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Ortonesi veraci
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Giulio Venti -
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Giulio Venti è nato ad Ortona dei Marsi il 22 aprile 1913 |
Siamo andati a trovare Giulio Venti in un caldo pomeriggio di Agosto. Lo avevamo preavvisato. Ci stava aspettando.
Ha parlato a lungo con noi con tanto entusiasmo e tanta voglia di raccontare.
Giulio Venti nasce ad Ortona dei Marsi il 22 aprile 1913. Per me, però, non è Giulio. Da sempre l’ho sentito chiamare con il suo soprannome, “Catena” e da sempre lo chiamo così e a lui non dispiace affatto!
“Perché ti chiamano Catena?”. “Perché, quando lavoravo alla Fornace, vincevo tutti i miei amici nella lotta, ero molto forte e allora mi chiamarono Catena; ma io ho anche un altro soprannome, Pu’z Fort, perché ero forte anche a giocare a Braccio di Ferro”.
Catena ci dice di essere rimasto orfano di padre all’età di nove anni. Suo padre era emigrato in America per trovare lavoro. Tornato nel 1921 era subito ripartito e con documenti falsi perché, data la situazione politica del tempo, non si poteva più emigrare. Purtroppo, un anno dopo il suo ritorno in America, muore di malattia lasciando la moglie e, oltre a Giulio, anche altri due figli. Catena commenta la situazione di estrema povertà in cui resta la sua famiglia dopo questa grave perdita con una frase molto dura ma nello stesso tempo molto incisiva: “Papà ci lasciò in mezzo alla r’stoppia!” (La r’stoppia sono i fili di paglia che restano sul campo dopo che si è mietuto il grano e non ha nessun valore, né economico, né tantomeno nutritivo).
A causa di questa difficile situazione famigliare frequenta la scuola fino alla terza elementare (“Allora – ci spiega – si andava a scuola fino alla quarta elementare”) e all’età di dodici/tredici anni, dovendo cominciare a guadagnare per vivere, va a lavorare a Carrito, alla Fornace e vi lavora per otto anni. Il Catena che vinceva tutti nella lotta era il bambino di dodici/tredici anni!
Portava il carrello di ferro carico di pietre, dopo averlo riempito. La Fornace conteneva circa 500 quintali di calce, occorrevano circa 400 – 500 carrelli per ricaricarla, un carrello pesava intorno ai dieci quintali.
A 14 anni fa per la prima volta il turno di notte, per una settimana. Lavorava come un adulto ma, sottolinea, riceveva metà paga perché… era un bambino! Inoltre, aggiunge, di quegli otto anni gliene sono stati regolarizzati solo due, gli è stata consegnata una tessera che registra solo gli anni dal 1926 al 1928.
Lavora alla Fornace fino a venti anni. L’anno dopo parte per svolgere il servizio militare e fa il soldato nelle “Scuole Centrali di Fanteria” a Civitavecchia. Ci dice che sessantacinque furono i ragazzi ortonesi della classe del 1913 che come lui andarono a “passare” la visita militare.
Catena decide di andare come volontario in Africa e sbarca a Mogadiscio, con gli zatteroni, perché lì non c’era il porto. Si ferma in questa città per alcuni giorni perché deve verificare se è in grado di adattarsi al clima di queste zone; ci spiega che molti sono dovuti ripartire perché non sono riusciti a sopportare quel clima: “Tanto era caldo all’ombra, tanto era caldo al sole! Solo verso gli altipiani si cominciava a respirare un po’, se pioveva l’acqua era molto calda”.
Una volta congedato decide di restare in Africa a lavorare e si ferma per quattro anni.
Viveva sotto una tenda oppure in una baracca. Non c’erano persone di Ortona con lui, della zona c’era solo un signore di Scanno. Lavorava nell’edilizia, costruiva strade. Gli chiediamo se era pericoloso vivere in quelle zone. Ci spiega che oltre agli abitanti del luogo che potevano assalire il cantiere, c’erano anche iene, tigri, leopardi e vacche selvatiche che si avvicinavano durante la notte e per questo motivo dalle 20,00 alla mezzanotte e dalla mezzanotte alle 04.00, due persone si alternavano nel fare la guardia. Negli ultimi tempi della sua permanenza aveva imparato la lingua del posto e riusciva a comunicare molto bene con gli abitanti del luogo.
Immerso nei ricordi parla a ruota libera. All’improvviso si interrompe, ci guarda e, come se temesse che il tempo a sua disposizione stia per finire, ci domanda: “Dovete andare da qualche parte?”, “No!”, rispondiamo. “Neanche io!”, e subito riprende il suo racconto, esattamente da dove lo ha lasciato.
