Fu nel 1847 che Maurice per
la prima volta, con l’aiuto di Eugène Lambert, suo amico e suo compagno
all’atelier d’Eugène Delacroix, e senza altro pubblico che me e Victor Borie,
allora giornalista in provincia, installò una baracca di burattini nel nostro
vecchio salone. Non eravamo abbastanza numerosi per recitare la commedia
all’improvviso (confronta Masques et bouffons, Maurice Sand[1]). La compagnia si era disgregata, ed eravamo rimasti
solo in quattro in casa: due di noi si dedicarono così ad allietare le lunghe
sere d’inverno agli altri due.
La prima esibizione non ebbe comunque luogo su un
palcoscenico. L’idea nacque dietro una sedia il cui schienale girato verso gli
spettatori era fornito d’un grande cartone disegnato e di un telo che
nascondeva i due artisti inginocchiati. Due ciocchi di legno appena sgrossati e
fasciati di scampoli, innalzarono il loro busto sopra lo schienale e diedero
vita a un dialogo molto animato. Non ne ricordo una sola parola, ma dovette essere
molto piacevole, poiché ci fece molto ridere, e pretendemmo subito delle figure
dipinte e una scena dove farle muovere.
Questo teatro si componeva di un leggero telaio dotato di
un’indiana[2] con decorazioni vegetali e di sette attori tagliati in
un ciocco di tiglio: Mr. Guignol, Pierrot, Porporino, Combrillo, Isabella,
Della Spada, il Capitano, Arbait, un gendarme e un mostro verde. Io posso
vantarmi della realizzazione del mostro, le cui ampie fauci, destinate a
inghiottire Pierrot, erano formate da un paio di pantofole foderate di rosso e
il corpo da una manica di seta bluastra. Sicché questo mostro, che esiste
ancora e che non ha smesso di portare il nome di “mostro verde”, è sempre stato
blu. Il numeroso pubblico che da allora l’ha visto in azione, non se n’è mai
accorto.
Si recitarono alcune féerie. I due giovani artisti,
abituati già all’improvvisazione, furono così comici che i due spettatori,
all’unanimità, li spronarono ad aumentare la compagnia e a curare la
scenografia. Essi risposero che il teatrino era troppo piccolo e che non
ammetteva che un paio di quinte e una tela di fondo. Ci si sarebbe potuto
pensare per l’anno venturo.
Ma non fu possibile aspettare. Victor Borie, volendo
rappresentare un incendio, mandò a fuoco per davvero il teatrino e bisognò
costruirne un altro, con le dimensioni raddoppiate. Durante l’inverno si
rappresentarono sette opere: Pierrot liberatore, Serpentino verde, Olivia,
Woodstock, Il monaco, Il cavaliere di Saint-Fargeau, Il risveglio del leone.
Nel 1848 se ne
rappresentarono una dozzina. Dopo pranzo, portavamo sempre l’intelaiatura nel
salone, allestivamo la scenografia e ogni sera constatavamo un nuovo progresso.
Cromwell, Leon, Lacroix, Valsenestre, Cleanthe, Louis, Rose, Celeste, Ida e Daumont
vi hanno visto il giorno e, appena usciti dal ceppo di legno, sono apparsi
sulla scena con la sicumera degli attori più esperti. Avevamo migliorato
l’illuminazione, la cosa più difficile da ottenere senza rischi d’incendio in un teatrino mobile. Ma la struttura
era ancora troppo imperfetta perché ci si applicasse troppo alla scenografia. E
poi si recitava ancora più volentieri e più spesso la commedia all’improvviso
che i burattini. Cosa che non impediva che alcune serate fossero dedicate alla
lettura. A turno ognuno leggeva mentre gli altri lavoravano ai costumi o alla
scultura delle figure. Stavamo terminando di leggere i Girondini di
Lamartine quando, a causa di una assillo molto naturale, Maurice e Lambert
ebbero l’idea di rappresentare tutta la rivoluzione francese in una serie di
quadri concependola come un romanzo storico alla Walter Scott. Ci furono
soltanto due rappresentazioni. La rivoluzione di Febbraio[3] ci sorprese nel bel mezzo della nostra vita di campagna
e ci disperse di nuovo.
