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Note

IL COMMENTO DI UN ERUDITO ADRIESE ALLE Memorie di FELICE FORESTI

E alcune riflessioni sulla "rivoluzione" carbonara e sull’idea di "repubblica"

Italia 1860. Si riporta ( scil. uno scritto di F. Foresti), ma con tutta riserva, pel noto carattere dell’autore e del partito che rappresenta. Non m’occupo per ora a confutare le assurde massime che di tanto in tanto son predicate in questo scritto…(1)

    Le parole sopra citate pertengono a un notissimo erudito adriese, Francesco Antonio Bocchi, il quale era indubbiamente un fedele suddito di S. M. l’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe. Già dall’ "incipit" si può rilevare che le Memorie del carbonaro Foresti non erano particolarmente apprezzate dal Bocchi, che ne sottolineava le numerose "assurdità". Certamente, se a tanti anni dagli eventi narrati dal Foresti, qualcuno si prendeva ancora la briga di marcarne l’infondatezza in più punti, ciò significa che i tempi erano ormai maturi per un tentativo di confutazione globale di tutto quel mondo sotterraneo delle sètte, e in particolare quella dei carbonari, che avevano dato negli anni ’20 la stura a una serie di fortuiti "mutamenti di stato" che avrebbero successivamente portato, casualmente e per vari versi "immerite", all’Unità d’Italia. Il Bocchi scriveva le sue note alle Memorie del Foresti a ridosso del 1860, cioè in tempi ravvicinati a quell’evento unitario che avrebbe comportato la fine del dominio austriaco nella Penisola. Tale evento imminente fu vissuto da parte della classe dirigente nazionale come una catastrofe, e lo si arguisce anche dal fatto che il Bocchi si sobbarcò sulle spalle il compito davvero titanico di riscrivere a mano "tutte" le Memorie del Foresti, ricopiandole con pazienza certosina da un libro di Atto Vannucci, apparso a stampa nel 1860.(2) Il Bocchi dunque riscrisse a mano il tutto e fece seguire, a margine, un commento astioso e sarcastico dei ricordi del Foresti. L’acredine del commento testimonia dell’urgenza del momento politico che si viveva, e il significato di un’impresa del genere sta probabilmente nell’estremo tentativo della pubblicistica filoaustriaca di stroncare alle radici l’idea risorgimentale e unitaria di cui erano ritenuti storicamente responsabili i carbonari, e in particolare Foresti, uomo di indubbio valore e coordinatore nel Polesine di varie "vendite" carbonare. Colpire l’uomo, ridicolizzarlo ("ridicolo" è termine usato dal Bocchi, cfr. c.19 v) significava implicitamente ridicolizzare le idee di cui egli era portatore, e in quest’impresa il Bocchi ce la mise veramente tutta. Né, d'altra parte, la frequentazione giovanile di patrioti al Caffè Pedrocchi sembra credenziale sufficiente per dare al Bocchi l'aureola di fervente sostenitore dell'Unità.(3) Il motivo per il quale il commento del Bocchi non vide la luce delle stampe e rimase sepolto nell’archivio dello stesso sta nel fatto, evidente, che nel 1861 fu raggiunta l’Unità, e che i carbonari ne divennero, per così dire, i "protomartiri", e le loro "vite" furono epicamente narrate dalla pubblicistica popolare, che prese a saccheggiare il libro del Vannucci e a trarne sunti a mo’ di edificazione per l’ignaro vulgo.(4) Di lì a pochi anni, nel 1866, anche Rovigo e il Polesine vennero annessi al Regno d’Italia. Certamente il clima politico di quegli anni suggeriva la prudenza. Prudentemente il Bocchi non insistette ulteriormente e lasciò nel cassetto quanto faticosamente s’era copiato. La prudenza non è mai troppa, ed è virtù che è d’uopo praticare con intelligenza se si vuol raggiungere una tranquilla vecchiaia: il Bocchi lo sapeva e fu "virtuoso".

 

LE "MEMORIE" DEL FORESTI E IL COMMENTO DI F.A. BOCCHI

Italia, 1860. ( Si riporta, ma con tutta riserva, pel noto carattere dell'autore e del partito che rappresenta. Non m'occupo per ora di confutare le assurde massime che di tanto in tanto son predicate in questo scritto) [ c. 1 r]

…Certo la società (scil. la carboneria) esordì nel regno di Napoli, figlia della Massoneria , anzi una riforma di questa. Suo scopo politico  era nel 1820, conforme ai tempi, la liberazione dall’Austria…

N.B. Dunque la società aveva anche altri scopi diversi dai politici. [ c. 1 r]

…Parecchi mesi appresso furono tutti liberati, i conjugi d’Arnaud ebbero bando perpetuo dagli stati austriaci; la signora morì nel ritorno in Francia. Passerini e Camerata furono certo carbonari; non so gli altri…

Qui il Foresti è poco chiaro, giacché si vede che non tutti furono posti in libertà coi conjugi D’Arnaud. [c. 6 v]

 

…Villa e Fortini furono fatti carbonari da me: Villa pauroso e vile confessò tutto, persino l’esistenza organizzata della società carbonara in Polesine, ed i suoi rapporti con quella di Ferrara, e che io era fondatore e capo dirigente. Quindi gravissimo danno agli imprigionati. Fortini ne fu sacrificato; buono, corto di mente, timidissimo, apparteneva alla vendita subalterna di Fratta di cui era capo Villa, ma era solo apprendente, quindi ignaro di tutto. Villa volle un giorno far paura a quel semplice prete, e ordinò un notturno convegno di tutti i membri della sua vendita in casa sua. Vennero tutti armati del pugnale carbonico e incappucciati. Fortini giunto all’anticamera fu preso in mezzo da due carbonari che gli teneano il pugnale levato sul petto. Atterrito il prete si vide introdotto in mezzo al convegno, fra visi e mani armate: Villa lo rampognò di aver tradito il segreto della società; l’altro negava, e Villa replicò: " Ti crediamo, questa volta, ma vogliamo un’arra di tua costanza futura; soscrivi." E gli fu posta una carta, che fu letta e diceva: " Io Marco Fortini come prova della mia costanza e fedeltà alle dottrine e mire della Carboneria, dichiaro qui alla presenza de’ miei cugini Carbonari, di abjurare per sempre alla religione cattolica romana, al cui clero io appartengo…".

 

Indipendentemente da questi fatti del Fortini, è impossibile negare al Carbonarismo intendimenti anticristiani. La Framassoneria è notorio essere sètta anticristiana e come tale condannata dalla Chiesa; ma la Carboneria per confessione di Foresti medesimo non è che una riformata framassoneria, …Dunque etc… [ cc. 7v e 7r]

Salvotti mi diceva: io non avrei condannato quel povero prete nemmeno a 12 mesi di carcere. Fortini fu graziato dall'imperatore dopo 7 anni di carcere nello Spielberg e mandato libero in Dalmazia, ove fu riammesso al sacerdozio sotto la guida dell'infanissimo Paulovitz...

Paulovitz era vescovo di Cattaro: a carico suo non si spacciarono che esagerazioni e calunnie. [c. 8 v]

…Ordinai a Villa di bruciare le carte carboniche ( statuti, cerimoniali, vocabolari per la secreta corrisponenza). Villa bruciò una parte, diede l’altra al fido Oroboni che la celò in un sepolcro di marmo di sua casa privata, e confidò incautamente tale nascondimento al Villa. Cercava la polizia tali carte…Villa ne’ suoi interrogatorii palesò il luogo preciso. Quindi Oroboni fu arrestato dal commisario Lancetti, che sapeva del nascondiglio, e nondimeno chiese:" Avete carte?" . "No". " Voi ne avete, la polizia lo sa". " Non ne ho". Sì e no lunga pezza. " Se non le date subito, io metto in rovine il palazzo di vostro padre". " Fatelo." Quindi Oroboni accerchiato di soldati vien condotto ne’ sotterranei della Cappella, s’apre la tomba, si levano le carte, e Lancetti sclama[sic] : "Le vedete? Ma pagherete cara la vostra ostinatezza"…

 

 

Tutto ciò vien chiamato dal Foresti "nobile", "fedele fermezza e rettitudine…[c. 8 r]

 

…Arrestato Arnaud e compagni, struggemmo le carte, io particolarmente, che aveane di importanti. Ma dimenticai l’importantissima…

 

E’ poco credibile tale dimenticanza. [c. 8 r]

 

…Solera non era stato ancora arrestato, nemmeno i ferraresi Canonici e Delfini, che lo furono soltanto un anno e più dopo, per tradimento di Tomasi…

 

Nota l’esagerazione di questa e simili espressioni. [ c. 10 r ]

 

…Si cominciò il processo regolare nello stesso monastero di S. Michele. Primi interrogati i meno gravati, quindi quelli che avevano tutto confessato alla polizia. Per poco osarono la convenuta ritrattazione. Salvotti ne infuriò, s’accorse di cocente preventivo, indovinò me istigatore. Solo Solera persisté a dire tutto, forse fin d’allora s’apparava la via dell’impunità e del sovrano favore…

 

Eppure, per asserzione dello stesso Foresti, anche Solera restò 6 anni allo Spielberg. [ c. 14 v ]

 

…Io esaminato fra gli ultimi, non declinai dalle prime deposizioni. Quindi Salvotti:" Ebbene! Ella sta troppo bene qui; la passeremo ai rigori e all’isolamento delle carceri criminali. Colà non potrà sedurre i compagni a ritrattazioni, ed a violare il dovere della sincerità verso l’imperatore…

Chi di buon senso potrà dare torto al Salvotti? [ c. 14 v]

...Quindi diceva fra me: bisogna morir subito...Richiamava la famiglia, la fidanzata*, e piangeva...

E mai un pensiero di religione! [ c. 18 r]

...Sgorga il sangue, sento un lieve dolore, cui succede respirazione affannosa, credo morire e ne godo...

  Creda chi può!  [ c. 19 v]

... Getto a terra il lenzuolo, aspettando con serena calma l'ultimo respiro ...

  Quale eroe! Che Bruto, quale Catone, e Seneca di nuovo stampo! [ c. 19 v]

...Comincio a scarnificarmi le arterie delle braccia...

  Pazzo ed empio! [c. 19 v]

...A queste violenze succede una tensione di nervi al cervello...Arresto il sangue col fazzoletto e col lenzuolo a più doppi...

  Ma non era risoluto di morire? perché arrestare il sangue? Se il racconto non è una favola, che miserabile figura, mista di ridicolo non fa l'eroe! [c. 19 v]

...Mi calmai, e quasi mi vergognai del tentato suicidio, sopratutto pegli odiosi commenti che ne farebbe il mondo...

E niente per motivi di religione! [ c. 20 r]

...Nessun de' processati e de' molti carbonari del Ferrarese, Romagna, Veneto, tradì il segreto, sebben tutti lo conoscessero...

Come si accorda ciò con quello più sopra detto? Che cioè pochi soli (vedi sopra e le note alla sentenza) erano partecipi del vero scopo della carboneria? [c. 24 v]

...Qualunque apprendente sapeva tali cose…

Come dunque si osa sostenere che i semplici apprendenti non partecipavano all'alto  tradimento? [c. 24 v]

...Da prima leggevamo liberamente i molti libri portati; dopo due anni ce li tolsero, lasciandoci solo per grazia pochi ascetici e controversisti religiosi...

Qui il Foresti esclama: noja da morire! [c. 29 v]

...P. Paulowitz dalmata poi vescovo di Cattaro, infamissimo ignorantone,* di cui narra il vero Andrjane, mi ripeteva: " S.M. è in collera con lei, suo incorreggibile nemico, tuttavia speri nel suo animo generoso. Avete a fare qualche importante rivelazione?...".

* Sic! [c. 30 r]

...Recatosi a Brünn l'Imperatore nell'estate 1834...

E 1835  aggiungono le memorie, ma deve essere errore, perché Franc. I moriva il 2 marzo 1835. Saranno piuttosto gli estati 1830, 1834. [c. 31 v]

[ Il commento finale del Bocchi alle sentenze riportate nelle Memorie]

... Il Foresti chiama questa sentenza infame e iniquissima, perché, dice egli, i soli Solera, Munari, Foresti, Canonici, Delfini potevano per tutti i principii di giurisprudenza criminale essere ritenuti rei di alto tradimento; come quelli che erano capi attivi, in corrispondenza attiva coi rivoluzionari d'Italia del 1821, ed agirono con vero scopo rivoluzionario, allo scopo cioè d'effettuare il loro disegno vagheggiato e progettato d'espellere gli Austriaci e rendere libera, indipendente ed unita la loro patria Italia. Ma qual'era [sic] il delitto degli altri condannati? Niuno! Quale elemento e veduta rivoluzionaria nella loro condotta? Veruna. Apprendenti semplici, od iniziati, di una società secreta non conoscenti di proposito e con fondamento lo scopo politico, estranei ai secreti convegni cospirativi; furono in essi puniti atrocemente il nome semplice di Carbonaro e delle segrete espressioni di amor patrio. Orribile, Orribile! e l'Austria è giusta ed illuminata?

Così Foresti ed il Vannucci; ma io, in luogo di ribattere le fanatiche accuse, rimando il lettore ai medesimi loro racconti, onde possa capacitarsi se si estendeva più in là di quanto essi asseriscono la colpa dei Carbonari. [c. 39 v e 40 v]

 

 

 

 

LA CARBONERIA E "I Fonti dell’empietà"

 

Queste dunque le osservazioni del Bocchi sulle Memorie di Felice Eleuterio Foresti, il quale è personaggio fin troppo noto agli studiosi per soffermarvisi oltre, se non per osservare, cosa fondamentale per gran parte dell' assunto di questa ricerca, che egli, dopo i travagli dello Spielberg, trovò sicura e accogliente ospitalità in America, in quegli Stati Uniti ove ebbe onori, considerazione e infine tenne una cattedra universitaria, anzi, due.(5) E’ un dato di fatto incontrovertibile che il mondo anglosassone, Inghilterra e America, fu l’esito finale di tanti e tanti carbonari; oltre al Foresti, si potrebbero citare Maroncelli, ricordato presente in America nelle "Memorie" di A. da Ponte; Rossetti, carbonaro poi fuggito su una nave inglese e stabilitosi in Inghilterra fino al termine dei suoi giorni.(6) Anche la letteratura, attraverso Nievo, ci rammenta che Carlino trovò rifugio nel mondo inglese e quindi in America; fra gli stranieri è difficile non pensare a Stendhal, che aprì le "Cronache Italiane" proprio con la storia di un carbonaro, Missirilli, il quale sognava di poter fuggire in America con la sua amante.(7) Inghilterra e America appaiono quindi le mète privilegiate dei fuggiaschi carbonari. Non s’intende qui riaprire la questione sulle origini della carboneria, che affaticò per molti anni gli studiosi, e del resto pare definitivamente assodato che tali origini siano da rapportarsi a una matrice francese, con l’assimilazione dei carbonari ai "charbonniers" della Franca Contea. l’Inghilterra viene vista più che altro come una foraggiatrice cinica e interessata della sètta carbonara, la quale, appunto, avrebbe trovato ottimi supporti nella sua azione eversiva grazie "all’oro inglese", espressione con la quale, semplicemente, si liquida una qualsiasi influenza dell’Inghilterra sulla formazione dei nuclei carbonari. Già Candeloro, nella sua classica opera sulla storia d’Italia, aveva con ragionevoli argomenti attribuito le origini della Carboneria all’area francese, e più precisamente alla Franca Contea, ove si era sviluppato il fenomeno dei "charbonniers", i quali, come si è rilevato, possedevano statuti assai simili a quelli più tardi dei carbonari. Candeloro aveva individuato nel generale Briot il tramite attraverso il quale era attecchita la Carboneria in Italia: e tra l’altro Briot era originario della Franca Contea e a suo tempo era stato "charbonnier".(8) Ma, come ha detto bene Dionisotti,(9) i conti del nostro Risorgimento con l’Inghilterra non sono ancora del tutto chiusi, e non lo sono se non altro perché, al di là di dirette influenze anglosassoni sulla formazione della Carboneria, resta il fatto che autorevoli componenti della sètta guardarono al mondo inglese e americano come a un "modello" certo difficilmente esperibile in Europa, ma degno della massima attenzione.