“Sono tornato – dall’Africa - nel 1939, con l’ultima nave, e sono andato a lavorare in Albania”. “Perché parli di –ultima nave–?” “Perché era scoppiata la guerra e le navi non partivano più!”. In Albania lavorava con la Società Mediterranea e avrebbero dovuto costruire una ferrovia ma, con lo scoppio della guerra, i lavori si fermano e dopo un anno Catena ritorna a casa. Qui viene richiamato alle armi e, siamo negli anni 1940/1941, viene mandato in Francia, a Nizza. “Che cosa facevi?” “Facevamo ordine pubblico, controllavamo una galleria”. In Francia trascorre circa venti mesi. E’ in questo periodo, precisamente il 16.07.1942, che sposa Margherita Asci, e, per questo motivo, ottiene una licenza di un mese per poter tornare a casa. “Come è stato il tuo matrimonio?” Ancora una volta commenta con una sola frase che è insieme il racconto delle sue nozze e il racconto di un modo di vivere di una società contadina, di una gioventù semplice e povera: “ Ci siamo sposati di mattina presto e poi… siamo andati… a mietere il grano perché era il mese di luglio” (Era tempo di mietitura. Allora i terreni coltivati erano tanti e la mietitura si faceva a mano per cui, se c’erano dei giovani, dovevano aiutare, comunque, anche se erano… dei novelli sposi!).
Dopo l’Armistizio torna in Italia, a piedi. “Non siamo passati per la strada normale perché ci avrebbero catturato i tedeschi, ma per i sentieri, nascondendoci”. Questo viaggio di ritorno è durato venticinque giorni e Catena ci spiega che durante il percorso la gente incontrata per strada lo ha sempre aiutato perché: “Tutti avevano un figlio sotto le armi!”. Erano tempi in cui si mangiava poco perché il cibo non c’era e per questo gli chiediamo se quanto pesava quando è tornato in Italia e la sua risposta è molto significativa: “…ero leggero!”.
Nell’Italia del dopoguerra la vita è difficile, il lavoro non c’è. Invitato dal fratello che già si trova in Venezuela, Catena parte con la nave nel 1957 e va a Caracas, dove lavora per circa cinque anni nella catena di montaggio della Società americana Chrysler. Viveva in una pensione e ci spiega che a Caracas c’erano italiani e spagnoli. “Hai mai pensato di portare la tua famiglia in Venezuela con te?”. “No, perché non mi è piaciuta la terra!”. Quando ci parla dei suoi anni in Venezuela il suo sguardo e il tono della sua voce si riempiono di rabbia e di risentimento. Non riesce a capire e non accetta il fatto che i contributi relativi a questi cinque anni di lavoro, da lui regolarmente versati, non gli siano stati mai riconosciuti ai fini pensionistici. “Dovevo prendere la massima di pensione e, invece, adesso non la prendo!”. Pur proseguendo nel racconto della sua vita, ritorna spesso su questo punto, perché proprio non riesce ad accettare che tanti anni di sacrifici, lontano dalla propria terra, non abbiano avuto alcun riconoscimento.
Al termine del suo racconto gli chiediamo quali erano i suoi giochi da bambino e come erano, una volta, le feste.
Da piccolo giocava a “lizza”, a “battimuro”, con i “cerchi, a “fare a botte”.
A proposito delle feste ci dice che: “Erano più religiose!” e ci spiega che, dato che ai suoi tempi circolavano pochi soldi, quando passavano i festaroli a chiedere la questua, le persone offrivano mezza coppa o una coppa di grano, oppure di granturco, o di altri prodotti della terra. Queste particolari “offerte” venivano esposte su un tavolo collocato in piazza S. Giovanni Battista e venivano vendute dai festaroli al miglior offerente. Una volta anche Catena ha affittato una stanza della sua casa ad un comitato feste che aveva bisogno di un magazzino dove riporre quello che raccoglieva durante la questua.
“Oggi come trascorri le tue giornate?”. “Vado a portare da mangiare alle galline, quando ritorno dalla stalla mi fermo un po’ a Ca’ d’Alfonso a chiacchierare e poi guardo la televisione”.
Una vita difficile, segnata da tanti sacrifici ma Catena, a novant’anni, portati benissimo, ci parla con il sorriso negli occhi e sulle labbra e con un piglio deciso come a volerci dire: “Bisogna andare avanti, sempre!”.
Ortona dei Marsi, 21 agosto 2003
nonno Giulio è stato intervistato da Letizia Del Capraro
nonno Giulio ha lasciato i suoi cari e noi tutti il 22 dicembre 2009
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