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ESTRATTI Dalle Memorie di Atto Vannucci

 

 

I Martiri della libertà italiana dal 1797 al 1848 [ Nota a margine, n°1, sul lato destro del manoscritto.]1) (Italia 1860. Si riporta, ma con tutta riserva, pel noto carattere dell'autore e del partito che rappresenta. Non m'occupo per ora a confutare le assurde massime che di tanto in tanto son predicate in questo scritto .) ( Si trovano questi ricordi in Appendice delle citate memorie pagg.393,394 e segg.)

 

Ricordi di Felice Foresti sui carbonari, sui processi del Veneto nel 1821 e sulle vittime dello Spielberg

 

Furono scritti nel 1847, a richiesta di Giuseppe Riccardi; e si trovano nell'opera suddetta: Appendice, pag. 393. Incerte le origini: ne scrisse nel 1821 John Murray ( Albermale Street ) col titolo Memoirs of the Secret Societies of the South of Italy, particularly the Carbonari.

 

Certo la società esordì nel regno di Napoli, figlia della Massoneria, anzi una riforma di questa. Suo scopo politico era nel 1820, conforme ai tempi, la liberazione dall'Austria.I convegni secreti de' Framassoni constavano di cittadini di due diverse generazioni. Gli adulti avevano conosciuti e confrontati i sistemi governativi e sociali anteriori al 1796 con quelli delle republiche (sic) fondate da' francesi, in Italia, del Consolato, dell'impero. I giovani avevano confrontato il regime napoleonico con quello della Ristorazione (sic), introdotto dal Congresso di Vienna. Ambedue le generazioni avevano provato il saggio de' progressi portati dalla rivoluzione francese, per cui spariva il municipalismo e subentrava il nazionalismo. Abbassato il clero, indebolito il culto per le classi (caste) e pei troni, le assemblee de' Framassoni divenuti Carbonari, sentivan esser bisogno e diritto delle masse ( bisogno e diritto intorno cui gli uomini uniti in gran numero danno sempre giudizio sicuro ) l'unità, per formare nazione forte, con storia propria, indipendenza e libertà d'azione.

Io ( Felice Foresti ) entrava nella Carboneria nel 1797, non nel 1815, come dice il Maroncelli nelle sue Addizioni. Solera, in inizio, a Ferrara. Principii ammessi unanimemente: unità, libertà, indipendenza; discrepanza nelle forme organiche, chi voléa monarchia temperata, chi democrazia, fra cui io. Ebbi tutti i gradi in un giorno, perché la Carboneria era numerosa alla destra del Po [ nel ms.risulta cancellato a inchiostro il termine po, scritto senza la maiuscola ], ed era interessante organizzarla anche alla sinistra. Io ne fui incaricato perché giovane ardente, ed in grado d'usare grandi mezzi all'uopo, come Giudice ch'io era ( pretore ) di Crespino, distretto che avéa 30 miglia di giurisdizione anche sulla...[ lacuna. Il termine è cancellato in modo deciso a inchiostro. Molto probabilmente Bocchi aveva scritto destra, poi aveva cancellato e si era dimenticato di inserire la correzione, che si può agevolmente congetturare in sinistra ] del Po che fronteggia la ferrarese pontificia, ove formicolavano i Carbonari.

Fui zelante ma incauto: al cadere del 1818 avéa fondato un centro carbonico a Rovigo, con vendite subalterne a Fratta, Polesella, Crespino; e messi insieme gli elementi personali per altri 100 nel padovano e nel Dogado. Fu errore reclutare soltanto nella classe agiata ed educata, e non anche nel volgo, che fu nemmeno istruito. La Carboneria contava molti nobili, moltissimi cittadini, cioè medici, legali, ingegneri, possidenti: preti e mercanti in minor numero: migliaja fra ufficiali e sottufficiali della sciolta armata di Napoleone. Assistetti ad alcune vendite generali in Ferrara, ed erano composte la maggior parte di vecchi graduati. Due fra' principali capi di Ferrara furono traditori apostati: il conte avv. Tommasi, ed il conte avv.Taveggi, da porsi a paro coll'avv. Soléra, di cui in appresso. Bologna dominava le vendite centrali di Ferrara, Modena, Romagne, Polesine.Un'altra centrale ad Ancona, cui facéan capo quelle delle Marche. Corrispondenza attivissima. I Conti Raspi e Masi, i marchesi Canonici e Bevilacqua erano nel comitato dirigente di Ferrara. Altro fatto era manifestare lo scopo politico al secondo grado (maestro ): altro ancora di esporre nelle assemblee alla vista degli incipienti ( adepti ) i capi, i veri cospiratori. Spiacevano anche i molti e complicati riti e cerimonie. Quindi riforma nel 1818, col nome di Guelfismo. I maggiori si separarono dalle combriccole carboniche quanto a contatto personale, restando stretti in ispirito. I cavalieri guelfi erano la parte mentale, la Carboneria la materiale; quelli dirigevano questa. Quelli movevano le molle, senza assemblee, né riti né cerimonie. L'ingegnosa loro condotta giovò durante i processi di Venezia. La commissione austriaca non poté mai impadronirsi della Costituzione guelfa, né stabilire mai una delle identità personali di molti cavalieri guelfi.

Mi si fecero gran promesse per averne lume. A Bologna il centro guelfo, sotto la direzione del principe Ercolano che sposò una figlia di Luciani. I Guelfi corrispondevano agli Adelfi del Piemonte e Parma, e co' Federali (= Federati) di Lombardia. Vari nomi, unico scopo. Poi le mosse rivoluzionarie discordarono di tempi e vedute non so perché, essendo io in carcere.