C’è però in via preliminare un elemento che salta subito agli occhi nel commento a margine del Bocchi: le reiterate accuse al Foresti di "irreligiosità". La cosa potrebbe suonare alquanto strana, e tale sembrò anche a molti carbonari, i quali rimasero per lo meno stupiti della durezza della Chiesa nei loro confronti. Se si guardano poi un po’ da vicino le biografie dei carbonari polesani classici, da don Fortini a Villa a Oroboni, a nessuno verrebbe in mente di accusarli di empietà, soprattutto alla luce delle testimonianze in nostro possesso, che parlano tutte di indubitabile pietà religiosa.(10) Ma a un' analisi anche sommaria della bolla di condanna, si arguiscono facilmente le motivazioni profonde di essa. I carbonari infatti furono assimilati ai priscillianisti, ovvero ai primi eretici in senso assoluto che subirono una condanna senza appello della Chiesa, con un vescovo, Priscilliano, addirittura fatto giustiziare dall'imperatore. "Nell’Occidente – scrive Santo Mazzarino – il problema dell’unità episcopale assumeva [un] aspetto politico…I vescovi spagnoli tagliarono corto, e accusarono Priscilliano di manicheismo….L’imperatore Massimo lo condannò a morte". (11) L'assimilazione dei carbonari agli antichi priscillianisti la dice lunga circa l'indice di pericolosità che la setta assumeva agli occhi della Chiesa. La Carboneria,infatti, non solo aveva operato un'indebita quanto autarchica appropriazione di Cristo, elevato, com'è notorio, a Gran Maestro, con tutti i riti che ne seguivano e che sono fin troppo noti, ma propugnando la "rivoluzione", essa predicava, lo disse chiaramente Lamennais, "una dottrina manichea".(12) A ciò si debbono poi aggiungere le reiterate e tutt’altro che pacifiche prese di posizione dei carbonari verso la gerarchia, come quelle, per esempio, contenute nell’Istruzione del 1819, ove si predicava l’ "annientamento per sempre del cattolicesimo ed ancora dell’idea cristiana".(13) Già per queste ragioni, dunque, fa meraviglia la meraviglia dei carbonari, a meno che non si voglia supporre una certa qual (possibile) ingenuità di fondo in molti. 

Quando Pio VII nel 1821 emanò la famosa enciclica contro la carboneria, i ranghi della setta subirono un evidente assottigliamento; molti sacerdoti, ed erano parecchi, si defilarono e altri furono invitati a meditare e a sottoporsi ad adeguati esercizi spirituali. Un po’ tutti i carbonari, laici o ecclesiastici che fossero, furono però colti di sorpresa dall’asprezza della condanna papale, che giungeva tra l’altro dopo anni e anni di tolleranza più o meno implicita verso la sorella maggiore della Carboneria, la Massoneria. Qualcuno protestò vivacemente, specie nell’ambiente napoletano, ove si sottolineò che, a ben guardare, anche la Chiesa a suo tempo era nata come "società segreta", e si rilevava, tra l’incredulità e la sorpresa, che la setta dei carbonari non aveva nulla contro la religione cattolica, e che i suoi scopi erano eminentemente politici e patriottici. " Egli è vero - dicevano i settari napoletani - che una tal Società ha un oggetto politico, ma non è questo né per ombra pure di opposizione con le massime della religione".(14) Ciò che agli ideologicamente disarmati "buoni cugini", che costituivano la "base" , sembrava il massimo delle giustificazioni era invece "la" ragione della condanna della Chiesa, alla quale non sfuggiva la pericolosità di un mondo latomico che non solo si insinuava nel clero, portando così l’eresia nel seno stesso della gerarchia, frantumandola, separandola, appunto, e quindi avviandone i membri meno consapevoli a una contrapposizione interna foriera di nuove e pericolosissime scissioni, ma anche sottoponeva il mondo cattolico a una prova, i cui effetti potevano essere esiziali all’antica e, di recente rinverdita, solidarietà tra il Trono e l’Altare. In effetti la carboneria, agli occhi della Chiesa, apparve come una vera e propria eresia, il cui successo avrebbe comportato conseguenze catastrofiche anche a livello politico, "separando" una volta per sempre Chiesa e Stato. Ai "Buoni Cugini" era letteralmente sfuggita la ragione di quella sottile equazione instaurata tra priscillianisti e la loro setta. Così come il vescovo Priscilliano e i suoi seguaci erano stati condannati perché avevano operato una primeva e grave frattura nel mondo cristiano proprio in un momento in cui la Chiesa, nel IV secolo, attraverso i suoi vescovi, era tutta proiettata verso l'unità, il superamento delle divisioni interne e si trovava a un punto di svolta strategico con il potere imperiale, di cui si cercava la protezione per lo sradicamento del paganesimo residuo, tutt’altro che facile a estirparsi, allo stesso modo i carbonari, se lasciati fare, sarebbero riusciti a concretizzare una spaccatura tra il trono e l'altare, proprio quando si era a una svolta epocale, ossia in una temperie storica cruciale, in cui la Chiesa stava producendo il suo massimo sforzo di ricongiunzione tra le due sfere, quella religiosa e quella politica, dopo la bufera rivoluzionaria, e mentre la cristianissima Austria si ergeva in Europa a baluardo di quell'antico regime che invece costituiva l'ostacolo da abbattere per il carbonarismo, la cui rimozione però avrebbe significato ulteriori lacerazioni tra Chiesa e Stato, divisioni insanabili tra due corpi, che pure erano, per la Chiesa, uno solo: quello cattolico-romano. Di fronte a orizzonti così oscuri, che rinnovavano nella mente dei più avvertiti i fantasmi del protestantesimo, la Chiesa sferrò un attacco senza precedenti al mondo delle sètte, mettendo in campo i suoi uomini migliori su tutti i fronti per sradicare una volta per sempre non solo il "male" ma anche le sue radici, ovvero "i fonti dell’empietà",(15) indagando chi mai fossero i "responsabili primi" di tutte le scissioni, di tutte le eresie, e, nel contempo, dando un mandato assolutamente primario alla cristianissima Austria, e carta bianca a tutti i sovrani d’Europa, che si riconoscessero nello spirito della Restaurazione, fatto essenzialmente della ritrovata unità tra Chiesa e Stato. In Austria infatti Metternich aveva trovato in Schlegel il "portatore presso la pubblica opinione del [suo] messaggio politico…L’idea-forza di tutta la propaganda conservatrice e reazionaria…aveva insistito con grande energia nel sottolineare il ruolo negativo della Riforma e in generale il peso della scissione religiosa negli eventi rivoluzionari del presente…E’ quindi comprensibile come proprio la Curia romana – in quanto centro focale contro cui si era tradizionalmente diretta la lotta dei settori più avanzati – assurgesse ora a simbolo, non solo di un recupero di valori, ma soprattutto di una riorganizzazione della società su basi prerivoluzionarie…".(16) E ancora, sottolinea C. De Pascale, " si potrebbe osservare che la traduzione di concetti politici in linguaggio religioso non è altro che, ancora una volta, la riproposizione di uno schema antico, se è vero che, alle soglie del mondo moderno, si verificò il processo esattamente uguale e contrario, con la traduzione in linguaggio politico di schemi mentali originariamente religiosi e teologici".(17) Nei vari stati europei della Restaurazione "la politica diventa una diretta creazione di Dio; la religione, o la teologia, costituiscono il fondamento di esso".(18) E, per concludere, Schlegel osserva che il " repubblicanesimo…ha fatto molti più danni di quanti non ne abbia fatti lo stesso spirito rivoluzionario ed ‘anarchico’…", in quanto "gli uomini hanno preteso di dichiararsi tutti uguali di fronte alla legge, cosi come sono uguali di fronte a Dio; hanno voluto raggiungere quell’unità che fa svanire ogni contrasto e gradazione, sconvolgendo quell’ordine gerarchico fondato sulla differenza e sulla distinzione; hanno trascurato gli insegnamenti della storia ed hanno sconvolto i secolari rapporti stabiliti dalla tradizione".(19) Repubblicanesimo e democrazia si oppongono senza residui alla "saldatura di ‘antichità’ con ‘religione’…". Metternich, nel Memorandum segreto ad Alessandro I, enunciò tale concetto in modo chiaro e senza alcuna ambiguità. Venendo a parlare dell’abuso della stampa da parte dei rivoluzionari, sottolineava che essi "employes it to promote impiety, disobedience to the laws of religion and the State".(20)

Nell’ Introduzione alle Memorie di G. Garibaldi A. Dumas, scrisse: "…Il carbonarismo cominciava a produrre buoni frutti, crescere in modo meraviglioso nelle Romagne… Luciano era stato innalzato al grado di gran maestro. Nelle riunioni segrete, dimostrandosi la necessità di strappare il potere di mano ai preti, s’invocava il nome di Bruto, e si preparavano gli spiriti alla Repubblica…". (21)

Dumas l’aveva pur detta la parola chiave dell’ideologia carbonara: "repubblica".

 

C’è nella storia interna della carboneria, nella sua soggiacente ideologia un aspetto che la marchia a fuoco e non poteva non renderla invisa alla gerarchia cattolica: l’ideale repubblicano. E’ stato osservato che se c’è una costante nella carboneria questa è il repubblicanesimo, una tendenza che è ravvisabile non solo negli statuti più antichi, ma anche in quelli più tardi di fine Ottocento.(22) Lo stesso Foresti fu un fervente repubblicano sin alle soglie della morte, pur riconoscendo tra gli adepti la presenza di una "discrepanza nelle forme organiche": "chi volea monarchia temperata, chi democrazia, fra cui io".(23) Foresti poi annacquò la sua fede repubblicana probabilmente solo per motivi strategici, e dopo un’aspra polemica che trovò, verso la seconda metà degli anni ’50, una larga eco persino sui più prestigiosi giornali statunitensi, in quanto, proprio perché repubblicano, fu considerato persona "non gradita" da Vittorio Emanuele II, allorché il governo americano lo propose come console a Genova.(24)

"Quando gli uomini – si legge nell’ Idea generale dell’Ordine – credettero di trovare la felicità fra le mura cittadine, e che per la comune difesa diedero il comando della loro forza ad un solo, il quale in luogo di proteggerli e difenderli ne divenne l’oppressore, e sbandita la civile eguaglianza, e intronizzato il diritto lesivo di dispotismo, di barbarie, di proprietà…".(25) La condanna del potere di "un solo", il cenno all’eguaglianza e al diritto "lesivo" di essa, ossia la "proprietà", fanno di questo primo statuto un manifesto quasi radical-giacobino dell’idea di repubblica, un’idea che fece la sua comparsa prima in Inghilterra con i "levellers" e poi in Francia. Tra l’altro, l’incipit dello Statuto sembra quasi la parafrasi di un passo dell’altrettanto odiato Machiavelli, quello "repubblicano" dei "Discorsi".

" …E quando uno popolo si conduce a fare questo errore, di dare riputazione a uno perché batta quelli che egli ha in odio…sempre interverrà ch'e' diventerà tiranno di quella città…". (26)

L’attacco al versante repubblicano dell’opera di Machiavelli fu operato subito e anche trasversalmente, come quando, ad esempio, nel 1592 si proibì la République di Bodin, intendendo però soprattutto, secondo Luigi Firpo, colpire Machiavelli. Il gesuita Antonio Passevino, nel Judicium, si scagliò sì contro il cap. 5° della République, ove si predicava la "liceità della ribellione al tiranno e della soppressione fisica dello stesso", ma le critiche più acute si appuntarono soprattutto su quei punti dell’opera che predicavano la "tolleranza religiosa, la coesistenza legalizzata delle confessioni",(27) per cui ciò che non si voleva era l’affermazione dell’indifferentismo religioso, altro argomento forte che venne usato anche nell’enciclica contro i carbonari. In effetti, nell’età della Restaurazione, specie dal mondo tedesco, da schlegel a Novalis, vengono indicazioni nette sul rifiuto dell’indifferentismo religioso. "Se è vero che il crollo della religione ( e non dei valori religiosi in generale, ma del dominio del cristianesimo sull’intera Europa) è all’origine dell’ ‘anarchia’ del tempo presente, è compito urgente far rinascere non solo una religiosità, ma anche una presenza nel mondo della religione come chiesa organizzata – di cui l’unico modello è quella cattolica. E dal momento che il rapporto tra il divino e il terreno è per i romantici quanto mai stretto, quasi casualmente determinato, il potere religioso ed il potere mondano finiscono per doversi identificare".(28) Al contrario, per i più ferventi repubblicani la tolleranza religiosa è consustanziale all’idea di repubblica; per Samuel Przypkowski (1592-1670), autorevole esponente della chiesa antrinitaria polacca, la libertà di coscienza è una "libertà fondamentale della repubblica", senza distinzione di ceti, e in forza di tale convincimento, la garantì anche per i "plebei" sin dal 1627.(29)

