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Ortonesi veraci
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Osvaldo Taglieri -
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Osvaldo Taglieri è nato ad Ortona dei Marsi l’11 Dicembre 1915 |
Ci siamo recati ad intervistare Osvaldo in un caldo pomeriggio del mese di agosto. Avevamo concordato l’incontro e, con sua moglie Giovannina, ci ha accolto in casa dandoci un caloroso benvenuto.
Osvaldo ha raccontato tanto, con molta pacatezza e ci ha fatto condividere singolari episodi che hanno caratterizzato la sua vita.
Lo ringraziamo per questo.
Osvaldo Taglieri è nato ad Ortona dei Marsi l’undici Dicembre 1915 ed è sempre vissuto ad Ortona, tranne il breve, ma, significativo periodo della guerra.
Osvaldo ci racconta che ha frequentato la scuola elementare fino alla classe quarta poiché all’epoca non c’era altro, siamo nel 1923.
A scuola era molto bravo, tanto che il maestro Giovanni dell’Orso consigliò al padre di fargli proseguire gli studi. Il padre, però, non acconsentì.
“Quelli erano tempi difficili” ci dice Osvaldo; Florindo, suo fratello, stava già studiando a L’Aquila presso il Convitto Nazionale e la retta ammontava a 300 lire mensili perciò sul bilancio familiare non era possibile far gravare un’altra spesa.
Da bambino, qualche volta, egli si divertiva a giocare al fiume con gli altri compagni. Era un modo per sfuggire al controllo del padre, il quale, frequentando la cantina di Adriano, poteva allungare lo sguardo direttamente verso l’edificio scolastico e se lo avesse scorto sarebbero stati “guai”.
Conclusa la scuola elementare, non potendo proseguire gli studi, Osvaldo ha cominciato subito a lavorare. Talvolta, all’età di 15-16 anni, ha portato le pecore al pascolo poiché i suoi genitori possedevano un gregge di circa 200 elementi. Ma il suo vero lavoro lo ha svolto nella macelleria di famiglia, della quale, la madre, originaria di San Sebastiano, era proprietaria. Agli inizi, il suo compito consisteva nel preparare la carne.
Osvaldo con il tempo ha acquisito i segreti del mestiere e la macelleria è diventata di sua proprietà. Ma, quando questo è accaduto, il numero dei macelli ad Ortona era molto aumentato e così la concorrenza. Si dedicavano a questo mestiere oltre ad Osvaldo, Lorenzo Giunchiglia detto “Ginghinitt”, Giuseppe Grassi detto “Pichieppa”, Mauro Cacchione detto “Salass”, Antonio detto “I pec’rar”.
La macelleria aveva tanti clienti e gli altri lo invidiavano.
Osvaldo ci ha raccontato un episodio particolare che gli è accaduto nello svolgimento della sua attività. Una sera, mentre spellava una pecora dentro il macello, cosa che non si poteva fare, un carabiniere che passava di lì voleva multarlo. Per fortuna entrò suo cugino Alessandrino che lo difese bene, erano quasi arrivati alle mani, e riuscì ad evitare la multa.
Osvaldo, con orgoglio, ci ha reso partecipe di una “prodezza” compiuta da suo padre Ernesto che riuscì a bere, in sole tre sorsate, un decalitro di vino. Era questo l’oggetto di una scommessa sorta con il carrettiere di Pescina.
A mezzogiorno il padre non bevve e mangiò poco, ma quando ritornò a casa era ubriaco, tanto che cadde a terra e riportò diverse escoriazioni sul viso. In realtà quella scommessa era stato uno scherzo fatto al solo scopo di fare ubriacare il padre che invece reggeva molto bene l’alcool: gli scommettitori questa volta erano riusciti nel loro intento.
Osvaldo è stato “sotto le armi”. A causa di un’ernia inguinale, per ben due volte, è stato riformato, poi con una operazione ha risolto il problema ed entrato nell’esercito proprio qualche giorno prima che scoppiasse la guerra. Il padre non voleva.
E complessivamente è stato soldato per sei anni tra guerra e prigionia. E’ partito il 13 marzo 1940 ed è tornato alla fine di agosto del 1945.