 

 

 

 

Scoperta de' Carbonari negli stati austriaci

 

La sentenza Pacca, dietro il processo delle Marche, condannò: ( 8 ottobre 1818 ) Giacomo Papis di Roma, Co: Cesare Gallo di Osimo, Luigi Carletti di Macerata, Francesco Riva di Forlì, Vincenzo Fattiboni di Cesena, Pietro Castellani di Macerata, Antonio Cottoboni di Macerata, Pietro Sampaolesi d'Ancona. Questi diedero il primo cenno ne' loro esami della esistenza della Carboneria negli stati austriaci, ma non nominavano le persone, perché non le sapevano. L'Austria, dietro que' cenni generali, mosse le sue spie. Tali risultarono nel processo l'avv. Muzzolani, prof. di Diritto Civile a Ferrara, Brambilla, lombardo quasi sempre, stanziato a Venezia, Porro, lombardo, già prefetto di Padova sotto Napoleone, Carlo Greppi di Polesella, fatto carbonaro da me, corrotto dal governo di Venezia, che tradì me, tutti i Carbonari del

Polesine, e molti di Ferrara.

Conduttori delle mene segrete della scoperta: Zen, Veneto Commissario Ufficiale di Crespino; Piquet, genovese, Commissario distrettuale di Polesella; Malavasi, mantovano, Commissario in capo di Polizia di Rovigo.


 

 

 

 

Primi arresti in Polesine ( ottobre 1818 )

 

 

 

D'Arnaud, generale divisionario francese, sua moglie, Elena Monti, un loro figlio, d'anni 14 circa, Capitano Monti, Antonio Villa, prete Mario Fortini, il caffettiere di Fratta, l'avv. Passerini, il Co: Camerata d'Ancona, il nobile Dolfin di Venezia.

 

Storia del generale Arnaud

 

Sposò quella bellissima Monti di Fratta, di civile casato, che pensava lui innamoratissimo di stabilirsi in quel bel villaggio. Energica e intrigante, venne di Francia per far proseliti alla segreta società francese della Spilla Nera ( Epingle Noire), diretta a porre sul trono di Francia Napoleone il figlio. Molti carbonari aderirono a lei, non io; anzi rimproverai Villa ed altri che, coll'affigliarsi a quella, violavano un patto carbonaro di non appartenere ad altre società secrete. La Monti convitò i suoi aderenti in sua casa pel S. Martino ( 11 ottobre 1818 ), ma era già sospettata e vegliata: al pranzo, brindisi per Napoleone, l'Italia, etc. Un Monti, nipote della padrona, era spia stipendiata. Due giorni dopo, arrestati tutti i commensali, e carcerati a Venezia in luoghi separati, e col massimo rigore. Non so come si contenessero all'esame. Parecchi mesi appresso furono tutti liberati, i coniugi d'Arnaud ebbero bando perpetuo dagli stati austriaci; la signora morì nel ritorno in Francia. Passerini e Camerata furono certo Carbonari, non so gli altri. Villa e Fortini furono fatti carbonari da me: Villa pauroso e vile confessò tutto, pessima l'esistenza organizzata della società carbonara in Polesine, ed i suoi rapporti con quella di Ferrara, e che ei era fondatore e capo dirigente. Quindi gravissimo danno agli imprigionati. Fortini ne fu sacrificato; buono, casto di mente, timidissimo, apparteneva alla vendita subalterna di Fratta, di cui era capo Villa, ma era solo apprendente, quindi ignaro di tutto. Villa volle un giorno far paura a quel semplice prete, e ordinò un notturno convegno di tutti i membri della sua vendita in casa sua. N'erano tutti armati del pugnale carbonico, e incappucciati. Fortini, giunto all'anticamera, fu preso in mezzo da due carbonari, che gli tenéano il pugnale levato sul petto. Atterrito, il prete si vide introdotto in mezzo al convegno, fra visi e mani armate: Villa lo rampognò di avere tradito il segreto della società; l'altro negava, e Villa replicò:" Ti crediamo,questa volta, ma vogliamo un'arra [nel ms. arra sostituisce prova, cancellata con tre tratti di penna ] di tua costanza futura; soscrivi". E gli fu porta una carta, che fu letta, e diceva:" Io Marco Fortini come prova della mia costanza e fedeltà alle dottrine e mire della Carboneria, dichiaro qui alla presenza de' miei cugini Carbonari di abjurare per sempre alla religione Cattolica romana, al cui clero io appartengo". Fortini ricusava, ma minacciato di morte, pianse e firmò.

Villa poi nei primi interrogatorii accusò l'amico d'avere infamemente apostatato. Il processo chiariva che Fortini fu forzato a quell'atto ( lo dicevano tutti gli astanti carbonari di quella sera), ma l'Austria si valse di questo fatto arbitrario del Villa per provare al mondo che la Carboneria era per se stessa empia, nefanda, vituperevole, tanto più che ciò insinuavano alcune scomuniche papali, precedenti al nostro arresto. Così Fortini fu condannato ( vedi Sentenza ) e sottoposto alla dura, crudele, vergognosa deposizione del ministero sacerdotale, che sotto il pretesto di quest'orribile crimine d'apostasìa fu eseguita con tutte le ceremonie (sic) ecclesiastiche dal Patriarca di Venezia, ch'era esso pure un'austriaco (sic). Fortini fu condannato sì gravemente e posto al paro de' rei principali per quella pretesa apostasia, che fu cosa affatto privata, senza convinzione, non sostenuta da condotta posteriore: ciò si prova osservando ch'egli era semplice apprendente, e che gli altri apprendenti furono solo condannati a pochi mesi di reclusione.

Salvotti mi diceva:" Io non avrei condannato quel povero prete nemmeno a 12 mesi di carcere". Fortini fu graziato dall'imperatore dopo 7 anni di carcere nello Spielberg, e mandato libero in Dalmazia, ove fu riammesso al sacerdozio sotto la guida dell'in

famissimo Paulovïtz, di cui parla diffuso Andryane.