Poi, come ben sappiamo, tale radicalismo giacobineggiante venne ben presto espulso dal seno della carboneria, e i suoi membri più influenti e prestigiosi si volsero ad annacquarlo, ed è rimarchevole il fatto che la risciacquatura statutaria fosse eseguita in acque territoriali inglesi. Stendhal, lo sappiamo dalle più svariate fonti, fu un repubblicano convinto, elegante salottiero e sapido frequentatore della Milano bene dell’età della Restaurazione. Qui venne a contatto con gli esponenti più in vista fra quanti erano legati al Conciliatore, dal Confalonieri a Porro allo stesso Pellico: "una colonia di carbonari", commentava secco il Foscolo.(30) In una nota, Stendhal ebbe a scrivere: «  En Lombardie, le pires ennemis de la liberté sont les nobles pretendus libéraux, qui tendent à faire avorter la present révolution des esprits et veulent l'oligarchie. C'est la meme tendence qu'en Angleterre (Porro Confalonieri) ».(31) Stendhal era sulla stessa lunghezza d’onda di Buonarroti, per il quale il sistema inglese era pessimo per lo "spirito aristocratico, egoisticamente conservatore, delle caste dirigenti dell’isola",(32) e anche di Filippo Mazzei (1730-1816), il quale, dopo i primi entusiasmi, "capì che nelle leggi britanniche era presente in potenza il germe della tirannia e del governo oligarchico". (33)

Poi Stendhal si pentì, e tagliò con un deciso colpo di penna la notazione, sostituendola con un laconico "ils sont en prison et en fuite 1825". Stendhal si pentì quindi del giudizio aspro su Porro e Confalonieri: ma intanto, a caldo, aveva detto quel che pensava e solo un tardivo rimorso nei confronti di gente che era finita in esilio lo indusse a cancellare la primitiva impressione che lo aveva portato a considerare negativamente uomini che non mostravano particolari simpatie per l’ideale repubblicano, ma si volgevano verso il sistema "misto" all’inglese. Il "colpo di penna" mancato di Stendhal non sfuggì però all’occhio acuto di Alessandro D’Ancona, maestro di studi storici, alle cui doti di osservazione dobbiamo l’appunto sopra citato.(34) Resta il fatto che l’impressione di Stendhal era giusta e trova conforto anche in altre testimonianze. "Espropriata del riconoscimento di un proprio attivo spazio istituzionale – scrive M. Meriggi – l’aristocrazia locale (milanese) si arroccò alla difesa delle proprie tradizioni… Privati di una "lucrosa carriera", non pochi dei suoi rampolli rifluirono alla testa dell’opposizione liberale, secondo modalità, per altro, non prive di ambiguità". La gioventù di estrazione nobiliare dell’età della Restaurazione si muove entro un orizzonte "fortemente conservatore, per non dire regressivo". "Chi legga le memorie di Federico Gonfalonieri - continua Meriggi -, una delle figure chiave di questa parziale mutazione generazionale, dopo averne ripercorso analiticamente le ambigue tappe dell’attività politica, non può non rilevare come, accanto ai temi di progresso economico propugnati dal nobile milanese, sia presente in lui una concezione della società e del potere venata di motivi aristocratici".(35)

Dumas ci offre in successione un’altra testimonianza che in sé è abbastanza curiosa, ossia che i carbonari romagnoli elessero a loro "Gran Maestro" Luciano di Samosata.(36) Luciano, nonostante avesse prodotto, secondo la tradizione, più di ottanta opere, è ricordato soprattutto per essere l’autore della Storia Vera, che di vero però non ha proprio nulla, tanto da essere comunemente reputata come un pura opera di fantasia. In questi ultimi tempi, però, si sta via via accreditando a livello critico l’ipotesi opposta, secondo cui Luciano fosse stato tutt’altro che uno scrittore disimpegnato e puramente "fantastico", che puntava invece contro bersagli polemici ben precisi, presentando ai lettori la possibilità di mondi "altri" e comunque diversi da quello in cui si era costretti a vivere. Il mondo della luna, osserva Carini " è una varietà del mondo alla rovescia, la regione utopica con costumi e leggi totalmente difformi dalle usuali".(37) Ora, tra Sette e Ottocento, l’unico mondo "alla rovescia" realmente esperibile dai contemporanei era quello americano. Un mondo dove repubblicanesimo, libertà ed eguaglianza sembravano essersi radicati sulla terra con successo. Il mito dell’America fu tenace sin dal suo primo apparire ed ebbe una vasta eco anche in Italia, dove si assistette alla nascita di un intenso dibattito intorno all' "Americana Repubblica", che ridondava un fascino sottile su un’Europa all’affannosa ricerca dell’eguaglianza e della libertà. Per Filippo Mazzei il vero repubblicanesimo aveva la sua sede solo negli Stati Uniti. " Prima della rivoluzione americana – scrive -, non esistette mai una vera repubblica…I principi di una tale forma di governo nacquero in Inghilterra e sono maturati in America".(38) Se è vero che le opere di Filippo Mazzei non ebbero circolazione in Italia se non dal 1842, è altrettanto vero che da noi però si manifestò un entusiasmo senza precedenti per la repubblica americana, cui fu attribuito "un valore esemplare, una carica ideologica, che solitamente non era riconosciuta ad altri fenomeni analoghi".(39) A monte stava però sempre l’Inghilterra, anche se criticata per la sua involuzione oligarchica. Pur con tutti i suoi difetti, la costituzione britannica era "superiore a quanto finora è stato ideato per la libertà, eguaglianza e felicità di tutti noi".(40) Ma l’America sovrastava la madrepatria. In Italia l’entusiasmo per la "novella nazione" era eccitato dal Raynal, la cui opera fu "il più fortunato dei bestseller apparsi sul mercato librario internazionale degli anni Settanta e Ottanta del secolo diciottesimo".(41) In casa Beccaria, si ebbe una volta una discussione, cui partecipò anche il Botta, su quale potesse considerarsi l’evento contemporaneo maggiormente degno di essere cantato in un poema epico e, guarda caso, tutti si trovarono d’accordo nell’individuarlo nella rivoluzione americana che, anziché di poesia, fu oggetto dell’interesse storico del Botta. L’episodio si ricava da una lettera del Botta a G.W. Greene, Console degli Stati Uniti presso la Santa Sede. "…Ed ecco trattarvisi una sera la questione: qual tema moderno potesse riuscire soggetto atto a poema eroico. Chi ne disse una e chi un’altra; finalmente si accordavano tutti nel concludere, che uno solo dei casi moderni poteva servire all’uopo, e questo era il fatto dello sforzo americano, che condusse gli Stati Uniti all’indipendenza. Tornandomi io di là a casa, attraverso della piazza che allora si chiamava della Rivoluzione, ed ora della Concordia, andava fra me stesso ruminando così: Ma se quel fatto può essere soggetto conveniente di poema, perché non sarà di storia?"(42) Concepita intorno al 1806, all’epoca dei fatti narrati, la Storia d’America del Botta fu pubblicata a Parigi fra il 1808 e il 1809, suscitando gli entusiasmi del Manzoni, il quale, perorandone la pubblicazione anche in Italia, ne parlò come di un qualcosa di cui "nulla di eguale è mai apparso in Italia. Il soggetto è, come vedi ( l’espressione si riferisce a G. B. Pagani ), felicissimo, perché non consiste, come la più parte delle moderne storie nella narrazione di oscure operazioni diplomatiche…Ma le grandi azioni…e le generose passioni per la salute e la fondazione di un popolo".(43)

Benedetto Croce, recensendo La Giacobina, (44) romanzo di Giuseppe Marcotti ormai definitivamente consegnato agli archivi, trasceglieva alcuni passi davvero molto interessanti, che vanno a testimoniare dell’ardore carbonaro verso quel mondo americano, che Tiziano Bonazzi, con felice intuizione, definì proprio "mondo alla rovescia".(45) Allorché i due protagonisti del romanzo, dopo il fallimento dei moti, decidono di riparare all’estero, eleggono come nuova patria proprio l’ "Americana repubblica": "… C’era dunque sulla faccia della Terra un paese dove né governatori, né vescovi, né poliziotti, né preti, né birri, né carabinieri impedivano di vivere e costringevano a cospirare!". (46)

Lord Byron lo conoscono tutti. Byron, com’è universalmente noto, ebbe simpatie manifeste per i carbonari, e si narra che fosse iniziato alla Carboneria a Ravenna ( nella cui "magnifica pineta", come scriveva a John Murray, non si stancava "mai di cavalcare" ), da Ruggero e Pietro Gamba, rispettivamente padre e fratello di Teresa Guiccioli, "bella come l’alba, calda come il sole", "dittatora" del suo cuore, di cui egli era follemente innamorato.(47) Nel Journal del 18 febbraio 1821 annotava: "Oggi non ho avuto nessuna comunicazione con i miei amici carbonari; ma nel frattempo i miei appartamenti inferiori sono pieni delle loro baionette , fucili, cartucce e non so che altro. Credo che essi mi considerino come un deposito da essere sacrificato in caso di accidenti". Egli inoltre narrava che una volta, nella pineta di Ravenna, ebbe un incontro fuggitivo ma molto interessante con una loro "banda". I quell’occasione i carbonari lo elessero loro "capo" e si presentarono come "mericain", ovverossia "cacciatori americani" ( "The Mericain of whom they call me the capo" ).(48) Tale denominazione costituisce un’ulteriore testimonianza del fascino che la rivoluzione americana esercitò sui nostri rivoluzionari dell’Ottocento, che videro in quel mondo concretizzarsi quell’idea di repubblica cui essi agognavano.

Sì, la repubblica! Ma "quale repubblica"?

E’ ancora Croce a darci una mano. Un po’ prima del passo sopra citato, egli riporta un dialogo tra i carbonari:

"…- Giacché siamo in tema di propaganda, - disse lo scultore fisionomista, - se vogliamo conquistare il popolo alla causa della libertà, nel quadro simbolico bisogna far entrare gl'interessi del popolo: coll'Indipendenza e colla Costituzione ci vuole anche una buona legge agraria, che abolisca la proprietà, per metterla in comune. Lo studente romagnolo era dello stesso parere, e non esitò a formularlo in termini radicali e sonori come piace ai giovani: - La proprietà particolare è un attentato contro i diritti del genere umano…". Le proposte del focoso "studente romagnolo" ricordano molto da vicino le parole dello Statuto generale della carboneria, in cui sono evidentissimi i segnali di un repubblicanesimo radicale: lo attesta in modo particolare il riferimento chiaro alla "proprietà", elemento ritenuto "lesivo" della "civile eguaglianza". L’angolatura giacobina dell’espressione non lascia dubbi sul fatto che l’ "animus" carbonaro delle origini , la sottolineatura è doverosa tenuto conto di come andarono poi le cose, era costituito da un’ideologia repubblicana radicale ed estremista, che in Italia fu perdente su tutta la linea. Nessun giacobino italiano pensò mai di mettere in discussione il concetto di "proprietà", a parte alcune frange molto sparute, come il Ristori, o come quell’avvocato mezzo matto che era il Ranza, e fatta ovviamente eccezione per Buonarroti, che comunque intorno al 1796 era ancora relegato nella sua Corsica, dove scriveva su un giornale che nessuno nel continente lesse mai. La storia del giacobinismo radicale italiano è la storia di una sconfitta, talmente grande da far dire al Venturi che non vi furono giacobini in senso stretto in Italia, ma solo moderati. E infatti, nel romanzo, subito dopo l'intervento del "giovane", a rimettere le cose a posto ci pensa l' "avvocato": "…-Voialtri vorreste sconvolgere il mondo- oppose l'avvocato, - mentre si tratta di resuscitare l'Italia; vorreste proporre al popolo una legge agraria mentre il popolo non domanda che da mangiare a ufo e da guadagnare quattrini senza fatica…Intanto, con queste fisime la reverenda Carboneria andrebbe in fumo. Quasi tutti i cugini sono della classe benestante, e colla libertà sperano di stare anche meglio. Ma lo scultore: - Resuscitar l'Italia vuol dire un'insurrezione… - O una rivoluzione - rettificò lo studente. E l'avvocato: - La turba deve fare la sua parte, ma deve stare al suo posto di bassa forza… Reclutata fra gli artigiani, guidata dagli osti, non può avere un concetto direttivo; l'opinione pubblica che si forma colle chiacchiere, sulle pancacce e sui muricciuoli non può essere considerata…". (49)

Al di là degli stravolgimenti più o meno avvocateschi successivi, la carboneria fu, all’inizio, radicale nel suo repubblicanesimo. La cosa è sicuramente da addebitare al luogo d’origine della setta, quel regno di Napoli che forse fu l’unica "pars italica" che nutrì fin dalla metà del '600 ideali repubblicani fortemente connessi all’azione popolare, che ebbe nel popolo supporto e forza. Impossibile dimenticare la grande rivoluzione del 1648, né la figura ardente del repubblicano Giuseppe Donzelli, che vantò per Napoli una tradizione repubblicana "trimillenaria".(50) Il Sòriga, antesignano degli studi sulla carboneria, rilevava che essa si acclimatò facilmente nel Regno di Napoli, ove in breve tempo i carbonari divennero un esercito, e l’espressione è davvero azzeccata, perché era proprio tra i soldati che la Carboneria trovava il suo terreno di germinazione e di sviluppo.(51) Se la carboneria attecchì facilmente nel Regno fu perché esso era pronto, da anni, a ricevere il seme fecondatore del repubblicanesimo. Venturi scrisse che le idee repubblicane inglesi ebbero canali molto limitati verso il continente, e citava tra questi la Massoneria.(52) Il che è sicuramente vero. Però Venturi sembra dimenticare la storiografia e, perché no?, anche, come vedremo, una ridondante "mitologia" rivoluzionaria inglese, che inondò il continente a partire dal '600.(53) La rivoluzione inglese del 1647, quella dei "levellers", dei livellatori repubblicani, quella rivoluzione, dicevo, non solo fu conosciuta nel Regno di Napoli, ma venne apertamente discussa e indagata nelle sue componenti popolari e rivoluzionarie. Un evento che vedeva la "plebe" ribellarsi a uno dei sovrani più potenti d’Europa non poteva non cointeressare le menti più acute dell’epoca, né i governi potevano soprassedere a cuor leggero su eventi che avrebbero potuto riflettere sinistri bagliori sull’Europa delle aristocrazie e degli assolutismi, Chiesa compresa. Birago Avogadro, forse più acutamente di molti storici e quasi profeticamente, scrisse ": Sono le sollevazioni de’ popoli morbi contagiosi, de’ quali il pestifero veleno si trasfonde e passa da un sogetto [sic] in un altro, né per lontananza di luoghi, né per lunghezza di tempi, né per diversità di climi, né per varietà di costumi può facilmente impedirsi l’effetto di sì dannoso contagio".(54)

Quando Valsecchi, ancora in pieno Settecento, ricercava "i fonti dell’empietà" nel mondo contemporaneo non andava in Francia. Egli, a colpo sicuro e con occhio di geografo provetto, tracciava le coordinate precise dell’empietà, indicando il punto da colpire. Non la Francia, ma l’Inghilterra dei "Tolandi". "… Gli eroi principali di costoro - scrive Valsecchi -cioè gli Obbes, gli Spinoza, i Tolandi, i Bayli, i Collins, i Tyndali, i Woolstoni ed altri di simigliante valore e meriti hanno avuto per suolo natìo l'Inghilterra e l'Olanda ed ivi hanno tenuta, si può dire, scuola aperta contro la Religione Naturale e Rivelata…". Londra è " la piazza pubblica dell'irreligione e l'Olanda la fucina dei libri empi".(55) Toland non è nominato a caso fra i primi tre da Valsecchi, perché Toland non solo fu un fervido repubblicano ed esportatore dell’idea di Repubblica sul continente, ma fu anche il primo che aveva irriso spietatamente nei confronti dei dogmi e dei misteri del cattolicesimo, definendoli un blictri, ossia un "nulla senza senso".(56) Il termine testé citato compare per la prima volta in Inghilterra con Toland e nella sua opera più nota e osannata, il Christianity not mysterious. "Toland punta dritto sul ridicolo, la sua conclusione è drastica. Così come sarebbe assurdo che un giornalista raccontasse ai suoi lettori di un blictri che non sa bene cos’è, sarebbe assurdo che Dio cercasse di comunicare con gli uomini per mezzo di blictri concettuali quali sono i misteri. La Rivelazione non è ‘misteriosa’: i misteri sono stati introdotti fraudolentemente dalla tradizione cristiana da preti malvagi che se ne sono serviti per acquisire potere e ingannare il popolo, usando parole tanto difficili quanto prive di senso. Ciò vale anche per il venerando concetto di Trinità".(57) In Italia blictri è registrato, guarda caso, da quell’ateo assoluto di Leopardi, senza per altro che esso fosse accolto nel vocabolario della Crusca.(58) Il repubblicano Toland aveva quindi osato, mi si passi l’espressione, blictrificare i misteri cattolici e pertanto andava "terminato" insieme con la sua idea di repubblica.