Quando ha ricevuto la chiamata alle armi, all’età di 25 anni, si è recato con Giacomino di Panfilo al distretto di Sulmona per conoscere la destinazione e ha appreso di doversi recare a Monopoli in provincia di Bari. Grazie all’intervento di un ufficiale, che aveva conosciuto in precedenza ad Ortona e con il quale avevano suonato insieme, è stato mandato a L’Aquila, in fanteria, dove è rimasto per circa un anno, mentre Giacomino è stato mandato a Monopoli.
Osvaldo ci racconta che, mentre erano a Sulmona, con Giacomino sono andati a salutare il sergente Venti Florindo, loro amico, lasciando al distretto tutti i vestiti e il necessario per la vita militare; quando sono tornati non hanno più ritrovato le due gavette perché qualcuno, nel frattempo, le aveva rubate.
Mentre si trovava militare a L’Aquila, gli venne suggerita la possibilità di tornare, per un giorno, a casa utilizzando la corriera che fermava a Celano; e, Osvaldo, sicuro che al momento dell’appello qualcuno lo avrebbe coperto, decise di provare. Ma ad Ortona lo accolse una sgradita sorpresa: vide arrivare il maresciallo che gli chiese: “Sei tu lo scappaticc’?” e gli ordinò di ritornare la mattina presto in caserma, perché ormai si era fatto tardi.
Dopo circa un anno trascorso a L’Aquila, Osvaldo è stato trasferito in Albania, per la precisione a Valona, dove la compagnia cui apparteneva era stata incaricata di presidiare la zona loro affidata. Osvaldo era “il postino”: aveva il compito di portare gli ordini da una caserma all’altra, specie di notte. Ci racconta che i suoi superiori lo consigliavano di passare sempre in mezzo alla strada per non destare sospetti. In realtà il loro non era un consiglio bensì un ordine. Ci dice sconsolato: “Gli albanesi erano cattivi, erano sempre pronti a farti la pelle”.
Nel porto di Valona c’era il pontile n° 2, utilizzato per poter salire e scendere dalle navi, le quali, a causa dell’acqua molto bassa, dovevano attraccare a molti metri dalla riva. Osvaldo lo ricorda con amarezza, ci dice a tal proposito: “Ho tradito una legge”. Egli non voleva essere messo a lavorare lì e a fare la guardia di notte perché gli inglesi, di stanza in Grecia bombardavano a ripetizione, specialmente di notte. Era quindi un posto molto pericoloso. Il maggiore, che lo conosceva bene, lo comprese e gli diede un compito diverso: quello di stare per 15 giorni di guardia al portone della caserma.
E in seguito prestò servizio presso l’Ufficio del Lavoro della sezione staccata del Genio Militare di Valona dove svolgeva i compiti più diversi.
Aveva tanti amici ma con lui non c’era alcun paesano.
Incontrò alcuni ortonesi, Middio, Fernando, Saverio e un signore di Cesoli, soltanto in occasione di un bombardamento tra inglesi e tedeschi. Ebbe l’opportunità di offrire loro due torte perché erano affamati, ma non riuscì a portargliene della altre perché il giorno dopo erano già andati via.
Mentre era al porto di Valona, Osvaldo, a causa della fame, scappò e rimase in fuga per 5 giorni. Ebbe la fortuna di incontrare un soldato che, non appena ebbe appreso la sua origine abruzzese e soprattutto ortonese, essendo originario delle nostre parti, lo invitò a seguirlo per offrirgli qualcosa da mangiare insieme agli altri soldati.
Osvaldo in Albania si fece curare i denti pochi giorni prima che venisse dichiarato l’armistizio; il dentista era ebreo e avrebbe dovuto ricevere il pagamento dopo il 9 settembre. Il denaro necessario era ben custodito nella valigia.
Il 9 settembre del 1943, invece, successe “il finimondo”. Osvaldo ci racconta che si recò a prendere il rancio, come al solito, ma, al rientro in caserma, con le gavette colme di riso, trovò una brutta sorpresa: i soldati tedeschi erano nel corridoio e molti altri ufficiali stavano salendo le scale verso i piani superiori. Egli poggiò le gavette, vide anche il telefono per terra con i fili tagliati e pensò: “E’un guaio”. E, piano piano, uscì dalla caserma come fosse una persona che non faceva parte di quel posto.