Villa sacrificò il bravo e franco Oroboni. Pubblicate le sentenze contro i Carbonari delle Marche, noi del Polesine ci mettemmo in guardia. Ordinai a Villa di bruciare le carte carboniche(statuti, cerimoniali, vocabolari per la secreta corrispondenza). Villa bruciò una parte, diede l'altra al fido Oroboni, che la celò in un sepolcro di marmo di sua casa privata, e confidò incautamente tale nascondimento al Villa.Cercava la polizia tali carte, prova legale contro i membri società. Villa ne' suoi interrogatorii palesò il luogo preciso.Quindi Oroboni fu arrestato dal commissario Lancetti, che sapeva del nascondiglio, e nondimeno chiese:- Avete carte?-

- No.-

- Voi ne avete, la Polizia lo sa.-

- Non ne ho.-

Sì e no lunga pezza.

- Se non le date subito, io vi metto in rovine il palazzo di vostro padre.-

- Fatelo!-

Quindi Oroboni, accerchiato di soldati, vien condotto ne' sotterranei della Cappella, s'apre la tomba, si levano le carte, e Lancetti sclama:- Le vedete? ma pagherete cara la vostra ostinatezza.

Villa dié perfidamente l'ultimo colpo alla società perseguitata. Ecco come. Arrestato Arnaud e compagni, struggemmo le carte, io particolarmente, che avéane di importanti. Ma dimenticai l'importantissima.

Nell'inverno 1817-1818 si tenne numeroso convegno in casa Ercolani a Bologna; éravi un deputato, messo dalle vendite principali delle provincie. Io, malato, non intervenni. Vi si stese una carta costituzionale, un piano di rivolta armata, col nome di Costituzione Latina. Sei e più articoli spiegavano come s'amministrerebbe il paese durante la rivolta. Il conte Tomasi me ne mandò varie copie, le firmai col nome romano assunto: io mi dissi Sallustio. Me ne tenni una copia. Pentìtone poi, diedi a custodirla al Dottor Carravieri, giovine cauto, giudizioso, fedele, che temendo tenerla in casa, la depositò in mano della comune nostra amica Bettina Ragazzi Tosi, abitante nel vasto palazzo de' principi Pio di Savoja. La Tosi la nascose in angolo remoto…La Bettina svelò il secreto alla sorella Rosa, moglie di Benvenuto Tisi, comprocessato Carbonaro, che lo seppe da essa. Così cinque lo sapevano. Quando ordinai la distruzione delle carte, quella mi passò di mente. Poco prima del nostro arresto, morì di parto la giovine signora Bettina, portando nella tomba il secreto. Fummo arrestati il 7 gennaio 1819: Carravieri 3 o 4 mesi dopo, dietro indizii dati dal debole o perfido Villa. Soletto, sotto i Piombi, mi sovvenni di quel documento, ma quietàimi pensando alla fidatezza del Carravieri, all'essere morta la sola partecipe del segreto; ignorava io che lo sapevano i coniugi Tisi. Dopo quaranta dì dall'arresto, cominciarono i miei esami. Esaminatore lo stesso Lancetti, che mi aveva arrestato, acuto e burbanzoso. Cinque giorni d'esami ne' quali s'usarono minacce, insulti alternati con lusinghe e carezze e promesse d'impunità. Io saldo a dire: la Carboneria del Polesine non organizzata, non in relazione colle altre sezioni italiche; non scopo politico in essa, ma solo di promuovere un liberalismo filosofico, un mutuo adjutorio, un sodalizio fraterno, non cospirazione, mancando il piano ( volontà espressa ), la cassa ( mezzi efficienti), le armi e qualsiasi preparativo: insomma, società sbozzata, poi morta. Così avéa meditato in prigionia, a mio pro' e de' concaptivi o contumaci, certo com'era essere partecipi del vero maneggio segreto rivoluzionario soltanto Solera, Munari ed io; gli altri ignari affatto od aventi solo vaghe e generali nozioni.

Solera non era stato ancora arrestato, nemmeno i ferraresi Canonici e Delfini, che lo furono soltanto un anno e più dopo, per tradimento di Tomasi Mi fidava di Munari, ma m'ingannava, ché questi dai primi interrogatorii aveva già svelato quanto sapeva. Insomma, privo di qualunque relazione cogli altri concaptivi, mi andava acquetando in questi pensieri. In maggio fui condotto all'isola di S. Michele ov'erano quasi tutti gli altri processati. Oroboni e Antonio Poli m'erano a una stanza alla diritta, a manca Carlo Cavriani. Mi posi in corrispondenza co' due primi colle grida e col battere al muro. Poli ed Oroboni ruppero con non so quale arnese di ferro il muro che ci separava, facile a rompersi perché fatto d'un' incannucciata intonacata di gesso massiccio. Coprivamo il foro coi forzieri che ci avevano permesso di tenere in istanza. Aprimmo corrispondenza scritta continua, e siccome avevamo fatto lo stesso lavoro nel muro dell'altra camera, ov'erano Zerbini, Villa e Tisi, così potei fare la triste scoperta dell'esito degli interrogatorii. Avevano confessato l'esistenza della società, lo scopo rivoluzionario, ma non avevano potuto dettagliare fatti, convegni o discorsi, che provassero realmente e concludentemente tale scopo. Nulla sapeva pur anco di Munari, ma conobbi che Carravieri era stato arrestasto: era in altra parte del monastero, e non poteva comunicare con esso. Pensai come rimediare agli errori commessi daicompagni: mi sovvenni che pel Codice criminale austriaco i fatti e le circostanze deposte negli atti della polizia, non hanno prova contro i processati e deponenti e confessi, se non siano confirmati negli atti dei tribunali competenti. Era dunque d'uopo accordarsi tutti a ritrattare o modificare la confessione dello scopo. Ma come intendersela, disgiunti e guardati da tanta soldatesca? Bisognava vincere un qualche secondino ( carceriere subalterno ). Ve n'erano sette, buoni in complesso, quasi tutti antichi soldati dell'armata d'Italia, quindi a noi propensi. Mi serviva un veronese, Marangoni, già sergente artigliere di marina del Regno d'Italia, cordiale, chiacchierone, imbevuto di principi republicani (sic) attinti dall'armata cisalpina, di cui aveva formato parte. Mi mostrava affetto e stima. Con tre zecchini veneti, l'indussi a comperarmi un codice criminale; a impostare una mia lettera alla Marchesa Canonici Ginevra, sorella del condannato, cui dava nostre notizie onde ne informasse il fratello e Solera; a recare un mio biglietto al Munari, insinuandogli di ritrattare quanto avesse deposto di pericoloso. Marangoni fece tutto, quindi prestossi a continua corrispondenza fra me e tutti gli altri arrestati di S. Michiele (sic), e tutti mi promisero la ritrattazione dello scopo criminoso, confessato alla Polizia.