"…Recomi in Francia – faceva dire Rosmini al suo Pio VII- a rimettervi il sacro fuoco smarrito, e porre con ciò insieme e sacrare, spero, la prima pietra d’un nuovo edifizio in Europa, di un nuovo tempio, in cui i cristiani adorino in pace il nome del Dio della pace…".(59) La Francia, dunque, agli occhi del papato, non era la maggior colpevole dell’incendio divampato in Europa in seguito alla rivoluzione del 1789, non era a essa cui si dovevano attribuire le colpe più gravi dell’empietà, che invece si annidava nelle Isole Britanniche, da dove erano partiti quegli ideali repubblicani che avevano messo in crisi irreversibile l’autorità dei prìncipi e della stessa Chiesa. Alla Francia era affidata la nuova missione redentrice. "La rivoluzione – scriveva il Padre G. Ventura -, che in quest’ultima età ha desolato la terra, il filosofismo inglese ed il fanatismo germanico ( leggi Lutero) poteron pensarla; ma la sola Francia poté compierla, ed ora essa sola può spogliarla delle sue tremende conquiste. Restituire adunque la Religione a questo popolo…era lo stesso che assicurarla all’Europa. Questa felice controrivoluzione di universale interesse dovette dunque fissare le sollecitudini, le cure, i pensieri del Capo della Religione universale". (60) Secondo Rosmini, "la matrice del dogma della sovranità popolare è ravvisabile nella violazione del principio d’autorità, operata, nella sfera religiosa, dai movimenti ereticali che costellano la storia della Chiesa, culminata nella riforma ed allargatasi inevitabilmente, dopo di questa, dal piano religioso a quello civile e politico. Alla Riforma…spetta la responsabilità d’aver posto fine al sistema della ‘monarchia temperata’ cristiana…".(61) Ma questo spirito di ribellione che agita gli animi e la "moderna" brama di scuotere ogni potere superiore in nome della libertà, non porta da nessuna parte: infatti, lo stesso fallimento dei moti rivoluzionari del 1820 è "conseguenza dello scarso valore militare degli italiani, frutto di un generale rilassamento morale".(62) Da questo momento, in un "climax" ascendente e parossistico, Inghilterra, protestantesimo, repubblicanesimo ed indifferentismo religioso sono oggetto di una condanna senza appello. Se pure la Francia s’è fatta ubriacare "da un vino di prostituzione",(63) scrive De Bonald, " l’Inghilterra è sempre il teatro di questa sorda agitazione".(64) Poiché la repubblica è "satanica", e fondata "sull’ateismo e il delitto"- rileva sade -,(65) " è con piena malafede che le chiese presbiteriane hanno preteso, a forza di parlare, di farci accettare, come un presupposto possibile,…[la] forma repubblicana…Si pretende che ogni paese abbia una sua Chiesa, repubblicana. Ma non esiste, e non può esistere, una ‘Chiesa cristiana repubblicana’…".(66) " Ci vogliono leggi fondamentali, è necessaria una costituzione! …Non risulta che i numerosi tentativi fatti per limitare il potere sovrano abbiano mai suscitato il desiderio di imitarli. Soltanto l’Inghilterra…è potuta riuscire in qualcosa di simile".(67) "Ovunque, l’indifferenza per la verità conduce al sistema della ‘libertà’ e dell’ ‘uguaglianza religiosa’. Questo sistema si sviluppa in parecchi paesi, ancor più rapidamente che in Inghilterra…[ove] si ammette, è vero, che una religione sia necessaria al popolo, ma una religione qualunque".(68) Montesquieu avrebbe del resto percepito, secondo De Bonald, la "segreta conformità tra religioni e governi", tanto da affermare che " la religione cattolica ‘si addice di più’ a una monarchia; e quella protestante ‘conviene’ maggiormente ad una repubblica".(69) Del resto i protestanti "non potrebbero mai rifiutare la tolleranza all’ateo, a meno di non abbandonare le loro stesse massime".(70) Dall’Inghilterra, faceva notare Ricuperati, erano partiti quei libri che avevano fatto il giro del mondo, e che erano tradotti prima ancora di essere stampati in lingua inglese. E non solo, continua Recuperati, ma è dall'Inghilterra che giungono nel continente quegli stereotipi linguistici che ossessivamente erano ripetuti, proiettando, "su un pubblico europeo i suoi stereotipi repubblicani...libertà, tirannia, patriota, bene pubblico,virtù...".(71) Per non parlare poi del dilagare di personaggi emblematici, come Catone e soprattutto Bruto. Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con il linguaggio carbonaro, sa che Catone e Bruto occupano un posto di primissimo piano nell'immaginario della setta. Si pensi, "e contrario" al tono del Bocchi, allorché, di fronte alle rimostranze di acuta sofferenza di Foresti, eclamava ironizzando: "Quale eroe! Che Bruto, quale Catone o Seneca di nuovo stampo!". Sottolineava poi Recuperati che " l’apologia della libertà rivestiva i panni non solo di Catone, ma soprattutto quelli di Bruto...". (72)   Ora, la figura di Bruto ha un rilievo straordinario nella cultura inglese. Nel Ser Gawain and the Green Knight, romanzo arturiano di lingua inglese composto nel 1360, Bruto, anzi "Brutus" o "Felix Brutus" è " celebrato come capostipite dei britanni sia nella Historia di Geoffrey of Monmouth che in due successivi rifacimenti e adattamenti: il Roman de Brut (1155) del troviero anglonormanno Wace, e il Brut  dell'inglese Layamon (ca. 1205). Nella storia mitologica dell'Inghilterra, divulgata da queste opere, l'immaginario eroe troiano Bruto, pronipote di Enea, era giunto nella maggiore isola d'oltre Manica e vi aveva fondato Troynovant ("la nuova Troia"), più tardi chiamata Londra...".(73) E ancora: la stella a cinque punte, uno dei più conosciuti simboli carbonari, era, nel Ser Gowain, il "nodo infinito degli inglesi". Ai vv. 625-630 si legge:

"...un segno che Salomone stabilì un tempo/ come pegno di lealtà, per la proprietà che possiede,/ poiché è una figura che ha cinque punte,/ e ogni linea si sovrappone e si concatena all'altra, e in nessun punto finisce, e gl'inglesi lo chiamano/ ovunque, come sento dire, il nodo infinito". (74)

Tale simbolo era impresso sullo scudo di Galvano, a designarne "con geometrica perfezione la qualità primaria dell'eroe, e il suo ideale caratteristico: la lealtà, intesa come virtù multipla, "quintuplice"...Il pentagramma tracciato in oro sullo scudo rimanda anche al nome di Cristo...".(75) La stessa vestizione di Galvano "sembra appartenere a un rito iniziatico,[che] culmina dunque con la consegna al giovane dei simboli sacri della "tribù".(76) Modello d'una lealtà cavalleresca che coincide con la più pura spiritualità cristiana, egli è il portatore dei valori più elevati della comunità di Camelot, il "salvatore" del suo popolo, a beneficio del quale ha deciso di sacrificarsi, mettendosi ora in viaggio quasi sicuramente verso la morte...".(77) Stella a cinque punte, simbolo di Cristo. Due motivi in uno, che della simbologia carbonara costituiscono l'elemento precipuo e al tempo stesso una delle concause della condanna espressa nell'enciclica contro i carbonari.

Secondo Noel Braisford, prima del '600 la Francia non conobbe sètte.(78) Ma l'Inghilterra sì! Anzi, le esportò proprio sul suolo francese. Quando il movimento inglese dei livellatori fu disperso, esso trovò il suo rifugio naturale nelle sètte, e un luogo ove radicarsi nella zona di Bordeaux, in cui prolificò dando vita a un "compagnonnage" di cui la Francia non ebbe il benché minimo sentore prima dell'arrivo delle frange disperse dei livellatori sul suo territorio. Infatti, le stesse rivolte contadine francesi non ebbero nulla di così radicale come quelle guidate dai livellatori in Inghilterra. Solo quando i livellatori fecero stanza a Bordeaux, "legata sin dal medioevo alla storia inglese",(79) cominciarono a circolare versi di questo tipo: La nazione bordolese ora si picca, nientemeno, che di erigersi in repubblica.(80) Nelle rivolte dei contadini francesi del ‘600 si nota la totale "assenza di coscienza riformatrice, di [un] programma sociale, paragonabile a quella dei livellatori inglesi della stessa epoca".(81) Il rilievo di Mandrou testé citato è rinforzato dalle pregnanti osservazioni di Mousnier: le rivolte popolari francesi furono guidate dalla nobiltà, e gli stessi "Croquants", nel 1636, facevano riunioni alle quali partecipavano nobili ed ecclesiastici. Si trattò di rivolte di cui spesso approfittavano briganti e vagabondi al solo scopo di saccheggio, che erano lontane da qualsiasi idea rivoluzionaria volta allo scardinamento dell'ordine feudale. Alle rivolte contadine francesi mancava un qualsiasi coerente programma politico, e il re non veniva mai messo in discussione: Viva il re senza gabelle, viva il re senza tailles.(82) Queste folle contadine altro non praticavano che "rivolte selvagge".(83) Se dunque la Francia del '600 non conobbe alcun movimento settario con un chiaro ed evidente programma politico, e se è vero che un serio programma politico radicalmente riformatore si intravide solo allorché in Francia fecero la loro comparsa i livellatori, è evidente che non tanto alla Francia si deve guardare se si vogliono individuare le matrici prime dei movimenti settari dell'Europa Occidentale, quanto all'Inghilterra. In Francia infatti le uniche confraternite esistenti, quelle dei "compagnons", non avevano un programma politico: erano, come rileva Braisford, società segrete di carattere meramente economico, con scopi puramente assistenziali, allorché qualche confratello si fosse trovato in difficoltà.(84) E l'ipotesi di Braisford possiede un suo fondamento, perché Armand Marquiset, studiando nel 1842 un'organizzazione carbonara della zona di Besançon, situata nella Forêt de la Serre, scriveva:  « … Les charbonniers étant ceux qui se trouvaient le plus nécessairement en position de demander ou de donner des secours, devaient rechercher avec le plus d'ardeur les moyens d'apporter quelque diversion à leur vie d'isolament. Il est probable qu'ils furent les fondateurs de l'association, rappelant à leur aide l'attrait du mystère, irresistible dans tous les temps et dans tous les lieux, il empruntèrent à l'art de la carbonisation du bois, leur emblèmes, leur cérémonies et leur vocabulaire symbolique ». Ma un po' prima, Marquiset era ancora più esplicito, offrendo, sia pure latamente, informazioni sia sull'antichità sia sugli scopi della società segreta della forêt de la Serre. "…Celle-ci - scrive - n'a aucun but politique; elle est née dans les temps assez reculés, du besoin qu'ont éprouvé les hommes, contraints par position de vivre dans les bois, de se rapprocher et de se secourir mutuellement...".(85) Dunque, i carbonari della Serre, organizzatisi in tempi "assez reculés", molto antichi, avevano scopi sicuramente di mutuo soccorso, ma " aucun but politique", alcuno scopo politico. Le cose mutano totalmente aspetto verso la fine del '700. Edmond Guinchard, a proposito dell' Ermitage, che servì, tra il 1840 e il 1850, alle riunioni della Vente des Bons Cousins Charbonniers de la Serre, riporta un documento interessante relativo all'anno 1792, in cui al contrario del precedente si fa menzione chiara   dello scopo politico: "…Le 1er novembre 1792. On trouve consigné dans les délibérations du Comité de surveillance de Lons-Le-Saunier que les divisions haineuses qui affligent  cette commune sont attribués aux Bons Cousins Charbonniers. Selon leur institution, dit la délibération, les Bons Cousins ne devraient se rassemler que dans les bois et nous voyons pourtant qu'ils se reunissent dans la ville pour jouer, et qu'ils tiennent registre de leurs délibérations. Chez un peuple libre, tout corporation qui n'a pas pour objet le soutien de la république ne saurait être soufferte ».(86) Ovvio che all'altezza del 1792 siamo nel culmine della rivoluzione francese, ma è sintomatico il fatto che il documento si soffermi su un punto in particolare, ossia che lo Stato non avrebbe permesso fossero sorte società che non avessero per obiettivo primario "il sostegno alla Repubblica". Il che  significa che spesso tali associazioni erano "apolitiche", e che nei loro statuti si rifacevano alle più antiche strutture del "compagnonnage", che sottolineavano, appunto, l'aspetto puramente economico-assistenziale di esso. Come dunque suggerisce Braisford, le confratenite dei "compagnons" erano società segrete di carattere puramente economico. Solo quando i livellatori fecero la loro comparsa a Bordeaux, nel programma dell' "Ormée" si individuano elementi repubblicani e decisamente riformisti. Quando i livellatori si insinuarono fra i "compagnons", nacque "il partito repubblicano di Bordeaux", con un programma molto vicino a quello dei livellatori, fino a prevedere " una rivoluzione repubblicana di tipo inglese".(87) Insinuatisi quindi nelle confraternite dei "compagnons" con un programma essenzialmente politico, gli "ormistes" sconvolsero le strutture della primitiva organizzazione, dandole un'impronta livellatrice e facendole superare gli antichi caratteri economicistici e vagamente religiosi. Questo in Francia.