Di fronte c’era l’edificio dove mangiavano i sottufficiali e c’era gente militarizzata, vestita in borghese, che indossava divise militari solo all’occorrenza.
Osvaldo, entrando da una porticina laterale, vi si nascose e osservò quello che stava succedendo dall’altra parte. I tedeschi presero tutto quello che piaceva loro e, purtroppo, anche i soldi dalla sua valigia: ormai non servivano più, non poteva più andare dal dentista.
Osvaldo ci racconta che non andò subito prigioniero dei tedeschi. Rientrato nell’edificio si liberò della divisa e la buttò giù da una finestra. Un ufficiale riuscì a recuperare i suoi indumenti e chiese notizie su di lui perché dalla piastrina, che purtroppo aveva dimenticato di tagliare, si individuava il nome e cognome dei genitori.
Però in quell’ufficio, un tale di nome Bernardino riuscì a coprirlo spiegando all’ufficiale che Osvaldo era un impiegato loro.
Per punizione, comunque, i tedeschi lo fecero guardiano delle automobili e di alcuni fusti di benzina. Rimase lì tre o quattro notti.
“Il viaggio” verso il campo di prigionia in Germania iniziò a Valona. Da qui, percorrendo a piedi circa 110 Km., Osvaldo, che aveva con sé solo un moschetto e tanta tanta sete, e i suoi compagni furono condotti a Durazzo dove si imbarcarono. La nave impiegò circa 3-4 giorni di viaggio per arrivare a Trieste. Qui rimasero fermi per circa tre ore, fino a quando non giunse l’ordine di tornare indietro e di sbarcare a Venezia dove c’erano le tradotte (treni) pronte per deportarli in Germania. Il treno su cui lo fecero salire non era blindato.
“Quelli dell’alt’Italia erano brava gente”: è il ricordo commosso per quelle persone che in Altitalia lanciavano verso il loro treno delle patate cotte, non bollite, ma arrostite, con l’intento di dare a quei “singolari passeggeri” un boccone che avrebbe mitigato i morsi della fame.
Il treno attraversò il Brennero, si fermò ad Innsbruck e infine giunse al campo di smistamento di Mappen. Il giorno dopo i prigionieri furono trasferiti in un campo di prigionia nei pressi di Dusseldorf.
Osvaldo ricorda che, da lontano, si vedeva la città “in piedi”, nella sua immensa maestosità, avvicinandocisi, invece, lo spettacolo era agghiacciante: enormi palazzi sventrati o rasi al suolo dai ripetuti lanci di bombe incendiarie. C’erano stati circa 12.000 morti su una popolazione di circa 650.000 abitanti.
La permanenza al campo di prigionia è stata pesante, molto dura ed è durata per ben due anni.
Nel campo c’erano due baracche; stavano in 28 dentro una di esse; dapprima erano solo italiani poi furono divisi con i russi.
Alle 7.00 del mattino, anche prima, era pronto il camion che li conduceva alle fabbriche. Si attraversava il fiume Reno. La mattina si lavorava sodo e la sera si ritornava al campo. Il lavoro consisteva nel ristrutturare le fabbriche danneggiate, ricostruire, usando lunghe sbarre di ferro, i capannoni industriali nei quali si produceva olio per la guerra, conservato in vasche alte più di due metri; non si costruivano né cannoni né altri tipi di armi da guerra come alla Krupp che stava più lontano.
I bombardamenti si succedevano in continuazione.
La sera, quando passavano il rancio, suonava sempre la sirena e non si poteva mai mangiare tranquillamente. Bisognava sempre scappare per nascondersi nel rifugio che era costituito da un tubo e cercare di mangiare lì dentro.
Si poteva riposare un pochino solo la notte.
Osvaldo ci racconta che con lui vi erano due napoletani, i quali suonavano al campo degli ufficiali. Questi napoletani volevano a tutti i costi la sua piccola mandoliera e furono disposti a scambiarla con uno dei loro violini, piccolo ma buono, anche se sfornito di astuccio. Il violino è quello che ha ora e per riportarlo dovette lasciare le coperte. L’astuccio mancante, invece, glielo ha regalato in seguito Don Vincenzo.