Tutti i secondini, meno uno, seguirono la caduta di Marangoni. Poteva disporre di 24 zecchini, nascostimi in un mio soprabito quando fui arrestato. Que' buoni secondini mi chiesero d'essere iniziati alla Carboneria, come segno di favore e confidenza, ma ricusai. Tuttavia erano nostri, e le carceri di S. Michele divennero un collegio. Ci vegliava ostile il presidio interno del monastero, l'esterno erano tedeschi di linea, l'interno soldatesca municipale italiana. Questo fu cangiato, e il nuovo personale era comandato da un Fantoni vicentino, già sergente maggiore dell'artiglierie napoleoniche, odiatore dei tedeschi, che si diede tutto a noi, e recapitò molte lettere ai più fidi Carbonari e Guelfi, onde stessero in guardia e si regolassero in caso di arresto: Anche Villa promise la ritrattazione.

L'accordo adunque era: - Che nel processo regolare si sarebbe detto che, quando avvenne l'arresto, la Carboneria non era regolarmente organizzata ( semplice progetto ); che non s'era mai parlato di scopo politico, e chi l'aveva ammesso negli esami avanti la Polizia, l'avéa fatto per l'insistente e quasi violenta insinuazione del Commissario inquirente ed in semplice via conghietturale.-

Intanto giugneva a Venezia l'imperatore con sua moglie, e radoppiàronsi allora i rigori dell'arresto. Francesco I, venuto a visitare le ruine fatte da un uragano nel monastero, ove eravamo chiusi, e disse commosso:- Poveri giovani! corsero un gran pericolo; ne sento pietà.- Lasciò Venezia ordinando la convocazione di commissione straordinaria per giudicarci secondo la legge. Contro il dettato della vigente legge criminale, la commissione che si raccolse in Venezia pochi mesi dopo, era composta di giudici favoriti tutti da altri tribunali del Lombardo Veneto. Si cominciò il processo regolare nello stesso monastero di S. Michiele. Primi interrogati i meno gravati; quindi quelli che avevano tutto confessato alla Polizia. Per poco osarono la convenuta ritrattazione. Salvotti ne infuriò; s'accorse di concerto preventivo, indovinò me istigatore. Solo Solera persisté a dire tutto; forse fin d'allora s'apparava la via dell'impunità e del sovrano favore. Io esaminato fra gli ultimi, non declinai dalle prime deposizioni. Quindi Salvotti:- Ebbene! ella sta troppo bene qui; la passeremo ai rigori delle carceri criminali. Colà non potrà sedurre i compagni a ritrattazione, ed a violare il dovere della sincerità verso l'imperatore. Ella è uomo ostinato e pericoloso per gl'interessi e la verità dell'inquisizione.- Fui trasportato nottetempo alle carceri di Venezia, ov'ebbi acerbissimo trattamento. Terrori, notti insonni, soprattutto dubitando della costanza de' miei compagni. Mi posero due spie nelle stanze laterali, le conobbi, le delusi; seppi da loro che que' secondini benevoli ed il sergente Fantoni, accusati da uno de' nostri, erano stati condannati a pene temporarie (sic). Quindi scoraggiamento generale ne' processati, che privi del mio consiglio, isolati, convinti di fraudolento procedere nell'esame, confermarono le prime confessioni, ed accusarono me seduttore. Ma non eravamo al colmo. A S. Michele durante gli esami della commissione, stavano sempre nella medesima camera Villa, Tisi e Zerbini. Discorrendo qual fine avrebbe il loro processo in seguito a confessioni unanimi fatte alla polizia, poi ritrattate, poi confirmate, Tisi con imprudente sicumera e buona fede, spacciava non doversi temere, ché giammai si raccoglierebbe la prova legale dell'alto tradimento.- Foresti non confesserà, gli altri non ne hanno che vaghe conghietture, il solo documento, che darebbe quella prova, è nascosto.- E qui lo sciocco vantatore narrava per filo e per segno tutto l'affare del nascondimento della Costituzione Latina. Villa con pretesto si fa condurre alla Commissione e rivela tutto, anche gli intesi dettagli della parte avuta in quell'occultamento della defunta Tosi e dal Carravieri. Questi, esaminato sull'affare, non può resistere alle minuziose circostanze che gli si oppongono e confessa tutto. Salvotti, con due giudici e un distaccamento di cavalleria, va a Crespino, si arresta l'ignaro vedovo della Tosi, preteso complice, si trovano nel luogo indicato da Villa e si portano a Venezia le carte fatali.