E in Italia?...

E in Italia? Per Franco Venturi "resta il fatto che la rivoluzione inglese non suscitò quell’ondata ideologica che accompagna altre e posteriori rivoluzioni europee. Le idee dei "levellers" furono certo conosciute, ma non suscitarono movimenti politici di qualche portata al di là della Manica. Le idee nate dall’Inghilterra…erano destinate a passare sul continente soltanto in forma filosofica che diedero loro John Toland e Antony Collins, quando si presentarono cioè come deismo, come panteismo, come libero pensiero, come esaltazione della libertà inglese, magari come framassoneia. Soltanto così le idee dei levellers e dei repubblicani classici dell’Inghilterra seicentesca divennero cosmopolite e poterono attecchire in Francia, in Germania, in Italia…".(88) In realtà, possediamo prove che contraddicono Venturi, perché i "radicals" divennero noti anche per altri canali, ben più concreti del filone puramente "filosofico", specie in una zona "calda" come il Regno di Napoli. Qui gli avvenimenti inglesi vennero conosciuti pressoché subito, provocando un immediato interesse in storici molto attenti come Siri e Bisaccioni, i quali si resero subito conto di trovarsi di fronte a eventi politici di portata incalcolabile. Essi intuirono che il "popolo" inglese stava lottando per una "Repubblica popolare", per la "Democratia". Il popolo dunque, rilevava Bisaccioni, " con fierissima avversione alla Monarchia…anela a fabbricare su le rovine dello Stato Monarchico quello della Democratia". Una volta condannato a morte Carlo I, sia Siri sia Bisaccioni avvertono con stupore incredulo che in Europa è accaduto l’impensabile: "Fu tramutata la Monarchia in una Democratia"; "fu dunque introdotta la dominatione del popolo".(89) Siri e Bisaccioni scrivono di "storia contemporanea", di fatti recentemente accaduti, e lo fanno in forme squisitamente storiografiche, interpretando i fatti, e senza le velature di una qualsivoglia mediazione filosofica. Impossibile poi dimenticare la figura ardente del repubblicano Giuseppe Donzelli, che vantò per Napoli, già s’è notato, una tradizione repubblicana "trimillenaria". "Qual persona può trovarsi così temerariamente ignorante che…non sappia che la città di Napoli è stata Repubblica libera per lo spazio di tremila anni…?".(90) Così Donzelli, che, certo, si rifaceva a una "tradizione infondata, una sorta di mito intellettuale, ma ampiamente diffuso e accreditato, e che ora alimentava concrete prese di posizione politiche".(91) Donzelli guardava con "simpatia l’esplosione del moto popolare", voluto da "genti di humilissima conditione". Donzelli, insieme con Sebastiano Bartoli, Leonardo di Capua, apparteneva all’ "Accademia degli Investiganti", che sferrò un attacco senza precedenti contro il "potere", non solo in nome di un rinnovamento della scienza, ma anche della società civile, pagando alla fine con una sconfitta bruciante. Né si può sottacere che gli "Investiganti" ebbero contatti significativi con studiosi inglesi in quegli anni rivoluzionari, e sappiamo che Philiph Skippon e John Ray, futuri membri della "Royal Society", assistettero a Napoli ad alcune adunanze degli Accademici. " Nel palazzo del marchese di Arena – narra Skippon -, il 29 giugno, fummo introdotti nella sala dove gli Accademici Investiganti si incontrano ogni mercoledì pomeriggio, e notammo circa 60 persone presenti".(92) Ora, si tratta evidentemente di contatti importanti, con personaggi del mondo della cultura di una nazione, l’Inghilterra, appena uscita da una "rivoluzione" che non aveva precedenti nella storia, e che possono aver rinvigorito i sentimenti repubblicani che già erano presenti in molti "Investiganti". Nelle espressioni del Bartoli emergono insofferenza e volontà di lotta contro un potere che angustiava la vita dei cittadini, privandoli persino del necessario per vivere: " Nell’Università non meno ha luogo il viver sano, che l’aver con che vivere, come fu ben notato dal Bodino […] ecco che per istabilir in pace la Repubblica non solamente si richiede, ma è necessario, che si pensi come debbiamo vivere […] Non solamente è cara la vita agli uomini, ma si rende lor odiosissima, quando non hanno come sostentarla…".(93) E Donzelli: " Fra tanto lo specioso, e dolce suono della voce di Repubblica [sic], aveva penetrato gli orecchi ma molto più vivamente i cuori de i veri amatori della Libertà […]. Ed in vero è la Libertà una delle più nobili prerogative dell’huomo; et un cibo tanto soave e di così perfette sostanze, che col solamente odorarlo, ha facoltà di nutrire: onde non è meraviglia se viene così ardentemente desiderato…e tanto più da quei Popoli, che essendosene, per migliaia d’anni, quietamente pasciuti, ne sono poi stati, per molti secoli, amarissimamente digiuni".(94) Nel caso di Donzelli, sottolinea Messina, " l’esaltazione ideale di libertà…sfocia nella proposta politica di una repubblica indipendente".(95)

Nel Regno di Napoli, quindi, fu la politica viva proveniente dalle Isole Britanniche a essere ripensata in funzione di una iniziativa "nazionale", e in questa lettura degli eventi inglesi non agirono stereotipi filosofici, bensì immediate, contemporanee "emozioni politiche", e altrettanto simultanee concretizzazioni rivoluzionarie. Per converso, gli inglesi dimostrarono altrettanta attenzione agli avvenimenti di Napoli. Ben tre furono le edizioni londinesi della cronaca della rivoluzione di Alessandro Giraffi. A Londra e in Inghilterra "la conoscenza dei fatti fu tempestiva…Il tentativo di rovesciare un dominio monarchico che tutti i viaggiatori avevano giudicato solidissimo cadeva naturalmente su terreno fertile, coincidendo con la svolta repubblicana della rivoluzione inglese..".(96) Così, mentre Howell traduceva la storia del Giraffi, uscivano anonime la "collection of Proclamations and Edicts issued at the time of the rebellion of Masaniello" del 1647; la "True Relation of the reducing of the City of Naples", del 1648; la "Rebellion of Naples", del 1649; oltre la " An exact historie of the Late Revolution in Naples" dello stesso Howell del 1650.(97) Intorno al 1763 Walpole annotava che oltre 40000 erano stati gli inglesi che avevano visitato l’Italia, dando il via a un turismo di massa che gli italiani sapevano sfruttare a dovere, operando "un commercio di opere d’arte per i grandi collezionisti ed un altro di copie, di stampe o paccottiglia antiquaria per la massa".(98). Livorno, sin dal ‘600 fu un emporio inglese e a poco a poco anche il Regno di Napoli divenne un partner commerciale talmente importante "che la maggior parte dei tessuti inglesi che giungevano in Italia negli anni sessanta del XVII secolo [venivano] assorbiti dal mercato meridionale".(99) La stessa Sicilia subì influssi economici e culturali che coinvolsero tutta la gioventù e la società in genere, promuovendo nell’isola un costume fortemente ispirato allo stile inglese.I nobili isolani "si orientarono più decisamente verso il pensiero e la cultura inglese, che, come prodotto di una nazione considerata modello di libertà e di progresso, ben soddisfacevano il loro desiderio…Economisti e scrittori di diritto pubblico inglesi furono studiati con interesse e ardore crescenti, sino al punto che in Nicolò Palmeri ‘ crebbe sì forte – com’egli dice – l’affetto per L’Inghilterra e poi per le cose inglesi che volgeva in entusiasmo". I rapporti commerciali, già notevoli nei secoli precedenti, furono particolarmente vivaci durante l’età della Restaurazione.(100)

Riposto, paesetto di verghiana memoria dove Bastianazzo era andato a vendere i suoi lupini, condivideva "con Marsala il primato nell’esportazione dei vini siciliani", particolarmente apprezzati da Nelson, duca di Bronte. "Nonostante l’accanita concorrenza, rileva Vecchiato, la Gran Bretagna era il miglior cliente della Sicilia", che inoltre esportava negli Stati Uniti e in Inghilterra rispettivamente 104.835 e 98240 casse di agrumi, cosa che faceva dire a un viaggiatore inglese: " the sicilian fruit is not only good in quality, but peculiarly adapted to long voyages".(101) Oltre ai viaggiatori, è necessario poi mettere in conto, già si è visto, gli intensi rapporti che legavano gli scienziati inglesi a quelli italiani, specie con Firenze e con il Regno di Napoli, rapporti che "furono molto più intensi e continuativi di quanto non lascino pensare [le] rapide annotazioni di viaggio" di alcuni di essi.(102) Dopo lo sterminio dei "levellers" e dei "diggers" (zappatori) nel 1649-’50, non vi fu, secondo Hill, una loro dissoluzione totale, le loro convinzioni politiche "sopravvissero come tradizioni sotterranee, clandestine", né di deve parlare di una "insignificanza numerica delle idee radicali".(103) Certamente, quando Hill suggerì l’ipotesi che la cultura "diggers" non si fosse dissolta, e anzi si fosse perpetuata in una sorta di tradizione "underground", vi fu una generale levata di scudi. Richard Schlatter, con pungente ironia, asserì che le idee dei "radicals" erano sì sopravvissute, ma solo nella mente di Hill.(104) Al di là degli slogan ad effetto, forse la cosa andrebbe ripensata. In tanta circolazione di uomini e di idee, oltre ai 40000 viaggiatori ricordati da Walpole e a numerose comunità di "mercanti inglesi" con sede stabile a Livorno,(105) non è da sottovalutare la presenza in Italia di numerosi marinai inglesi. I mari italiani erano infatti battuti dalla flotta inglese, e ai vertici di essa la Pagano De Divitiis ricorda un personaggio molto interessante, Sir John Lawson, "ammiraglio anabattista e repubblicano…[che] comandò la flotta del Mediterraneo dal 1661 al 1664 in varie riprese".(106) La tutt’altro che breve permanenza di Lawson ai vertici della flotta inglese nel Mediterraneo potrebbe portare molta acqua al mulino di Hill. Dopo la rivolta del 1649 e l’imminente quanto temuta rivalsa di Cromwell, molti marinai si posero sotto la protezione del vice ammiraglio Lawson, sotto il cui comando, già in passato, "erano stati ben organizzati", al punto che "il Lord Generale non osò intervenire". Lawson fu, tra l’altro, fu un autorevole esponente del movimento livellatore e nel 1665 "cospirò col colonnello Overton contro il protettorato".(107) I marinai costituirono quindi un altro canale potentissimo di diffusione delle idee radicali nel Mediterraneo, e proprio in anni cruciali. Fu infatti a partire dal 1649 che prese avvio la "dispora" dei marinai inglesi dalla flotta della madrepatria, con una dispersione di uomini senza precedenti nella storia della marina britannica. Data la loro perizia, anche nelle condizione più avverse, i marinai inglesi erano appetiti da tutti gli stati italiani, da Venezia a Napoli. " Da un’indagine svolta nel 1675 - scrive Pagano De Divitiis -, dal console inglese a Napoli, George Davies, presso il principe di Montesarchio, ammiraglio della flotta spagnola, risultava che cinquanta su sessanta marinai erano inglesi". Così, da Livorno a Napoli i regnanti italiani intendevano "valersi di vasseli [sic] e uomini di altre nazioni che si trovano sul loro territorio".(108) Molti marinai inglesi, o per costrizione o per il miraggio di paghe più alte, spesso fuggivano o, peggio, si ammutinavano, come nel caso dell’equipaggio della "Howness Adventure", attraccata a Napoli, che dopo aver bastonato a morte il capitano Broom, chiese asilo politico in città, "rifugiandosi in chiesa".(109) Nel Regno gli inglesi "scandivano non solo il tempo politico, ma anche quello del commercio". (110)

E fu appunto in Sicilia e a Napoli che prese piede, verso la fine del Settecento, una setta fieramente "avversa" alla Massoneria. Durante il suo viaggio in Italia teso ad auscultare lo stato di salute delle varie logge massoniche disperse per la Penisola, Münter ebbe notizia che nel 1786 tra Messina e Napoli era sorta una setta molto potente, che aveva messo in crisi l’intera rete della massoneria del Regno, e che anzi esponeva al ridicolo i suoi componenti. Era la setta degli Zappatori .(111) " Si tratta di una società sorta a Napoli ed in Sicilia, avversa alla libera muratoria. Il suo scopo era quello di tradire il nostro Ordine, di renderlo ovunque ridicolo e di svelare al pubblico i nostri segreti…Erano riusciti a infiltrarsi nella loggia del duca di San Demetrio ed in altre ancora. Erano molto temuti a Napoli e a Palermo…Hanno logge regolari con tutte le loro cariche. Il loro motto è, soprattutto nella corrispondenza epistolare: Fratello ricordati che spendere denaro è una coglioneria!’…".(112) Ora, è quasi impossibile non riconoscere in una setta di tal genere riflessi e influenze inglesi. "Fratello, ricordati che spendere denaro è una coglioneria". Il motto riprendeva gli "aforismi" di Benjemin Franklin persino nella struttura sintattica: "Ricordati che il tempo è denaro". E’ Franklin che "predica questi aforismi" – osservava Weber – e " nessuno vorrà porre in dubbio che da essi parli lo spirito del capitalismo".(113) Gli zappatori  furono, in effetti, i più fieri avversari della Monarchia, gli unici tra gli stessi livellatori a mettere in discussione la proprietà privata e a propugnare il radicalismo repubblicano, volto a riformare "rooth and branch" (dalle radici) l’intera società.(114) In questa setta sono però ravvisabili anche influenze "americane", e probabilmente essa risentì delle riforme introdotte da Benjemin Franklin nel mondo settario degli Illuminati, che furono da lui coinvolti, secondo Kosellek, in un’ideologia repubblicana.(115) Il repubblicanesimo inglese, filtrato dagli americani, divenne infatti "un ideale…che si collocava fra l’etico e il politico ed era perciò particolarmente adatto alle condizioni americane. Per questo divenne la bandiera dei rivoluzionari che con esso, con il programma cioè di dar vita a una società nuova impossibile nelle condizioni presenti, diedero una giustificazione sostanziale alla lotta per l’indipendenza".(116) In Italia, e in particolar modo nel Veneto, pur inneggiando da più parti al Franklin, lo si considerava, più che un americano, un "inglese", e per tale ragione l’"Americana Repubblica" diventava come una propaggine delle idee maturate in Inghilterra. Così Franklin era "un inglese abitante in Filadelfia d’America", un "libraro inglese" e, infine, "un esprit propre de la Nation Anglaise".(117) La matrice anglo-americana della setta degli zappatori, con i suoi componenti contraddittori, misti di radicalismo democratico-repubblicano e di elementi capitalistici, pare ripetere "ante litteram" la situazione confusa della carboneria. Molti osservatori attenti del mondo settario carbonaro lo giudicarono infatti poco lineare, confuso, contraddittorio, poco chiaro: la carboneria fu paragonata a un grande fiume in cui confluivano acque molto diverse le une dalle altre. Il sintomo lo si vede chiaramente nello Statuto Generale, ove si notano, accanto a generici riferimenti all’eguaglianza, altri specifici riguardo alla "proprietà", ritenuta "lesiva" dell’eguaglianza. E ciò è probabilmente il frutto del compromesso cui la carboneria dovette assoggettarsi nel momento della sua rapida acclimatazione nel Regno di Napoli, ove appunto erano presenti componenti radicali, che premevano per un riconoscimento della loro presenza a livello statutario.

