio matura una pasta, un gusto e un profumo del tutto particolari, con venature amarognole e fragranze di sottobosco, di fungo, di tartufo. Per soprammercato acquista anche un'elevata digeribilità.

Il formaggio di fossa non ha la piatta uniformità del prodotto industriale: il che, beninteso, ne accresce l'interesse gastronomico. Quello di Talamello ha un sapore e un profumo meno intensi di quello di Sogliano. Ma neppure il formaggio di Sogliano è tutto uguale. Al contrario. La qualità del formaggio infossato, il grado di maturazione, la profondità dello stivaggio e la fossa stessa producono un ampio spettro di sapori e afrori, dal violento al delicato. Per i gusti più disparati. Eppure è tutto autentico, inequivocabile "formaggio di fossa": chi ha un minimo di naso e di palato lo distingue al volo.

Quando e perchè nasce il formaggio di fossa? La documentazione storica, purtroppo, non ci soccorre. Escluderemmo tranquillamente origini arcaiche (la famigerata "notte dei tempi") e motivazioni rituali. Nessuna persona ragionevole seppellisce il formaggio per compiere un cerimoniale inumatorio. E' egualmente improbabile che, in origine, abbiano prevalso quelle ragioni gastronomiche che avrebbero poi decretato la fortuna del formaggio di fossa. L'infossamento è innanzi tutto una tecnica di conservazione. I nostri bisnonni di Sogliano e Talamello (una zona con venerande tradizioni di allevamento) avranno dovuto fare i conti con una sovrapproduzione estiva di formaggio, eccedente il consumo immediato. Di qui la necessità di conservarlo per l'inverno, scongiurando un eccessivo rinsecchimento. Avranno quindi pensato, ragionevolmente, di chiuderlo nelle fosse granarie. Avranno così constatato che non solo si manteneva perfettamente, ma guadagnava in bontà. Era la soluzione giusta. La tecnica di infossamento è stata in seguito perfezionata e tramandata fino a noi. Ma solo in tempi recenti (in questo secolo, diciamo) la ragion gastronomica ha prevalso sulla ragion pratica.

Buttare là delle date è sicuramente un azzardo. Si può supporre - per analogie con le tecniche casearie di altre località - che si infossi da circa trecento anni. Mentre a Sogliano la tradizione non ha conosciuto lunghe interruzioni (il peso del formaggio è tuttora misurato in libbre, anziché in chilogrammi), a Talamello è stata recuperata, sulla base dei ricordi dei più vecchi, solo da qualche anno.