Ecco negli atti del processo la prova legale dell'alto tradimento. Gioja della commissione, che me, di tutto al bujo, fa chiamare di buon mattino. Indovinai dal loro ghigno maligno il perché. Salvotti riassume estesi e inutili interrogatorii fattimi sull'esistenza del Guelfismo; viene mano mano al convegno di Bologna, ove fu redatto quello scritto; poi lo si indica col vero nome di Costituzione Latina. Fingo non capire. Salvotti, inviperito, si leva, toglie da una cartella quell'identica Costituzione Latina, con cipiglio minaccioso me la squadra dinanzi agli occhi, e grida:- Avrà ancora Ella la sfrontatezza di negare che la Carboneria di cui Ella è uno dei capi, non era società politicamente cospirante? Vorrà negare a fronte di questo documento?-

Sbalordii, quindi rimessomi, dissi di non sapere quali persone fossero rappresentate da quelle firme; di non essere intervenuto alla redazione di quell'atto; e ( per salvare alla meglio Carravieri ) di avergli dato quel documento, cui egli era totalmente estraneo; che m'era la carta venuta alle mani per parte di Tommasi, che non me n'avéa data spiegazione veruna. Sciocca difesa, ma io non voléa confessare.

Quindi Salvotti:- Mentitore sfacciato, non la credéa capace di tanto; ella è il più sviscerato nemico del Governo, che l'aveva onorata di sua confidenza, come giudice. Ella ha voluto perdersi; pensi che con l'appoggio di questo solo documento qualunque tribunale può dannarla alla pena capitale.-… Villa, che, chiusi i processi, era stato messo in una camera vicina alla mia, e con cui conversava dì e notte, nulla me ne disse, né glie ne facéa cenno, non potendolo imaginare (sic) consapevole del fatto. Ma più tardi, allo Spielberg, conversando alla finestra col colonnello Moretti, e dicendogli di essere stato tradito da' più intimi amici, ciò provando col fatto di quel documento che sarebbe rimasto sempre sepolto senza l'opera iniqua o di Tisi o di Carravieri, Villa, che m'udiva da un'altra finestra, e che allora érasi dato interamente alla religione, propruppe:- Perdona, Foresti, per l'amor di Dio, non incolpare innocenti, io fui il traditore.-, e piangeva. - Dio m'accecava, la Religione t'impone di perdonarmi, ne avrai ricompensa in Cielo.- Poi mi descrisse il fatto, come poc'anzi narrai. Tutti dunque furono sacrificati da Villa; anche Carravieri fu arrestato dietro di lui deposizione conghietturale. Quegli poi morì in carcere di malattia polmonare, quando arrivava da Vienna il decreto di sua liberazione, premio a' suoi tradimenti. Andryane ha detto tutto, né più mi diffondo. Processi e sentenze passarono all'Appello, quindi al Supremo Revisorio di Verona, quindi sottomesse all'imperatore.

Perciò il 12 settembre del 1821, fui tolto di notte da' Piombi, ove stava con Cesare Armari, e scortato dal custode delle carceri criminali e da due guardie, senza permettermi nemmeno di prendere il mio cappello, e salutare il compagno, fui tradotto in una delle prigioni più orribili dell'ex inquisizione. Già si vociferava che presto giungerebbe a Venezia la suprema decisione dell'imperatore; io l'attendéa esiziale.

Vagheggiai sempre l'idea del suicidio. Maroncelli non racconta bene la cosa nelle sua Addizioni. Ecco il fatto. A S. Michele avéa involato dalla cucina del capo carceriere Gardani un temperino, e l'avéa nascosto in un bavaro del mio soprabito; ne' miei terrori lo riguardava come il mio liberatore. L'orrenda prigione ove fui posto era tale da abbattere ogni anima più vigorosa. Una cameretta bassa, pareti di marmo onde trasuda l'umidità dei secoli, luce fioca da uno stretto corridojo, per un finestrone munito di triplice e grossa ferrata; porticella bassa che bisogna chinarsi per passarla. Nella stanzetta un letticciuolo, un rozzo tavolino, una vecchia mastella fetente. Da molto non vi era stata anima vivente. Il custode mi precedeva con un lumicino. Entrato, gli dissi:- Pianta! parlate chiaro, mettono qui i condannati a morte?-- Oh! cosa mai va Ella ad imaginare [sic] - rispose - si tranquilli: posso dirle soltanto che arrivò un alto personaggio con cui Ella parlerà domattina di buon'ora. Le occorre qualcosa?-- Portatemi lume, una bottiglia di buon Conegliano, ed un libro.-

 

 

Mi portò subito il tutto. Il libro era un volumetto del Buffon. Presi alcuni sorsi di vino, apersi il libro, ma invano. Assorto a spiegarmi il perché di quella scena straordinaria, d'idea in idea mi convinsi essere quello un atto preparatorio della lettura solenne della sentenza, che sarebbe stata di morte, per le circostanze che mi gravavano; la mia qualità di pubblico impiegato, la mia ostinazione a non confessar nulla dell'oggetto politico della Società, la severa natura dell'imperatore, la creduta necessità di dare un pubblico efficace esempio. Quindi diceva fra me:- Bisogna morir subito, ché, se anche non fossi condannato a morte, non potrei sfuggire l'esposizione al pubblico, ed i ferri chi sa per quanto.- Richiamava la famiglia, la fidanzata, e piangeva. Intanto beveva per incoraggiarmi al suicidio. Vuotai la bottiglia, caro vino!

Era passata mezza notte. Levo dal bavero il temperino, lo guardo, parmi aguzzo abbastanza. Mi metto in camicia, mi stendo supino sul letto: sbottono la camicia, alzo la mano, e con un forte colpo infiggo la lamina alla forcella del petto ( ne porto ancora la cicatrice ). Sgorga il sangue, sento un lieve dolore, cui succede respirazione affannosa, credo morire e ne godo. Nel levare il temperino m'avveggo che la lama si è rotta a metà, l'altra metà mancante infissa nel petto. Getto a terra il frantumo, mi copro il volto col lenzuolo, aspettando con serena calma l'ultimo respiro. Sgorga il sangue, ma non si manifestano sintomi di morte. La ferita non era abbastanza profonda, e volendo pure la morte, mi levo, rompo la bottiglia, e ingojo varii frantumi un dopo l'altro; né basta, comincio a scarnificarmi le arterie delle braccia. A queste violenze succede una tensione di nervi al cervello, al continuo scorrere del sangue, spossatezza, atonìa. Arresto il sangue col fazzoletto e col lenzuolo a più doppi...non so di più...chi 'l crederebbe? Scosso all'alba dal carceriere Pianta, questi, al fioco raggio d'un lanternino, di nulla s'avvede; mi pongo il soprabito, mi lascio porre le manette, e lo seguo nell'oscuro tortuoso corridore. All'estremità interna del Ponte dei Sospiri v'è la camera del medico fiscale, al cui uscio due sentinelle tedesche col fucile.