Ma al di là delle diversità ideologiche tra repubblicanesimo democratico livellator-giacobino e repubblicanesimo moderato, forte sia al Sud come al Nord, con spostamenti, come abbiamo già visto, verso soluzioni di tipo "misto", all’inglese, di un Porro e un Confalonieri, resta il fatto, fondamentale, che la carboneria fu repubblicana almeno nella sua sostanza programmatica originaria, e ciò non poté sfuggire all’occhio indagatore della Chiesa, che all’indomani della Restaurazione e memore degli incendi politico-religiosi che il repubblicanesimo aveva provocato nell’Europa cristiana, e che gli attacchi più virulenti sin dal profondo Settecento contro l’autorità del papa vennero dall’Inghilterra, voleva chiudere definitivamente i conti con un fenomeno perverso e "satanico". La Chiesa volle quindi, e qui ci si spiega la durezza dell’enciclica contro i Carbonari, più che colpire una setta che in fondo contava nel suo seno esponenti quasi tutti cattolico-romani di stretta osservanza, come testimonia la presenza di tanti ecclesiastici, chiudere per sempre i conti con quel "nido di vipere" protestante in cui, per De Maistre come per Rosmini, stavano le "radici" di ogni male politico e religioso che aveva minato la salute dell’antico regime. "…Il grande nemico dell'Europa, sentenziava inappellabile De Maistre, l'ulcera funesta che intacca tutte le sovranità…il padre dell'anarchia, l'universale dissolutore è il protestantesimo… E' nato ribelle, e il suo stato abituale è l'insurrezione…E' nato ribelle, e il suo stesso nome è un crimine, perché protesta contro tutto…".(118) Ecco quindi perché la Carboneria venne "terminata" e assimilata "tout court" alla prima, vera e sconvolgente eresia dei primi secoli cristiani, il priscillianismo. Ed eretici senza possibilità di appello furono appunto definiti gli aderenti alla setta, con tutte le conseguenze che comportava la condanna, fino al punto da spingere i "buoni cugini" a denunciare all’autorità ecclesiastica persino i familiari più prossimi.(119) Da qualunque parte si osservi la questione, che l’ideale carbonaro fosse repubblicano, sia pure con le sfumature più varie e diversificate, come sosteneva Mazzini, restava il fatto, certo, inequivocabile, chiarissimo agli occhi della Chiesa, che esso promanava dal mondo dei protestanti.Il canonico napoletano Arcucci protestava che fra i carbonari non v’era "ombra…di opposizione con le massime della religione", e la loro società aveva solo "un oggetto politico".(120) Senza sospettare che era appunto quell’ oggetto che condannava inesorabilmente lui e la setta cui aderiva. L’ingenuità di gran parte della "base" carbonara traspare chiaramente dalle fonti; un’ingenuità ideologica, un entusiasmo patriottico che fu strumentalizzato, e vedremo come, da uomini come Porro e Confalonieri, i quali nascondevano alla base un "grande segreto", oscurando con tecnica tutta massonica obiettivi molto meno nobili di quelli con cui manipolavano la "massa".

E’ un fatto che la Carboneria non godesse di buona fama nell’Europa contemporanea. Attorno ad essa v’era un "vuoto", che andava dall’irritazione, all’irrisione oppure all’indifferenza, o, per dir meglio, quella che ai carbonari (e a molti loro interpreti) poteva "sembrare" indifferenza, ma che in realtà era ben altra cosa. L’irritazione maggiore veniva, come abbiamo visto, dal mondo cattolico e dalla Francia, da sempre "cristianissima", secondo il Papato, che anzi vedeva in essa la forza propulsiva per scardinare l’ "empietà". L’irrisione proveniva invece dalle regioni tedesche, Germania e Austria. I tedeschi mostravano sia scarsa propensione per i movimenti rivoluzionari sia disprezzo per un popolo italiano ormai definitivamente decaduto e privo di qualsiasi virtù militare. L’avevano dimostrato i moti del 1821, domati con estrema facilità da Metternich, tanto che in Germania più d’un liberal-radicale deluso aveva messo il nome di "Pepe" al proprio cane.(121) " Ho avuto modo – scriveva Arndt – di vedere e sentire abbastanza ‘fuoriusciti’ italiani. Ci si spaventa e contemporaneamente ci si rattrista all’udire la vacuità delle aspettative e speranze di una Italia unita, grande e potente, con le quali essi si consolano e si cullano…".(122) E a Gentz la rivoluzione napoletana era parsa "talmente ridicola e disprezzabile da superare di gran lunga perfino l’opinione sfavorevole dei suoi più decisi oppositori".(123) Addirittura sarcastico Metternich: " I radicali si sono detti vicendevolmente tante menzogne che ora si dovranno alquanto vergognare".(124) L’Inghilterra, dal canto suo, stava alla finestra, certo sempre pronta a intervenire qualora un’improbabile vittoria dei carbonari avesse portato a un’espulsione dell’Austria e a un intervento francese. L’Inghilterra sembrava insomma "attendista" e senza alcuna voglia di sbilanciarsi più di tanto finché l’Austria avesse saputo mantenere le posizioni in Italia, e pertanto non si fosse incrinato quello "status" di "equilibrio" sul quale la "Perfida Albione" aveva fondato la sua politica secolare nel Mediterraneo. Una cosa è comunque certa: anche se ogni tanto correvano voci, allo scoppio dei moti del ’21, sempre smentite nei fatti, di un intervento inglese,(125) l’Inghilterra non sarebbe mai intervenuta militarmente in Italia. Gentz l’aveva pur manifestata la sua impressione a Metternich durante i lavori del Congresso di Vienna: l’Inghilterra mirava solo e soltanto alla "peace", pace comunque e a ogni costo ( "…England wished for peace, peace before everything, peace –I am sorry to say it—at any price and almost on any conditions…").(126) Lo stesso Castlereagh in una minuta del suo Gabinetto del 1820 si era espresso in termini tutt’altro che ambigui. Il pensiero di Lord Castlereagh era tutto votato alla prudenza e alla "peace". Né mai, asseriva Castlereagh, l’Inghilterra si sarebbe esposta con una nuova guerra per motivi "intellettualistici" o anche per semplici motivi precauzionali. L’Europa scaturita dal Congresso, afferma lord Castlereagh, sarà dominata "by the Peace under the Protection of the Alliance", né "this Country ( ossia l’Inghilterra) cannot and will not act upon abstract and speculative Principles of Precaution…".(127) La classe dirigente inglese degli anni ’20 si muoveva, dopo un venticinquennio di guerre, con una cautela che non conosceva confronti con la politica estera inglese precedente. Così, mentre i carbonari aspettavano ansiosi di veder apparire all’orizzonte la flotta inglese, nulla di concreto accadeva, né sarebbe potuto accadere, anche se gli inglesi, tutto sommato, avevano da sempre manifestato simpatie per l’Italia. E non ci si riferisce solo all’ospitalità concessa ai nostri patrioti e all’appoggio del circolo di Lord Holland, considerato da Metternich una vera spina nel fianco, ma anche ad altri comportamenti significativi.(128) Nel 1815, per esempio, furono lord Castlereagh e il suo sottosegretario agli affari esteri Sir William Richard Hamilton (1777 – 1859) a permettere al Canova il successo della sua missione tesa a richiedere la restituzione al papa delle opere d’arte trafugate da Napoleone.(129) Nello Rosselli commentava con toni aspri l’attività del "foreign office", che sembrava immerso nel più "alto sonno" e colpito da "subitanea miopia", nonostante gli allarmi che venivano dall’incaricato d’affari Percy nel regno Sabaudo.(130) Né Rosselli né tantomeno i carbonari prima avevano in effetti intuito che ormai le cose erano profondamente mutate e che il governo inglese aveva definitivamente acquisito un’ottica che avrebbe condannato i carbonari all’isolamento internazionale. Era ormai chiaro che il benessere interno dell’Inghilterra dipendeva dal buon andamento del commercio estero, né questo era obiettivo perseguibile in tempo di guerra, quando "i mari erano infestati dalle navi nemiche".(131) Sottoccupazione, disoccupazione, denutrizione avevano provocato durante le guerre napoleoniche una situazione insopportabile in Inghilterra, che fu costellata di numerose e pericolose rivolte destabilizzanti: 1811, 1816, 1817, 1819.(132) Di qui dunque si spiega l’estremo atteggiamento di prudenza di Lord Castlereagh e del suo Gabinetto sulla questione italiana, fatto non di "indifferenza", ma essenzialmente di attenta osservazione dell’evoluzione degli avvenimenti, di simpatetica ansia con Metternich, e mai di decise prese di posizione o, peggio, di impossibili interventi che avrebbero gettato l’Inghilterra in un probabile e tutt’altro che remoto caos interno, in una situazione economica ingovernabile.

Le ragioni del nuovo corso della politica estera inglese dei primi anni Venti dell’800 è stata ben spiegata da P. Deane, per la quale "il ruolo del governo del diciannovesimo secolo per la promozione del benessere nazionale doveva essere più attivo e meno casuale…". Al fine dunque di evitare crisi economiche e rivolte provocate da una "disoccupazione totale", "l’accresciuta importanza del commercio internazionale significava che sempre più spesso le cause dell’instabilità economica all’interno erano determinate da elementi che potevano essere modificati in base alla politica economica adottata dal governo…[che si rendeva conto] con maggiore responsabilità rispetto ai loro predecessori del secolo precedente, che l’adozione della politica economica più appropriata richiedeva ponderazione e la precisa definizione della linea d’azione da perseguire…".(133)

Tra l’altro il feeling che l’Inghilterra mostrava con L’Austria derivava sia da una visione sincrona con il pensiero di Metternich per quanto riguardava la presenza austriaca nel Regno di Napoli, in funzione antirussa e antifrancese, sia da un’ eguale attenzione al valore della "pace", che in quegli anni veniva maturando anche nel mondo tedesco e in ambienti culturali espressione del pensiero politico del principe di Metternich. Per essi la pace costituiva "il fine ultimo di uno "Staatenverein" costruito su un fondamento religioso".(134) A tutto ciò si deve poi aggiungere un contributo che non passò certamente inosservato, pubblicato proprio nel 1814, in concomitanza con l’apertura del Congresso di Vienna. Nell’ Esprit de conquêt, Constant scrisse: "Noi siamo nell’età che deve necessariamente sostituire l’epoca delle guerre…Poiché guerra e conquista non sono in grado di procurare i vantaggi e la tranquillità che ci danno invece commercio e industria, allora le guerre non hanno più nessuna utilità e la guerra vittoriosa è un cattivo affare anche per chi la vince".(135) Lord Castlereagh avrebbe sicuramente sottoscritto le parole di Constant, e del resto lo fece e lo disse a chiare lettere in un dispaccio a Liverpool del 1818 che l’alleanza scaturita dal Congresso di Vienna "costituiva il presupposto indispensabile della pace", poiché essa dava " aux conseils des grandes puissances l’efficacité et presque la simplicité des volontés d’un seul Etat".(136) Il concetto fu espresso quasi con le stesse parole da Metternich: "C’est que depuis longtemps l’Europe a pris pour moi la valeur d’une patrie".(137) E quanto alla presenza dell’Austria in funzione antirussa, vi fu nel nostro Parlamento, all’indomani dell’Unità, una strana quanto sorprendente ripresa di certi motivi "filoaustriaci" che ricordano molto da vicino la politica estera di Castlereagh. Felice Cavallotti, fiero "bardo della democrazia", forse dimentico di certe sue antiche convinzioni, faceva "alla Camera dichiarazioni che avrebbero anche potuto far strabiliare": " L’impero austriaco è una necessità per noi. Quell’impero e la Confederazione elvetica ci tengono a giusta distanza da altre nazioni che noi vogliamo amiche…ma il di cui territorio è bene non si trovi in immediato contatto con l’Italia".(138) L’allusione alla Russia è fin troppo scoperta. Infatti "solo l’Austria, inorientandosi, è in grado di opporre una valida barriera contro il minaccioso traboccar della Russia, contro il pericolo della unificazione zarista dei Balcani, da cui l’Italia sarebbe direttamente minacciata nel Mediterraneo e nell’Adriatico".(139) Così Cavallotti. Ma un conto è la reboante retorica patriottica, e altro la "realtà effettuale". Quello stesso realismo cui, appena fatta l’Unità, dovette assoggettarsi la Destra, permettendo cospicui, anche se non eccezionali, investimenti austriaci nella Penisola, investimenti che avvenivano surrettiziamente, quasi per una sorta di ritegno, attraverso banche che portavano nomi italiani e che "daL pubblico son credute italiane".(140) E mentre s’attendeva ansiosamente l’aiuto dell’Inghilterra che, come ha incisivamente osservato Hobsbawm non aveva la benché minima intenzione di intervenire militarmente per controllare l’Europa, poiché la sua supremazia era assoluta e da tutti riconosciuta,(141) Mazzini stigmatizzava il fatto che alcuni "capi" carbonari si dessero affannosamente da fare per aggregare a sé, vista anche la situazione internazionale, qualche sovrano "locale", pensando al Piemonte o al Regno di Napoli. Sbagliando, secondo Mazzini, perché essi, anziché cercare l’aiuto di infidi regnanti, avrebbero dovuto dare coesione programmatica al popolo, "principale operatore delle grandi rivoluzioni".(141)

Non costituisce però segreto cosa intendesse Mazzini per "popolo".