Nel ‘49 ci si rimise all’opera: la compagnia composta da 17
personaggi si sistemò in una piccola stanza a volta che serviva da ripostiglio
e che nella mia infanzia chiamavamo, non so perché, la stanza degli archivi.
Quell’anno fu ripulita, restaurata e classicamente consacrata “alle muse”. Uno
o due anni dopo abbattemmo un grosso muro, al cui posto costruimmo un’arcata, e
la sala dei burattini divenne la platea per un pubblico di 60 persone
accomodate su una tribuna che si smontava e rimontava in poco tempo. Al di là
dell’arcata si trovava una grande sala abbastanza alta perché ci si potesse
impiantare il teatro degli attori vivi e da cui si rimosse il bigliardo per
sistemarvi un secondo palco. Questa combinazione fu molto felice. Installammo
le luci sulla parete rivolta al teatro e lo spettatore, seduto nell’ombra, era
assolutamente ingannato riguardo alla dimensione e alla profondità degli
oggetti esibiti di fronte a lui. Si era ottenuto un effetto di diorama[4] che permetteva delle prospettive e dei rilievi notevoli
in uno spazio in realtà esiguo.
Per quanto riguarda i burattini, posto il loro teatrino nella
parte della sala degli archivi che non si trovava di fronte all’arcata,
esso rimase tranquillo e intatto dietro un tramezzo mobile che ne celava interamente
la facciata. Quando lo si riaperse, gli si applicò lo stesso sistema
d’illuminazione dell’altro teatro. Essendo la sua struttura fissa molto solida,
la si munì di una ribalta e di ritti nascosti alla vista dello spettatore e
provvisti di possenti riflettori. Più tardi si mise una bilancia di luci dietro
il cieletto[5] e più tardi ancora se ne aggiunsero altre due al centro
e in fondo, cosicché la scena era illuminata come quella di un vero teatro e ci
si poteva permettere una scenografia di gran lusso nella quale era consentito
di regolare l’illuminazione secondo gli effetti desiderati. Niente era più
semplice che ottenere una luce rossa o blu per mezzo di vetri colorati, ma non
ci si fermò al minimo indispensabile. Si volle il sole, la luna, le stelle e il
riflesso degli astri nelle acque. Maurice, diventato prontamente falegname,
fabbro e meccanico, fu ben presto un abile macchinista di scena. Più tardi
ancora si desiderò veder sorgere e tramontare il sole e la luna. Eravamo
esigenti: trovavamo insopportabili quegli astri immobili. Dipingemmo dei cieli
su stoffa e, dietro, vi facemmo salire e scendere, sfiorando la tela, una
lanterna magica la cui lente era regolata sulla luminosità desiderata. Per
mezzo di una semplice puleggia, di cui si calibrò il movimento e si smorzò il
rumore, ottenemmo che il sorgere e il tramontare della luna e del sole fossero
altrettanto lenti e silenziosi che nella realtà. Non si trattava d’altro che di
preparare il marchingegno prima dell’alzata del sipario e di farlo funzionare
al momento giusto. Il cambiamento di luce sulla scena fu ottenuto grazie ad
alcuni fili di cui l’operatore si serviva con la più grande facilità senza
interrompere il suo dialogo. Tutto ciò ebbe bisogno di lunghi tentativi. Oggi
tutto risponde alla volontà dell’operatore ed una lanterna elettrica gli
consente le apoteosi. Diciamo, per terminare con ciò che riguarda
l’illuminazione, questo aspetto essenziale degli effetti teatrali, che non si
tollerano affatto lampadari nella sala. Qualche candela sistemata sulla parete
di fondo, dietro gli spettatori, è sufficiente per far trovar loro il posto:
tutto lo splendore dell’illuminazione, di cui non si deve percepire la fonte,
si concentri sul teatro. Si tratta
sempre dell’effetto diorama: non si è mai tentato di applicarlo altrove eppure
fornirebbe alla scena quella magia e quella profondità che adesso non ha. I
commedianti italiani sanno bene che l’occhio perde la facoltà di veder bene
quando il chiarore lo avvolge e lo penetra da vicino e che perciò la sala deve
essere scura affinché la scena risulti luminosa. Ma i francesi, e le francesi
soprattutto, vanno a teatro per farsi vedere e lo spettacolo passa spesso in
secondo piano.