Aperto l'uscio, vedo una camera bene illuminata ed ivi un signore di benigno aspetto con parecchie decorazioni, sedente a tavolino, coperto di tappeto con due candellieri (sic) sopra; ad un lato altro tavolino con un giovane che ha carta, calamajo, penne ed una busta. Appena posi piede sul limitare, il giovane, che era il segretario, manda un grido:- Che è stato? Signor Foresti, ella è tutto insanguinato!- L'altro, che era il cavaliere Mazzetti, tirolese, senatore al Revisorio, balza in piedi, e grida:- Carceriere! tosto un medico.-

Mi fa sedere, e quindi:- Infelice giovane, avete attentato ai vostri giorni!-

- Sì, e mi duole non essere riuscito.-

- Ma perché?-

- Per sottrarmi alla ferocia del vostro imperatore tiranno, che mi fa languire due anni in prigione per trarmi poscia al patibolo. Ma spero che né egli, né voj, né gli altri suoi sgherri avranno tale barbaro gusto. Ho risoluto distruggermi.- E qui aggiungeva altre cose sulla costanza de' miei principii politici, la loro giustizia, il dispotismo del conquistatore, l'amor di patria, etc.: tutto con molto disordine, laonde il Senatore certo mi giudicò fuor di senno. Mi lasciò dire, quindi con molta umanità:- Volete distruggervi, mentre S.M. per mezzo mio v'offre la mano del perdono? Mentre un naturale sentimento e la voce di religione dichiarano peccato il suicidio? Nel fiore dell'età, recando tanto dolore ai vostri parenti, impedendo le combinazioni che possono migliorare la vostra sorte? Infine poi il vostro delitto è un malinteso patriotismo (sic), e la vostra condanna, se la avrete, come meramente politica, non vi degrada, non v'infama nella publica (sic) opinione; e le vicende del mondo potranno fors'anco farvene un merito.- Con questi e simili discorsi, mi calmai, e quasi mi vergognai del tentato suicidio, sopratutto pegli odiosi commenti che ne farebbe il mondo. Entra intanto Dosmo, medico fiscale, esamina le ferite e pronuncia: quella nel petto grave non pericolosa, lievi quelle alle braccia, dubbiose le conseguenze dell'inghiottito cristallo. Ricondotto al carcere, proibito darmi forchette, coltelli o vetri; due guardie mi vegliavano dì e notte. I farmachi ebbero buon effetto. Polentine e oglio (sic) di lino mi tolsero dal ventre i frantumi, cui il medico straeva con una bacchetta da' miei escrementi: con un corrosivo si fe' uscire la mezza lama; si cominciò a rimarginare la mia ferita al petto, che durante lo stato d'infiammazione mi causò atrocissimi dolori, e dopo parecchi giorni fui dichiarato fuori di pericolo. Ma continuò la tortura morale, precipuo oggetto della missione di Mazzetti. Al primo interrogatorio mi leggeva un autografo di sua Maestà, cui diceva che commutava per grazia la pena capitale contro Villa, Fortini, Oroboni, Bacchiega, Canonici, Monti, Delfini, Rinaldi, Cecchetti, in 15 o 20 anni di ferri; ma ordinava, conforme la legge, l'esecuzione della pena capitale contro Foresti, Munari, Solera, purché non avessero delle importanti comunicazioni da fare sul soggetto dell'alto tradimento per cui erano stati condannati; nel qual caso la morte si commutava in 20 anni di carcere duro.
- Dipende da voi salvare la vita, siate sincero, mostratevi pentito, e m'impegno che i 20 anni diverranno 10, 8, forse 6 soltanto.

- Ma io non ho da aggiungere nulla! solo posso ripetere ciò che ho già deposto in processo.-

- Voi vi siete mostrato ostinato, usate molte reticenze, sedotto i compagni a ritrattare confessioni. Ciò prova che voi cercate occultare quanto interessa la politica esistenza del governo di S.M. in Italia.-

- Ripeto che nulla mi resta a dire, e non resta a Vostra Eccellenza che l'eseguimento del triste dovere di mettere in effetti la sentenza capitale.-

- Ebbene, vi ajuterò la memoria.-

E qui usciva con molti nomi, come il Principe di Calabria, il Card. Consalvi, il Principe di Carignano, Santorre Santa Rosa, etc. Quindi passava ad incidenti e fatti a me del tutto ignoti: la politica di Russia, Inghilterra, etc. Nessun risultato ottenuto. Li esami, durati circa quaranta dì, e fatti a me, Solera, Munari, ciascuno chiuso in diverse e distanti prigioni. Mel dissero quando ci rivedemmo. Perché questa tortura morale? Questa sospensione tra vita e morte? Non poteva gravemente pregiudicare e sin disperare le vittime? Infatti Munari, sotto quella tortura, provava un rallentamento alla vescica, ed un'affluenza di sangue, che più giorni gli uscì mescolato all'urina. Solera avéasi fatto preparare un altare nella stanza e si disponeva alla morte; simulazione, ché già era venduto al governo, come vedremo meglio. Ma io dall'insolita procedura arguiva, e mi fu grande vantaggio, che sentenza capitale non s'eseguirebbe. Pure durò 40 giorni l'orribile incertezza. Poscia fummo traslocati tutti tre nel monistero (sic) di S. Michele, ove continuàvasi contro me rigorosa sorveglianza. Quel dì stesso moriva il professore Rossi, e venivano liberati Romagnosi ed il Co: Giovanni Arrivabene. 23 Dicembre 1821: fummo tutti chiamati nella sala della commissione per udire la sentenza.