"Asino colossale ", "ridicolo", "somaro", "imbecille", "infame": questa scarica di pallettoni fu scagliata con vigore oratorio da Carlo Marx contro "Teopompo", Mazzini, il quale, a parere di Marx, non sapeva gestire la ribellione dei contadini italiani, "vessati fino alla stupidità".(142) Con ogni probabilità Mazzini non meritava di essere letteralmente lapidato con insulti da taverna, in quanto egli partiva da premesse di gran lunga diverse da quelle di Marx. E’ evidente che il "popolo" di Mazzini era quello "senziente" e mediamente "litterato", genericamente borghese e in grado di intuire il suo messaggio politico-religioso, tutt’altro che facile; ed è altrettanto indubbio che il popolo in senso stretto, quello contadino, rimaneva fuori dell’orbita mazziniana, almeno nell’immediato. Successivamente, allorché il popolo "senziente" avesse maturato quell’ideale moralità cui puntava l’azione educatrice mazziniana, solo allora, per azione "trascinatrice", anche il "popolo contadino" sarebbe stato oggetto di attenzioni, con l’eliminazione progressiva e graduale delle secolari ingiustizie che lo attanagliavano. Nell’ottica di Mazzini, dunque, quel popolo, che però per il momento era solo "plebe", poteva e anzi doveva essere riassorbito nel concetto di "popolo", ma solo più avanti, quando cioè il "popolo vero" avesse maturato quella coscienza del "dovere", del "fare per la patria", come ispirato da un profondo spirito di moralità patriottica e religiosa. Anche i fratelli Bandiera, annotava Gramsci, discepoli di Mazzini, allorché fondarono la loro società segreta, l’ "Esperia", raccomandarono caldamente di non acquisire la plebe ignorante.(143)

Tuttavia, la focosa, irriverente e ingiuriosa irruenza di Marx nei confronti di "Teopompo" era probabilmente, "sic et simpliciter", sbagliata. E lo era perché si fondava su idee generali di "rivoluzione contadina", senza tener conto della realtà italiana di quegli anni. Marx non si era reso conto del fatto che ben difficilmente Mazzini dopo e i carbonari prima di lui avrebbero potuto, quand’anche avessero voluto, coinvolgere il mondo contadino italiano in esperienze rivoluzionarie. E ciò, in primis, per la natura stessa del movimento settario, che fu un fenomeno prettamente urbano. La struttura latomica delle sètte implicava necessariamente un’impossibilità palese di una propaganda a largo spettro e di un coinvolgimento "popolare" in senso stretto, che abbisognava, oltre che di programmi chiaramente percepibili, anche di una "piazza" ove poter far circolare le idee, e quando si dice "piazza", si intende "esercito". In secondo luogo, se Mazzini non aveva voluto nell’immediato rivolgersi al popolo contadino, prospettando per esso miglioramenti a lungo termine, la Carboneria non avrebbe potuto, neppure se lo avesse voluto ( e i carbonari, come Mazzini, non volevano ), coinvolgere le masse contadine, perché, lo si voglia o no, il movimento settario carbonaro non fu, a ben vedere, e nonostante le reiterate profferte repubblicane, nient’altro che un fenomeno moderato-conservatore con scarsissima propensione all’attuazione di uno Stato repubblicano di qualsiasi tinta e colore e men che meno un movimento teso a responsabilizzare e a coinvolgere il mondo contadino . Al di là del fatto che un programma carbonaro "comune" non esisteva, e in ciò Mazzini aveva perfettamente ragione, perché la Carboneria era appunto quel "gran fiume" in cui affluivano i torrenti inquinati delle più diverse ideologie, da quella repubblicana a quella monarchico-temperata, venata di costituzionalismo, "a monte" c’era una difficoltà oggettiva, che sicuramente avrebbe impedito una qualsiasi possibilità di successo delle "avances" carbonare verso il popolo contadino, semplicemente perché esso, dopo l’età napoleonica, era diventato, mi si passi l’espressione, come quella famosa camera sotto Luigi XVIII in Francia: "introvabile". E la ragione di fondo di codesta "irreperibilità" del contadino stava nella composizione degli eserciti in Italia così come si vennero configurando nell’età della Restaurazione. L’esercito era infatti l’unico luogo deputato in cui la Carboneria avrebbe potuto, se però "avesse potuto", far leva sul contadino-soldato , ma la verità è che gli eserciti italici non erano più, né in Piemonte né nel Regno di Napoli, gli stessi degli "anni francesi", e le leve erano più che altro medio o piccolo borghesi, sia fra la truppa che tra i sottufficiali, mentre gli alti comandi avevano aderito alla Carboneria per fini che non potevano essere facilmente confessabili.

Nel Lombardo-Veneto

Nel Lombardo-Veneto il carbonarismo fu essenzialmente un sommovimento sotterraneo di "ceti" emergenti, che non intendevano tanto scardinare l’ordine costituito quanto aprirsi un varco verso il potere. Particolarmente visibile è che qui la lotta contro gli Austriaci si configurò essenzialmente come un tentativo da parte dell’antica nobiltà di riappropriarsi di quei ruoli dai quali era stata scalzata dalla politica efficientistica messa in atto dal governo austriaco, che cercava soprattutto "competenza amministrativa" nei suoi funzionari. "L’indipendenza dall’Austria" diventava per essi non tanto un "valore" trascinante verso una sorta di "indipendenza" della nazione "italiana" dallo straniero, quanto la "condicio sine qua non" di una vagheggiata e poi non realizzata "reconquista" di quegli apparati statali che lo Stato-burocratico austriaco aveva avviato tutto sommato con successo "contro" una nobiltà che pretendeva uffici senza averne le qualifiche culturali, sotto il segno dell’efficienza e dell’uguaglianza sostanziale dei propri funzionari, valorizzati dallo Stato in virtù del merito e non dei titoli. Ma era proprio questo che invece l’antica nobiltà voleva: il riconoscimento di un ruolo di prestigio, un ritorno all’antico. E fu con questi intento e con questi scopi che gran parte dell’antica nobiltà aderì alla Carboneria. Il Sardagna, intuì tutto questo e cercò di avvertire in tutti i modi Metternich a Vienna, osservando che dietro lo scontento generale c’erano le attese deluse della maggior parte dell’antica nobiltà e soprattutto del "clergé", che non aveva mai apprezzato gli anni francesi sotto napoleone (…[le] partie de la vieille noblesse…, la plus grand partie du clergé [vivono] dans l’espérance du retour des choses sur l’ancien pied…).(144) Questo ci si aspettava: un ritorno all’antico, un moto "à rébours", dove finalmente nobiltà e clero avessero di nuovo ripreso quel ruolo di comando che era sempre spettato loro nell’antico regime. Solo che l’Austria era ormai decollata, senza possibilità di ritorno, verso un nuovo concetto si Stato, e non voleva né poteva tornare indietro, lasciando però dietro di sé profondi strascichi di delusione e di odio, che poi si concretizzarono politicamente nell’adesione di gran parte della nobiltà più antica e prestigiosa (Porro e Confalonieri) nel movimento latomico della Carboneria. Adesso sì i carbonari lombardo-veneti volevano "l’indipendenza": ma prima, se l’Austria avesse accolto le loro istanze, essi sarebbero vissuti felicemente "dentro" l’impero, accontentandosi, e lo dissero a suo tempo, di una semplice "autonomia" dal potere centrale di Vienna, un’autonomia che permettesse ai rampolli della nobiltà milanese di accupare quegli spazi politici prestigiosi e lucrosi che erano sempre stati prerogativa della nobiltà. Non gradiva la nobiltà l’assioma per cui " lo spirito di fratellanza non ammette distinzione e differenza tra i soggetti che utilmente s’impiegano nell’amministrazione dello stato. Tutti a questo riguardo sono fratelli in una monarchia".(145) Il Conte Federico Gonfalonieri, che tanto commosse le coscienze dei patrioti che ne conobbero i tormenti inflittigli allo Spielberg, sarebbero stati per lo meno costernati se avessero avuto almeno un sunto dell’incontro men famoso, ma che a onor del vero fu fatto circolare, sia pure in ambienti ristretti, a Milano dal Foscolo, dello stesso Conte Gonfalonieri con Lord Castlereagh, nel maggio del 1814, allorché il conte richiedeva per l’Italia un sovrano, uno qualunque, anche…austriaco: " Il migliore interesse della nostra Nazione esige e domanda un Re: e questo re sia anche Austriaco, i nostri voti saranno universalmente compiti, purché noi possiamo ottenere un’esistenza indipendente dagli altri Stati, e una costituzione, o vogliamo dire Rappresentanza Nazionale". Il che costituisce un modo molto elegante per promuovere il proprio ceto a classe dirigente atta a ricoprire il ruolo di "rappresentanza nazionale". (146) Infatti Il conte Odescalchi, ormai prossimo alla pensione, si scandalizzava del fatto che "…lui ritirandosi", il suo posto potesse venir affidato "a uno degli attuali vice-visitatori, niente più che un ex Cancelliere Registratore presso la Cancelleria di governo".(147) Dove si sarebbe arrivati di questo passo? E qui si spiega anche la sostanziale differenza esistente tra le aspettative dei programmi della Carboneria lombarda da quella meridionale. Nel Lombardo-Veneto, mentori Porro, Santarosa, Gonfalonieri, si puntava alla "monarchia temperata", nemmai a simili personaggi sarebbe venuto in mente di proporre una "repubblica", di qualunque colore fosse.  Nel Mezzogiorno invece, il modello repubblicano resisteva meglio, anche in virtù della gloriosa, ma non riuscita, esperienza della repubblica partenopea del 1799; anzi, fra quanti promossero il successo iniziale del moto del ’20 troviamo il Pepe, che aveva giocato un ruolo importante nella Repubblica partenopea del ’99 e non aveva dimenticato certi suoi ideali.(148) Ideali che però, per la maggior parte degli ufficiali aderenti alla Carboneria non erano poi così fermi nell’idea di repubblica.

Infatti anche nel Regno i capi militari che guidarono il moto rivoluzionario erano, come al Nord, favorevoli a una monarchia costituzionale, e perciò le pressioni su Ferdinando furono appunto orientate in questo senso.(149) E’ tuttavia da sottolineare che, come ricordava Blanc, nell’esercito v’erano però molte ragioni di scontento, in particolare per la politica militare dei sovrani borbonici, che già dal Settecento si erano impegnati, senza successo, per aprire le carriere anche ai militi di estrazione non nobiliare.(150) Eccezione di un certo rilievo fu costitituita dal generale Vito Nunziante, sergente e "capomassa" nel 1799, assurto sotto i Borboni al titolo di marchese dopo Murat, diventando uno dei più fieri avversari della Carboneria.(151) Fu lui, insieme al Carascosa a essere mandato contro l’esercito "carbonaro" guidato dal Pepe, ma rifiutandosi al momento buono di combattere, anche perché in caso contrario e in quei frangenti significava mettersi contro quasi tutto l’esercito borbonico, dove la carboneria era penetrata profondamente.(152) Nunziante costituì tuttavia un esempio emblematico di soldato, di origini non nobili, che riuscì in quegli anni di mutamenti politici a emergere sino al punto di nobilitarsi, diventando il "marchese" Vito Nunziante.(153) Anche nel Regno quindi dietro una nobiltà "avvilita" nelle sue tensioni, stavano i soldati e specie quei gruppi non nobili, i quali si ripromettevano brillanti carriere e "aperture" senza precedenti in un esercito variamente democratizzato e pronto a premiare i soldati non nobili, ma meritevoli per capacità variamente dimostrate specie in epoca napoleonica. E dietro di loro, specie al Nord, stava tutto quel mondo borghese degli "affari", quei "bottegai", come diceva Metternich, che si ripromettevano ulteriori profitti in uno stato "indipendente", ed è per questo che, incalzava Metternich, essi sostenevano con tanto ardore l’idea del "tricolore italiano".(154) E l’impressione del principe di Metternich non era poi così peregrina, se si guarda a certi eventi sviluppatesi nell’imminenza dei moti del ’48, e se si pensa che ad andare a svegliare l’avvocato Manin quasi nel cuore della notte perché prendesse in mano la situazione e desse il via all’avventura "repubblicana" di Venezia fu un eminente esponente della Camera di Commercio, Antonio Faccanoni, commerciante di grano che ormai credeva pochino alle possibilità dell’Austria di saper rispondere alle richieste del ceto imprenditoriale.(155) Anzi, l’amministrazione austriaca, "proprio nella diffusa percezione della precarietà estrema della sua permanenza in Italia…aveva progressivamente isolato la regione. Sul piano fiscale l’Austria non guardò tanto per il sottile, raddoppiando il carico della prediale nell’arco di qualche lustro con la comoda scusa dei conflitti reali o potenziali prima con il Piemonte sabaudo e, quindi, con l’Italia unificata".(156)