Mentre era prigioniero suo fratello Florindo gli mandò due pacchi: uno contenente dei guanti e uno con dentro un dado per il brodo. Osvaldo non lo conosceva, ma per i compagni di prigionia fu una leccornia perciò quando ne parlò fece finta di sapere a cosa servisse.
“Quando arrivarono gli Americani a momenti ce ne andavamo tutti” ci dice Osvaldo. I tedeschi fecero saltare subito il ponte, ma gli americani furono più veloci e, in quattro e quattr’otto, misero le barche e passarono ugualmente.
Più volte ha tentato la fuga dal campo di prigionia. Per due volte, insieme con un suo compagno che faceva di mestiere il macellaio come lui, disse che andava in lavanderia verso un paese, distante 5 Km, chiamato Frugafén. In realtà tentava di passare dall’altra parte. Il ponte però era stato distrutto e quindi arrivato ad un certo punto non ha mai potuto proseguire perché significava attraversare a nuoto il fiume.
Una sera che si era fatto molto tardi (alle otto c’era il coprifuoco), un olandese, che sostava nei pressi del fiume, lo vide e nel ricordargli il nome della fabbrica dove lavorava, gli chiese se voleva passare dall’altra parte. Chiamò allora un ragazzino che aveva una barchetta e gli ordinò di portare Osvaldo. La traversata fu avventurosa perché la barca si girava e c’era il rischio che entrasse l’acqua; poi, modificata la posizione della barca rispetto alla corrente, il pericolo fu scongiurato. All’arrivo il ragazzo rifiutò i 50 marchi che il passeggero voleva offrigli come ricompensa.
Osvaldo si ritrovò sulla terra ferma di fronte ad un vallone grande, vide un terreno fresato e pensò che quella fosse la strada da prendere. Passò di lì ma il terreno affondava. Aveva percorso appena 15 metri che udì un grido: “Mines” (mine). Allora si rese conto che lo avevano fresato apposta per nascondere le mine. Con la massima cautela possibile rifece il percorso a ritroso, camminando all’indietro sulle sue stesse orme. Quella sera stessa trovò la fabbrica e ricevette l’ospitalità di un meccanico che, avendo la casa lì vicino, gli offrì patate e carne.
Osvaldo ci racconta che è tornato in Italia con il treno ma è stato fermo quattro notti sulle nostre montagne; benché fosse agosto inoltrato, ha sofferto molto il freddo e, poiché aveva dovuto lasciare le coperte in Germania, non poté coprirsi adeguatamente. Il paesaggio che appariva al suo sguardo era terribile: montagne di macchine distrutte, vallate depauperate.
Una volta arrivato a Pescina, un signore di Aschi, amico di suo padre, lo riconobbe e fu disposto a caricare sul suo somarello il violino per portaglielo a casa. Osvaldo, fu costretto, quindi, a ritornare a piedi. Il primo incontro con una persona di Ortona lo ebbe alla casetta D’Angella dove era entrato per ripararsi dalla pioggia. Quando, finalmente, arrivò a casa sua gli fecero una gran festa: lo stavano aspettando in quanto il signore di Aschi ne aveva preannunciato l’imminente arrivo.
Due anni dopo il ritorno dalla prigionia Osvaldo si è finalmente sposato con Giovannina, il 6 dicembre 1947, nel giorno di San Nicola. Nonostante fosse dicembre, non c’era la neve, ma, entrambi indossavano il cappotto. Quello di lui confezionato dal sarto Amedeo, quello di lei adorno di una pelliccetta. E naturalmente hanno fatto un gran festa.
Nell’amore sbocciato tra Osvaldo e Giovannina galeotta è stata, ancora una volta, Clelia, la fontana d’Ortona. Osvaldo ha conosciuto Giovannina a 13 anni quando ella, che abitava da “I Curnon’”, si recava a prendere l’acqua alla fontana in piazza: è stato amore a prima vista, un legame indissolubile.
