Dal Carcere di Regina Coeli
Roma, 12 aprile 1944
Mia cara Enrichetta,
quando leggerai la presente forse io non sarò più, dico
forse, perché sebbene una condanna a morte sia stata pro-
nunciata per me, resto tuttavia convinto che una simile mo-
struosità non potrà essere condotta a termine.

Ieri mattina, saranno state le sette, ero ancora a letto an-
che perché durante la notte avevo dormito poco e le poche
ore di sonno erano state popolate da sogni strani, quasi in-
cubi, i miei compagni di cella che erano desti hanno senti-
to il mio nome ed il numero 94 che era quello della mia
cella. Mi hanno avvertito e sono subito balzato dal letto,
mi sono vestito e lavato alla bell'e meglio ed ho chiesto al-
la guardia, che intanto aveva aperto la porta, cosa ci fosse
di nuovo. Mi ha risposto: L'attendono giù . Nello scen-
dere le scale ho visto vicino all'uscio dell'ufficio del brac-
cio un soldato tedesco che attendeva. Ti confesso che in
quell'istante non ho previsto nulla di buono, per quanto ho
fatto il callo a tutte le sorprese.
Difatti sono stato portato fuori insieme ad altri detenu-
ti e fatto salire su un camion scoperto, ricondotto al Tribu-
nale di via Lucullo.
Alle dieci sono stato introdotto nell'aula dove il Tribu-
nale era già riunito. I suoi mèmbri non erano più quelli del
29 febbraio, ali'infuori di un ufficiale che in quella occa-
sione fungeva da Presidente ed ora da Pubblico Ministero.
Mi viene detto che la sentenza del 29 febbraio era stata so-
spesa e avrei dovuto essere processato di nuovo.


Si da lettura del verbale del primo processo, in tedesco
sempre; alla fine l'interprete mi domanda se ho qualche
cosa da aggiungere alle mie dichiarazioni di allora. Alla mia
risposta negativa il Pubblico Ministero fa la sua requisito-
ria che conclude con la richiesta della pena di morte, come
mi comunica l'interprete. Vengo condotto fuori per qual-
che minuto e subito richiamato nell'aula dove viene letta
la sentenza che conferma la richiesta del P. M. |
Ho chiesto se potevo avanzare domanda di grazia e mi è
stato detto di si. Non mi sarei mai piegato a quest'atto di
sottomissione o comunque di umiliazione di fronte allo
straniero che con tanta disinvoltura si vale del diritto della
sua forza per giocare con le nostre teste; non lo avrei mai
fatto, ti dico, ma dinanzi ai miei occhi, in quel momento,
vi eri tu, mia diletta e sfortunata compagna ed i miei figli,
mio padre, i tuoi genitori, i miei fratelli ed i tuoi... e qual-
che cosa pur vi dovevo, giacché lo potevo ancora. È poco,
lo so, ma non posso offrirvi di più, ed ho piegato il capo.
Ieri stesso, infatti, ritornato nel carcere, ho chiesto di fare
la domanda e il sottocapo del VI braccio, ad onore del ve-
ro molto premuroso e gentile, ha chiamato un interprete

addetto ai servizi del carcere e ieri sera la domanda era già
partita.
Ti dicevo in principio che sono convinto che l'esecuzio-
ne non avrà luogo ed ho molte ragioni per crederlo. Prima
perché l'esecuzione non ha avuto luogo subito come avvie-
ne di solito in questi casi. Poi perché, sia nel braccio tede-
sco come negli altri bracci, vi sono condannati a morte da
vari mesi e finora non sono state eseguite le sentenze. Poi
vi è in corso la domanda di grazia, su cui spero molto. Cer-
to ci sarà, credo, da attendere qualche mese, ma per me
questo tempo non sarà un'agonia, perché ho la forza che
mi proviene dalla fiducia che tutto ciò non sarà fra breve
che il ricordo di un brutto sogno. Comunque, questo mio
parere e scarse parole ti sono destinate solo nel caso che
l'irreparabile si compisse e vogliono essere l'estremo salu-
to a tè e ai nostri cari figlioli e l'implorazione a tè e a loro
del vostro perdono per tutto il male che vi ho fatto e che
vi faccio lasciandovi soli.
Nella folla di care memorie che, come fiume in piena, mi
fanno ressa nell'anima, mi torna alla mente una lettera che
ti scrivevo venti anni fa, quando eravamo ancora fidanzati.


Ti dicevo allora, di fronte a ciò che già cominciava a con-
trastarci la vita, che la vita è soprattutto lotta e che il suo
condimento è il dolore. Forse noi dell'una e dell'altra ne
avevamo già troppo, ma non abbastanza. Occorreva la pro-
va suprema, per me l'ultima, ma per tè il principio di un'al-
tra serie infinita. E questo pensiero mi fa sentire colpevole.
Ma che fare? Vi sono nel mondo due modi di sentire la
vita. Uno come attori, l'altro come spettatori. Io, senza
volerlo, mi son trovato sempre fra gli attori. Sempre fra
quelli cioè che conoscono più la parola dovere che quella
diritto. Non per niente costruiamo i letti perché ci dorma-
no su gli altri. Tutta la mia educazione, fin da ragazzo, mi
portava a farmi comportare cosi.
Ed anche ora, di fronte allo scempio della Patria, dei
nostri focolar!, delle nostre famiglie, io sentivo che era da
codardi restare inerti e passivi. Ma forse con ciò calpestavo
i miei doveri verso la famiglia? No, perché la causa che
avevo sposata altro non era che quella dei nostri figli e del-
le nostre famiglie. Non sappiamo cosa sarà l'avvenire che
io comunque già sento più bello, più buono del triste pre-
sente, di questo terribile oltraggio all'umanità. Ma qualun-
que esso sia ed io dovessi essere inghiottito da questo vor-