24 dicembre: condotti incatenati, verso mezzodì, a fare spettacolo publico: era sereno il cielo: alto e vasto palco era eretto per noi in piazzetta. Questa e tutti i circostanti edificii stipati di popolo d'ogni rango, età, sesso. Il vicerè assisteva dal gran balcone del palazzo imperiale: tutta la guarnigione sotto le armi, quattro pezzi carichi; gli artiglieri colla miccia a poca distanza dal palco; una cannoniera armata alla rada fra le due colonne. Un giudice dalle finestre del palazzo ducale legge la sentenza ad alta voce. Segni di pietà e simpatia da tutti, anche dal maggiore Chatler che comandava la piazza. Sordo mormorìo alla parola morte, alto e giulivo a quella di grazia. Salvotti ci avéa detto il giorno innanzi che, per favore speciale del vicerè, ci si permetteva di tener coperta la testa e gli occhi col cappello durante l'esposizione al publico (sic). Oroboni si era levato il cappello.Uno de' secondini gli disse:- Signor conte, si copra la testa e gli occhi.-

- No, rispondeva esso, voglio star scoperto, non mi vergogno in questo luogo; vi sono per una bella e santa causa, voglio che tutti mi veggano bene.-

Ritornando in gondola a S. Michele, sventolamento di fazzoletti bianchi, dimenamento di mani, gesti d'incoraggiamento, specialmente per parte delle signore. Nella stessa sera s'udì una serenata in laguna intorno al monastero.

Condotte notevoli di alcuni condannati e principali carbonari. Età giovanile ed inesperienza fecero la maggior parte debole nel processo; mal talenti fu in pochi. Durante i secreti maneggi della Carboneria (1797-1798) nessun dei processati e de' molti carbonari del Ferrarese, Romagna, Veneto, tradì il segreto, sebben tutti lo conoscessero.Uno sleale poteva farne la sua fortuna, svelando i preparativi delle scoppiate rivoluzioni di Napoli e Piemonte. Qualunque apprendente sapeva tali cose. Eppure quello sleale non vi fu, e le rivoluzioni avvennero. Dunque nella massa di que' giovani era o gran rettitudine o gran patriotismo...

 

 

Spielberg

 

 