Il figlio Manfredo è nato il 28 luglio 1949 e nello stesso giorno ad Ortona sono nati altri due bambini (Graziella e Cesarino) perciò la levatrice ebbe molto da fare.
Osvaldo è un musicista. E’ stato un maestro di Sulmona, chiamato ad Ortona per costituire una banda musicale, ad insegnarli i primi rudimenti. Quando si accorse che Osvaldo non partecipava alle sue lezioni lo invitò espressamente a farlo.
Durante la permanenza ad Ortona il maestro di musica fu preso “a pomodorate” da parte dei “soliti curiosi”.
In realtà, gli inizi musicali di Osvaldo sono piuttosto singolari. Egli ci racconta che ha cominciato suonando “i s’flitt” (il bastoncino in ferro che si adopera per dar fuoco alla braci); si divertiva a soffiarvi dentro e riusciva a produrre un suono melodioso e limpido. Lo faceva mettendosi sull’uscio di casa, cosicché la gente che passava lo ascoltava e lo guardava divertita. Suo zio, Alfredo Taglieri, invece, quando lo ascoltò, ne rimase compiaciuto. Si complimentò con lui e gli chiese: “Bravo, chi ti ha insegnato?” E Osvaldo rispose: “Non c’è strumento, è solo la gola” e gli diede due lire. In questo modo interpretava le canzoni solo se le conosceva bene.
Il primo vero strumento che ha suonato è stato il mandolino. Poi è passato al violino, quando Senofonte Troiani gli propose di farlo e gli insegnò come posizionare la mano e come prendere l’archetto.
Questo è accaduto negli anni 1932-1933 a circa 17-18 anni.
E, ovunque egli si è recato, ha sempre trovato un violino che lo aspettava per essere suonato.
Quello che ha attualmente è una copia del più famoso Stradivari. Osvaldo ci tiene a sottolineare che prima il violino aveva un suono più limpido, mentre, ora, si è accentuato un difetto sul ponticello e quindi il suono non è più quello di una volta.
Osvaldo, Senofonte Troiani, Amedeo il sarto e Guerrino di Ciacciavitt avevano dato vita ad un famoso “Quartetto”. Si riunivano in un grande stanzone nella casa del maestro Crisi. Osvaldo suonava il violino, Senofonte la chitarra o il mandolino, Amedeo il mandolino, fatto arrivare direttamente da Milano, e Guerrino la chitarra. Suonavano frequentemente, spesso in occasione dei matrimoni, in special modo erano richiesti per le serenate.
Osvaldo è stato, in seguito, una delle colonne della “Vecchia Ortona”.
“Ortona era più bella prima; durante la mietitura era tutta un canto e la sera si suonava a casa della Grassotta” ricorda Osvaldo con nostalgia, e la nostra mente viene proiettata in una realtà difficile ma solare, che non avremo più il piacere di vivere.
“Le feste erano più belle, niente a che fare con quelle di oggi. I venditori di fichi e albicocche venivano dalla vallata e arrivavano sin qua. La banda dormiva nella sala del Littorio e veniva anche alla mezza festa”.
Osvaldo ora è in pensione. Circa venti - venticinque anni fa, con enorme dispiacere, ha chiuso la macelleria riconsegnando la licenza. Da allora ha trascorso il tempo svolgendo piccoli lavoretti, anche in campagna.
Adesso esce, fa lunghe passeggiate, alleva cinque galline e accudisce, in casa, la gatta con i suoi due gattini.
Osvaldo, alla tenera età di 89 anni, non è, però, in pensione con la musica e noi ne siamo molto lieti. Appena può, continua a suonare il suo strumento e, se è ispirato, compone e adatta, in musica per violino, melodie di canzoni che gli sono gradite.
Osvaldo, a conclusione dell’intervista, ci ha fatto un bellissimo regalo. Non solo ci ha mostrato il suo violino, ma lo ha suonato per noi, con sobrietà e maestria, offrendoci una esecuzione unica e irripetibile. Osvaldo è in perfetta simbiosi con il suo violino.
Ortona dei Marsi, 17 agosto 2004
nonno Osvaldo è stato intervistato da Tiziana Di Iacovo
nonno Osvaldo ha lasciato i suoi cari e noi tutti il 29 dicembre 2005
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