tice tremendo, che annienta uomini e cose, di fronte al giu-
dizio dei miei figli, preferisco essere il padre che ha rispo-
sto all'appello del dovere, anziché il codardo che se ne sot-
trae.
Se con la mia morte tu ed i miei figli avrete perso il mio
amore e il mio sostegno, vi resterà un amore e un sostegno
più grandi: quello dell'umanità finalmente libera, che ac-
coglierà nella sua grande famiglia gli orfani e le vittime di
questa vasta tragedia. Ed io, tu lo sai, non sarò il solo ca-
duto; è ormai innumerevole la schiera dei generosi che han-
no offerto il proprio petto in questa lotta di popoli anelan-
ti ad un domani di luce. E potessi io essere l'ultimo. Mori-
rei più contento se sapessi che il mio solo sangue bastasse
ad estinguere la sete della belva. Ma troppo poca cosa io
sono.
Me ne vado con la coscienza di non aver mai operato ma-
le nel mondo e di aver fatto, quando ho potuto, un po' di
bene.
Dietro di me lascerò più rimpianto di amici che depre-
cazione di nemici e se qualcuno, come ci sarà, avrà fatto il
mio danno, fatto sanguinare il tuo povero cuore e quello
dei miei figli e di tutti i miei cari, perdonatelo come io lo
perdono.


Mia diletta, ho incominciato a scriverti ieri e continuo
oggi 13 aprile, anniversario della morte della mia povera
mamma. Anche essa soffri tutte le avversità della vita per
morire, immaturamente, quando le si affacciava la speran-
za di una vita più serena e meno tribolata.
Essa mori senza rivederci come io muoio senza rivedere
i miei figli carissimi. È destino comune!
Ma essa non mi abbandonò mai, ne in vita ne in morte, e
mi illuminò sempre il travagliato cammino come una buo-
na stella. Ne la dimenticai mai nelle ore tristi, come nelle
liete. Domani sarai tu a deporre sulla pietra che ne custo-
disce le spoglie, il fiore del mio amore filiale. E se non rite-
nessi assurdo e irrealizzabile il mio desiderio, ti direi che
un giorno i miei poveri resti fossero portati vicino ai suoi,
se pure anche là la bufera non ha forse tutto sconvolto.
In questo istante sono stato chiamato nell'ufficio del
braccio ed ho trovato Antonio. Abbiamo pianto un po' in-
sieme, e questo sfogo mi ha fatto bene.
Per quelli che sono i nostri rapporti di interesse, io non
ho l'animo in questo momento di darti dei suggerimenti.

Egli è abbastanza ragionevole e tu sarai comprensiva per
trovare insieme un punto di appoggio sul poco che ci sa-
rà, se ci sarà.
E nemmeno mi attengo a darti consigli sul da fare per la
sistemazione tua e dei nostri figlioli. C'è troppa incertezza
nel domani perché si possa stabilire un punto fermo su
qualche cosa. Ma sono sicuro che non ti mancherà ne il
consiglio, ne l'aiuto, ne soprattutto il buon senso per pren-
dere le tue risoluzioni in piena libertà.
E poi Filippo è grande e saprà rimpiazzarmi nel sosteni-
mento della famiglia. Egli è di buona indole ed è volente-
roso e laborioso e col divenire più maturo diverrà anche
migliore.
Rosa è ormai una donnina ed anche lei cosi buona ed af-
fettuosa, saprà prendere la sua strada. Ciò che mi rattrista
un po' più è il pensiero di I vana. Ella è troppo sensibile e,
cagionevole com'è, potrebbe risentire del colpo quando po-
trà conoscere la mia sorte; ma spero che l'età e le tue cure
abbiano ragione di tutto. E la mia buona e piccola Tina? È


nata quando io ero lontano e le verrò a mancare quando el-
la è lontana. Era per me una grande gioia, una gioia che
custodivo gelosamente nel cuore il pensare alla bontà dei
sentimenti di questi miei quattro angeli.
Non ti sono stato mai troppo di aiuto nella loro cura ma
ora sarai del tutto sola ed è per questo che non devi lasciar-
ti abbattere, ne disperare. Il loro amore è tanto grande che
compenserà il mio.
Veglia su di loro ed educali all'amore del lavoro e dello
studio, all'onestà e all'amore dei deboli e degli oppressi.
Siano essi modesti e buoni con tutti e non importa essere
poveri quando la mente e il cuore sono ricchi di queste do-
ti sublimi.
Quando, passata la burrasca, potrai ritornare laggiù nel
nostro Abruzzo, porterai il mio bacio e il mio abbraccio a
mio padre ed alla zia Marietta, a papa Zulli ed a mamma,
ai miei fratelli e ai tuoi, li pregherai di perdonarmi se qual-
che volta mi sono comportato male con alcuno di loro e di
perdonarmi il dolore che io arreco loro. Dirai ai cugini, agli
zii, ed ai nipoti ed agli amici tutti che io li ho ricordati tut-
ti prima della dipartita. Ed ora mia buona e dolce Enrichet-
ta, addio. Se pur ti ho fatto qualche torto, non ho mai ces-
sato un solo istante di amarti e di tenerti in cima ai miei
pensieri. Ricordami sempre e sappi che se dolore provo nel

distaccarmi dal mondo, dò è solo per tè e per i nostri figli
adorati.
Ma ti conforti il pensiero che sarò morto da forte, guar-
dando serenamente in faccia il destino.
Ti bacio e ti abbraccio per l'eternità,
II tuo Pietro