10 Gennaio 1821; ordine del governo di tradurre i condannati al luogo di loro destinazione. Preparativi di forzieri, lettere di congedo alle famiglie, tristezza in parecchi, ilarità in molti altri. I giudici ci ospitavano e commiseravano, dicendo: non ci aspettavamo tanto. 12 minuti dopo mezzanotte partenza con tre commissari di scorta, un distaccamento di polizia; noi incatenati a due a due. Quasi un mese di viaggio,arduo e pericoloso, specialmente sulle alture di Carintia e Stiria coperte di neve. La sera quasi sempre in qualche albergo; due o tre nelle pubbliche prigioni; mai a letto, ma su nuda paglia, in una sola stanza, insieme co' soldati di scorta. Eravamo due per ciascuna carozza (sic) con tre soldati. Per piano prestabilito si entrava nelle principali città dell'impero con qualche pubblicità, per dare utile esempio ai sudditi fedeli. Mai nemmeno un cenno di sprezzo dal popolo, ma segni di pietà specialmente dalle donne. Burberi solo i commissari, perché malvisti da tutti; ed in ragione della maggiore buona accoglienza dei paesi in nostro favore, aumentava la studiata durezza di quelli [cancellatura, perché anziché scrivere di quelli, Bocchi si era sbagliato. Anche se la cancellatura è marcata, pare di intravvedere dei commissari ]. Parvero ovazioni il nostro ingresso a Treviso, ed altre principali città d'Italia, in Laibach, Gratz, Bruch, Marburg, S. Polten ed altri mgiori luoghi di Carintia, Stiria, Austria inferiore, Moravia. Sul trattamento dello Spielberg vedi Andrjane e Pellico. Appena giunti ci misero i ferri, pesanti sì da poterci appena muovere; dopo un anno circa allegeriti (sic); a me otto mesi più tardi. Un pagliericcio, una ruvida coperta di lana, un duro tavolato, una cameretta di 12 passi lunga, otto larga, una finestrella alta con barre di ferro, una seggetta, un vaso di legno con acqua, un cucchiajo di legno, non altra posata, quindi bisognava mangiar collle mani. Da prima leggevamo liberamente i molti libri portati; dopo due anni ce li tolsero, lasciandoci solo per grazia pochi ascetici e controversisti religiosi. Mai novelle di famiglia, vessazioni e rigori per quasi 14 anni. Visite alla persona, ai vestiti, scarpe dure e grosse, calze di lana ruvidissima sempre, camicia di tela grossa ed ispida. Il più duro trattamento fu i primi 15 mesi. L'arrivo di condannati lombardi recò qualche mitigazione. Ma noi per quel lasso di tempo avemmo pochi cucchiaj di schifosa minestra, poca carne quasi sempre putrida infilzata in stecchi di legno, il brenn-suppe, di cui parla Pellico, ed un pezzo di pane; insomma il terzo della porzione dell'ospitale. Giunti giovani, vigorosi, ben nutriti, immagrimmo sì che il medico, il governatore, il direttore generale di Polizia temevano di nostra vita: visitandoci si mostravano inteneriti. Munari e Pellico furono presso a morte, Oroboni morì, Villa sveniva gridando: fame, fame! io stesso svenni una volta. Il medico, non potendo far altro, ordinava per medicina cordiali, o frutta, o un bicchiere di vino. Morirono in carcere oltre Oroboni; Villa, il colonello (sic) Moretti, Albertini di Mantova. Il vitto sempre in vasi immondi, irruginiti, di ferro; ma dopo l'arrivo dei lombardi abbiamo cibo più abbondante e sano, ed un bicchiere di vino. Ma non si migliorò la vita intellettuale e morale. Ci fu concesso, non prescritto come alcuno disse, di far calzette, filacce, o segar legna; e ci come sollievo. Usando le astuzie riferite da Andrjane, potemmo scrivere. Il direttore generale di Polizia era duro, inflessibile formalista, come tutti i poliziotti: Mitrowski governatore della Moravia, uomo eccellente. Vissero fra quegli orrori: Solera, Tonelli, Fortini, 6 anni, Pellico e Maroncelli più di 8, Andryane otto. Bacchiega e Munari 12, Confalonieri, Bacchiega, Castillia 12 , Foresti 14 meno tre mesi. Argenti ed Albinola condannati nel 1834 stettervi 18 mesi, Arerse, Martinenga, Cegola, Bastasini, condannati pochi a Lubiana, vennero invece allo Spielberg, ma per poco, Manfredini di Mantova, ed il March. Pallavicino, furono dopo qualche anno traslocati, credo, a Gradisca, come noi, sino al 1836. Confessori mandati periodicamente dall’imperatore; uomini compri, spie che facevano servire la religione alla politica. P. Wurba agostiniano venne per poco in principio, P. Paulowitz dalmata poi vescovo di Cattaro, infamassimo ignorantone, di cui narra il vero Andrjane, mi ripeteva: " S.M. è in collera con lei, suo incorreggibile nemico, tuttavia speri nel suo animo generoso. Avete a fare qualche importante rivelazione?". Tutti l’odiavano. P. Zinch dotto e bravo, ma spia, Bacchiega e Munari gli rinfacciavano che amava pescare sempre nel torbido. Recatosi a Brunn l’Imperatore nell’estate del 1834,* ( e 1835 aggiungono le memorie, ma deve essere errore, perché Francesco I moriva il 2 marzo 1835. Saranno piuttosto gli estati 1830, 1834 ) per assistervi a manovre militari, s’accrebbero per noi i rigori. Quando egli giungeva nel 1834, Alberini stava morendo di idropisia, Munari era paralitico, gli altri tutti deboli ed infermicci. L’imperatore ci mandava il suo medico privato, ma giammai parole di consolazione, né atti di miglioramento. Morto Francesco I ( 2 marzo 1835 ), ce ne accorgemmo dallo scampanio della città e dall’emissione dell’ "oremus pro imperatore" nella messa. Gioja e speranza. Lo sapemmo di positivo dall’arrivo dei condannati della Giovine Italia del 1835. Vedemmo partire tosto Munari e Bacchiega: due visite straordinarie dell’imperatore ci indicavano novità. Finalmente in settembre 1835 compariva la commissione speciale ad offrirci o bando perpetuo in America, o finir la pena nello Spielberg. Scegliemmo la deportazione. Durante il tempo datoci a deliberare non si sminuì un atomo del solito rigore, sebbene fin dal primo momento della fattaci alternativa, avessimo tutti preferito il bando. Accettato questo, fummo condotti alle carceri politiche in Brunn, e trattativi bene. Sala di comune convegno, gazzette, libri a piacere; pranzi e giulive conversazioni tra noi. Giungevano intanto colà un fratello di Gonfalonieri, una sorella di Corsieri, un fratello di Castillia. Rimanemmo colà dal settembre 1835 ai primi di marzo 1836. In vettura con soldatesca di scorta fummo condotti a Gradisca, amenissimo e sanissimo luogo, che ci rialzò le esauste forze. Dovunque liete accoglienze, ad Udine fummo sì pressati da folla festeggiante, che il commissario, temendo sedizione, domandò una compagnia di linea per disperdere la folla. A Gradisca sino i primi d’Agosto: trattamento ottimo. Ogni giorno lunghe passeggiate fuori del castello, accompagnati dal commissario e da una sola guardia disarmata: corse in carrozza od a cavallo a Monfalcone, Gorizia ed altrove, permessi anche; conviti e conversazioni serali, visite liberissime da cittadini e cittadine di Gradisca, dai parenti nostri, che stettero con noi più giorni. Così rinvigorimmo, poi a piccole partite fummo condotti di notte a Trieste, dove salpammo ai primi di Agosto 1836 col vascello l’ Ussaro comandato da un Dalmata…Stemmo quasi tre mesi in mare, approdammo il 20 ottobre 1836 a Nova-York…A Nova-York fummo ricevuti dal console generale austriaco. Gli italiani di colà ci diedero splendidissimo pranzo, otto giorni dopo il nostro arrivo; le Gazzette parlarono per 2 o 3 mesi di noi, raccomandandoci al publico [sic]. Invettive acerbissime contro la durezza del governo austriaco. ( Finiscono qui i ricordi di Felice Foresti sui carbonari, sui loro processi nel Veneto, etc.).

 

 

 

Nota

 

Si sono trascelte dal manoscritto le seguenti carte:

 

le carte 1r, 2v e r.

3v e r, 4v e r, 5 v [riga 10].

5v [riga 11] e r, 6v e r, 7 v [riga 18] . 7 v

[riga 24], 8 v e r., 9 v e r, 10 v [riga 7].

10 v e r, 11 v e r, 12 v e r. 13 v e r, 14 v e r, 15 v e r [riga 12].

15 r [riga 13], 16 v e r, 17 v e r, 18 v [riga 20].

18 v e r, 19 v e r, 20 v e r, 21 v e 21 r 22 v e r, 23 v [riga 12].

23 r e 24 v [riga 13], 28 v e r, 29 v e r. 30 v e r, 31 v e r.

32v e r.


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