I progressi raggiunti da Maurice nell’arte d’adattare le
meraviglie del teatro alle dimensioni di una bomboniera, con semplici e poco
costosi mezzi, quindi alla portata di molte persone, furono spesso interrotti
dallo studio di cose più serie. Quando avevamo del tempo libero, cosa che non
capitava tutti gli anni, il Grand Théâtre, come noi lo chiamavamo per
antitesi obbligata, benché fosse anch’esso una bomboniera, ci occupava
maggiormente; ma per la cura che portavamo per i nostri costumi, per la nostra
messa in scena e per l’abitudine che prendevamo d’improvvisare il dialogo, il
dono di fare agire e parlare i burattini non si dissipava nei nostri giovani
artisti. Nel 1848 e 1849, ci avevano recitato diciotto nuove opere. Nel 1854,
Thiron, oggi alla Comédie Française, debuttò con noi, non solo nella commedia
improvvisata, ma anche nel teatro dei burattini e fu straordinario di spirito e
di brio su entrambe le scene. Lambert, altrettanto brillante e molto originale,
occupò in seguito il suo posto. Poi vennero Alexandre Manceau l’anno successivo
e Thiron ancora. Più tardi toccò a Victor Borie, Sully-Lévy, Edouard Cadol,
Charles Marchal e Porel. Infine, tempo dopo ancora, il nostro amico Placet e
due miei nipoti furono i compagni di mio figlio nella messa in scena, nella
preparazione dei canovacci e nella recitazione con i burattini. Con gente che
ha spirito da vendere, era difficile che queste rappresentazioni non fossero
squisiti divertimenti. Dal 1854 al 1872, ce ne furono circa centoventi. Poi
Maurice lavorò e operò da solo e fu allora che questo teatro ha imboccato una
nuova via che non sarà senza dubbio la sua ultima, ma che è la via di un’arte
completa nel senso che potrà affrontare generi fino ad ora vietati alle sue
possibilità esecutive.
[1] Nella prefazione di quest’opera, Maurice Sand
ripercorre la propria formazione artistica al teatro.
[2] Stoffa di cotone colorata.
[3] Si tratta dei moti rivoluzionari del 1848 che
videro impegnata in prima linea George Sand a sostegno delle posizioni più
progressiste.
[4] Il diorama teatrale era uno “spettacolo ottico”
messo a punto da Martin Engelbrecht nella prima metà del XVIII sec. Consisteva in una scatola magica all’interno
della quale si trovava una visione in profondità di una scenografia animata che
acquistava tridimensionalità grazie al gioco di una lente e di uno specchio.
Dagli anni ’20 del XIX secolo grazie a J.-L. Daguerre e C.-M. Bouton il diorama divenne uno spettacolo che si svolgeva
all’interno di un frequentatissimo tendone parigino. Ebbe notevole e duraturo
successo e si inseriva in quel filone di esperimenti ottici il cui obiettivo
era di trasportare lo spettatore in un paesaggio illusorio, che per la capacità
evocativa trasmetteva stupore e meraviglia in chi l’osservava. Come il panorama,
anche le scenografie del diorama si presentavano illuminate ad uno spettatore
immerso nell’oscurità, ma possedevano una tecnica più avanzata di messa in
scena che permetteva di simulare le progressive variazioni di luminosità della
giornata.
[5] Striscia di stoffa posta sul lato superiore del
boccascena.