A ciò si aggiunga il "proibizionismo austriaco", accentatosi dopo le carestie del 1816-’17, che appunto danneggiava proprio gli affari dei mercanti di grano veneziani, che si dettero al più deciso e sfrenato contrabbando.(157) Che poi Faccanoni, il quale urlava ai quattro venti "Viva la Repubblica! Viva Manin Presidente!", credesse veramente alla "repubblica", non ci si potrebbe scommettere a cuor leggero, anche perché il Faccanoni ricopriva la carica di console presso il Regno di Sardegna, il che è tutto dire.(158) A prescindere dallo scontento della nobiltà e del clero, a Milano come a Venezia, anche, o forse bisognerebbe dire "per fortuna" per le future sorti indipendentistiche, la ricca borghesia imprenditoriale era variamente insoddisfatta del governo austriaco. A Milano, "la capacità di credito dei banchieri milanesi doveva infatti risultare di norma assai…modesta dati i vincoli e le restrizioni alle loro attività imposte dalla politica monetaria seguita dalle autorità austriache".(159) Più scontenti ancora i commercianti veneziani, specie quelli del grano, impediti nelle loro esportazioni dai divieti austriaci, nonostante le proteste vibrate: purtroppo per loro "l’aulica autorità…era il sepolcro delle petizioni e delle rappresentanze". Di qui le manifestazioni di giubilo e i banchetti offerti a Richard Cobden a Venezia, "Cobden campione del libero scambio. Cobden benefattore dell’umanità". La camera di commercio si riprometteva ottimi affari con gli inglesi. Così come se li ripromettevano Cavour, Ricasoli, Minghetti e D’azeglio, Bastogi e Pasquale Stanislao Mancini, che offrirono altrettanti banchetti a Cobden durante il suo viaggio in Italia: un viaggio ovviamente molto interessante e interessato, dato che è "in coincidenza con l’abolizione delle Corn Laws, che l’Inghilterra comincia a dipendere in misura sempre crescente dall’importazione di derrate estere".(160) Al di là di ciò, che pure costituisce elemento non secondario per un’interpretazione non agiografica del Risorgimento, e per tornare all’argomento, la tensione della componente militare, rilevantissima nella Carboneria al Nord come al Sud, verso una "democratizzazione" dell’esercito è più evidente ancora nel Regno di Napoli, dove già al tempo dei Borboni il soldato non nobile si vedeva sopravanzare da cadetti sicuramente inferiori per capacità, ma destinati a essere "ufficiali" solo in virtù del titolo nobiliare. Nel Regno si era quindi creata una pletora di scontenti nell’esercito, un numerosissimo gruppo che premeva per cogliere l’occasione di un rimescolamento delle carte che portasse gran parte di loro verso quegli alti gradi militari da cui erano esclusi in una società bloccata e ancora attardatasi sulle strutture "restaurate" dell’antico regime.(161) Quanto ai sacerdoti, mentre nel Lombardo Veneto essi non gradivano che l’Austria persistesse in una legislazione di matrice francese fortemente penalizzante delle prerogative del clero, al Sud il clero era letteralmente sovraccarico di impegni "civili" che lo allontanavano sempre più dalla propria funzione.(162) Infine su tutto e su tutti, specie in Sicilia, incombeva una "pesante situazione monetaria", caratterizzata dalla presenza di una " ‘cattiva’ moneta siciliana, tosata e viziata, coesistente nell’isola con le buone monete spagnole e napoletane; da abbondante moneta falsa circolante; da scarsità di moneta minuta per i commerci interni". Tale pesantissima situazione monetaria "si inserì come elemento determinante di scontento nel processo rivoluzionario che condusse l’isola all’unificazione".(163) Nemmeno al Sud, nonostante la predisposizione maggiore della Carboneria per istanze "repubblicane" tendenzialmente più sensibili verso il "popolo", fu possibile una effettiva saldatura tra la sètta e mondo contadino. I contadini meridionali si tennero su posizioni d’attesa forse "fiduciosa", in virtù di quell’elemento repubblicano sempre presente nella carboneria e da cui forse si attendevano sviluppi utili anche per una trasformazione in senso "democratico" nelle campagne. La mancata adesione del mondo contadino alla carboneria, specie al Sud, ove per altro esistevano le premesse sufficienti per una loro partecipazione, dato un plurisecolare "ribellismo" che aveva sempre interessato le campagne meridionali d’antico regime, non si compì e non poteva in effetti attuarsi sia per le ragioni già dette, relative a una strutturazione sostanzialmente borghese del movimento carbonaro, timoroso di rivolte popolari incontrollabili, sia perché il moto innescato dalla Carboneria non solo non volle, ma per certi versi, neppure poté coinvolgere i contadini. Sembrerebbe a una prima analisi che considerazioni di carattere meramente "politico-istituzionale" tenessero discoste le masse contadine da un ribellismo brigantesco di massa come si era registrato nel corso degli "anni francesi". Sembrerebbe, pertanto che, non avendo i carbonari affrontato adeguatamente la questione della proprietà contadina e di un suo recupero sociale, le masse rurali dimostrassero "indifferenza" verso quei fermenti sociali che si stavano sviluppando intorno a esse. La questione potrebbe invece essere un po’ più complessa.

Osservava Pacifici che "offende la verità e la storia" asserire che il brigantaggio si fosse sviluppato nel Mezzogiorno in forza e in ragione dell’Unità. Il brigantaggio nel Sud possedeva radici "millenarie": e non gli si può davvero dar torto.(165) Ma una cosa è parlare di brigantaggio, per così dire, "frizionale", e dai caratteri più o meno delinquenziali, e altra cosa è il brigantaggio "di massa". Ora, un brigantaggio nella seconda accezione è particolarmente visibile nel Regno di Napoli in particolari contesti storici, e intendo riferirmi agli anni "francesi" del Regno, dalla rivoluzione del ’99 fino al termine del regno di Murat. I Francesi, nel reclutamento della truppa, si rifacevano al concetto democratico del "popolo in armi", e pertanto effettuavano leve di massa che andavano a colpire soprattutto i contadini. Il risultato era la "diserzione di massa". Il Della Peruta ha valutato in più di 40000 i disertori dell’esercito italico durante gli anni francesi.(166) Gran parte dei disertori andava quindi ad alimentare il brigantaggio e la formazione di bande formidabili per numero di appartenenti.

Dopo l’avventura di Murat e il trattato di Casalanza (20 maggio 1815) che riportò Ferdinando IV sul trono, l’ex esercito murattiano venne "riformato" dal Nugent, il quale, pur mantenendo gli effettivi intorno ai 90000 uomini, tanti quanti costituivano il nerbo dell’esercito borbonico ai tempi dell’avventura garibaldina dei "Mille", reclutò i "militi", come dice Pieri, "dalla piccola e media borghesia", facendo così letteralmente dilagare il carbonarismo nell’esercito.(167) Ma le scelte del Nugent non potevano non essere condivise a Corte. Il che potrebbe significare che i Borboni avevano intuito il rapporto stretto che esisteva tra leva in massa attivata tra i contadini e il brigantaggio, tanto è vero che il mondo contadino non venne "disturbato" e "distratto" più di tanto dalle campagne, ove era necessario un impegno immane di forza-lavoro per mettere a frutto le terre e per bonificarne altre per far fronte alle pesanti carestie che avevano colpito il Regno di Napoli dal 1816. La carestia del 1816 portò lo Stato appena restaurato dei Borboni a tenere ben presenti le necessità alimentari, e poiché il lavoro nelle campagne era scarsamente supportato anche da animali, si faceva affidamento sull’impiego capillare di tutto il tessuto familiare contadino, compresi i bambini e le donne. Dopo il "decennio", rileva acutamente A. Massafra, e dopo la crisi del 1816-’17, per sconfiggere l’ "incombente spettro della fame", più che a una difficile espansione delle superfici coltivate " si impone una risposta di tipo diverso, che punti ad un aumento della produttività e ad una più intensa…utilizzazione dei fattori produttivi. Nelle zone più densamente popolate…il fattore produttivo più importante, quello che, comunque, più agevolmente può essere mobilitato è la forza lavoro, nella più intensa utilizzazione del lavoro umano, [e] la possibilità per i piccoli produttori, sprovvisti di forza lavoro animale, ma con notevole disponibilità di mano d’opera femminile e infantile, di ottenere un consistente aumento della produzione".(168) Si trattò di un fenomeno, a onor del vero, non solo italiano, ma europeo. Fatta eccezione per l’Inghilterra, tutti gli stati dell’Europa continentale risentirono di una fortissima carenza di manodopera nelle campagne, tanto che in Austria "i mietitori erano così scarsi, che nel 1811 da una grossa tenuta vennero inviate circolari ai villaggi circostanti per cercare aiuti…mentre nel 1819 le proprietà confinanti tra loro si riunirono in cooperative…".(169) Le necessità alimentari, specie in un momento di crescita demografica, comportarono quindi per il governo borbonico un’attenzione particolare verso i contadini, che non furono inseriti nell’esercito, ma lasciati a casa a lavorare. I Borboni si ingraziarono in tal modo la "plebe"; infatti, spiega Pieri, "venne abolita la coscrizione invisa ad essa".(170) La conseguenza più evidente è l’assenza, negli anni ’20 dell’Ottocento, di un brigantaggio "di massa" nel Regno di Napoli. A rigor di logica, non si può neppure parlare di "fallimento" della Carboneria riguardo alla questione contadina, in primo luogo perché i vertici carbonari, al Sud, non si posero neppure il problema e secondariamente perché, anche se se lo fossero posto, il risultato non sarebbe cambiato, poiché, come abbiamo visto, i contadini dopo l’esperienza murattiana, che essi odiarono profondamente e alla quale si negarono con tutte le loro forze, furono sottratti all’esercito, luogo privilegiato della propaganda carbonara. Al Nord, in Piemonte, la riforma dell’esercito non poté impedire l’inquadramento in esso di elementi piccolo-borghesi particolarmente sensibili alla propaganda carbonara, ma è rimarchevole il fatto, sottolineato da varie fonti, anche inglesi, che la popolazione del Piemonte rimanesse assolutamente "indifferente",(171) e a detta di un esperto quale Piero Pieri, il contadino-soldato piemontese piuttosto "freddo" nei confronti di essa. Non per nulla il sovrano, molto sagacemente, suggerì l’arruolamento soprattutto nelle campagne. "Carlo Felice, annota Pieri, incaricava un’apposita giunta di studiare il problema della fanteria, nerbo dell’esercito…In verità i contadini riservisti s’erano nell’insieme mostrati assai freddi nei confronti della rivoluzione… [e sembrava non potessero essere] inquinati…dalle idee sovversive…Insomma, conclude Pieri, il nerbo dell’esercito si dovrà cercare più che mai nelle campagne, non ancora avvelenate come le città dalla lotta politica e dalle fazioni’… ".(172) Anche al Nord, quindi, l’accesso della Carboneria dentro la truppa di estrazione rurale fu bloccata dall’astuta mossa politica di Carlo Felice, e proprio nell’età aurea dello sviluppo e della incidenza massima della setta sul tessuto sociale.

La distanza del mondo contadino dai movimenti settari come quelli mazziniani non diminuì con il passare degli anni, a parte forse l’esperienza del milanese Giovanni Cantoni, il quale propugnava una "repubblica democraticamente atteggiata" e che non risparmiò critiche violente nei confronti di quanti non sapevano dare alle popolazioni rurali "motivazioni e incentivi capaci di portarle alla lotta contro la dominazione straniera". Cantoni, invece, tali motivazioni seppe trovarle e infatti fu l’unico che nel 1848, "nei preparativi delle ‘Cinque Giornate’…al momento dell’insurrezione [riuscì] in Brianza ad organizzare i contadini…".(173) I carbonari italiani degli anni ’20, isolati, come abbiamo visto a livello internazionale, guardati con sufficienza anche da autorevoli esponenti del mondo della cultura, come Giordani, per esempio, il quale, pur essendo perseguitato dalla polizia austriaca perché sospettato di essere un aderente alla setta, manifestò apertamente la sua sfiducia verso di essa, definendola una "bogiarata": " Neppure l’onnipotenza divina può fare che io sia mai stato o carbonaro o massone, o alta qualunque di coteste bogiarate".(174) Chiusi verso il basso da un’invalicabile diffidenza verso la partecipazione contadina ai moti, dimostrarono tutta la parzialità e tutti i limiti di un movimento, sì "apparentemente" confuso, ma che, a ben guardare, si mostrò per quello che era: ossia un mero sommovimento di "ceti", ognuno tendente o a riprendersi un ruolo ormai perduto come la nobiltà nel Lombardo Veneto, o a tentare l’ascesa sociale, attraverso l’esercito, al Sud. Nella "Chiamata dei contingenti" del sette di marzo del 1821 il Santarosa si rivolgeva ai soldati con una promessa, neanche tanto coperta, a ufficiali e sottufficiali: " Giovani soldati, prendete con letizia e con fiducia quelle armi consegnatevi dalla patria. Neppur uno di voi mancherà nel giorno degli onorati pericoli. Avrete prodi ufiziali e sottoufiziali ad ammaestrarvi; li vedrete progredire negli onori militari secondo i loro meriti non secondo favore". (175) Nel Regno di Napoli, dopo primi e timidi tentativi di aprire " la strada a’ Soldati di fortuna pel loro avanzamento, [che] servirebbero con amore con esattezza e con coraggio per la certa speranza di poter ascendere al grado onorevolissimo di Ufiziale […] concedendosi a tutt’i ceti di servire il Padrone, e a ciascuno l’adito di far la sua fortuna",(176) le cose non procedettero com’era nei voti, specie per la resistenza di molte frange dell’antica nobiltà, che voleva tener per i propri rampolli il privilegio d’essere "Ufiziali". Così, l’incaricato d’affari francese a Napoli annotava: " Il existe à Naples un partie lié de jeunes gens disposés à profiter de la première occasion d’operer une revolution. La jeunesse des régimens et du Corps de la marine est liée à ce parti […] ».(177)

Un movimento settario, in conclusione, tutt’altro che "rivoluzionario", guidato da membri strutturalmente legati ai vertici politici e soprattutto militari che guidarono la rivolta, ognuno "pro domo sua". Santarosa e Confalonieri erano tutti militari e ai più alti vertici, i quali tutti, come diceva Mazzini, non parlavano, quando ne parlavano, tanto di unità, quanto di unione. " La parola unione fu…sostituita alla parola unità e il campo lasciato aperto ad ogni possibile ipotesi".(178) Si comprende chiaramente che, anche per la maggioranza dei "buoni cugini", come per quasi tutti gli osservatori stranieri, almeno in quegli anni di primo Ottocento, l’unità era un’utopia di sparute frange che pure, nella confusione e nella quasi nulla conoscenza degli adepti dei reali progetti dei capi, circolava, con fastidio di molti, assieme e accanto all’idea giacobina di repubblica. Con simili premesse fu quindi impossibile avvicinare all’idea nazionale i ceti rurali, ossia, rileva acutamente Cofrancesco, "coloro che vivono ai livelli più bassi della piramide sociale". I quali, più che altro erano anazionali, "per diverse ragioni. ‘Gente meccanica e di piccolo affare’, lo stato non ha bisogno di loro, che, tranne le braccia e la vita, non hanno molto da offrire. Essi subiscono le conseguenze delle decisioni politiche, ma non hanno il modo di orientarle e di influenzarle…La costruzione dello stato nazionale si realizza al di sopra e al di fuori del loro vissuto quotidiano. I benefici dell’impresa non ricadono…su di loro e anzi…per loro ‘si stava meglio, quando si stava peggio’, non essendovi in precedenza né tasse né servizio di leva obbligatorio". Essendo quindi lo Stato nazionale la costruzione di ceti e classi lontani se non ostili al "popolo", nessuno accorse "sotto le bandiere nazionali per difendere, in definitiva, la ‘patria di lorsignori’…".(179)

Se quindi, verso l’esterno, la Carboneria fu letteralmente "ghettizzata" dalle potenze europee, all’interno le cose andarono anche peggio, perché la setta non solo mancava di qualsiasi base popolare, ma si trovò a dover affrontare una lotta impari con un mondo cattolico più che mai deciso a "terminare" una volta per tutte ogni repubblicanesimo che in sé aveva profondi i germi dell’empietà. I carbonari furono gli ultimi grandi settari dell’Ottocento, e si trovarono ad agire in un momento in cui la Chiesa si mostrò decisa a chiudere per sempre i conti, " ab imis", con il mondo degli "empi". I carbonari pagarono per tutti perché sostennero non una, ma la soluzione perdente del nostro Risorgimento: l’idea di Repubblica. Forse le cose sarebbero potute andare altrimenti, ma errore vi fu, e il democratico e repubblicano Foresti lo intuì chiaramente, allorché scrisse nelle Memorie: Fu errore reclutare soltanto nella classe agiata ed educata, e non anche nel volgo, che fu nemmeno istruito. (180)


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