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Ortonesi veraci

- Berardo Buccella -

 

 

Berardo Buccella è nato ad Ortona dei Marsi il 23 maggio 1920

 

 

Un pomeriggio della metà di agosto abbiamo incontrato Berardo mentre, seduto sul muretto di Piazza S. Giovanni Battista, osservava dall’alto i ragazzi che stavano organizzando i giochi popolari; lo abbiamo salutato e lui, prendendo “spunto” da quei ragazzi, ha cominciato a parlare della sua gioventù. Ci è piaciuto ciò che stava raccontando, allora gli abbiamo chiesto se potevamo andare un giorno a casa sua per fare, con calma, una bella chiacchierata. I suoi occhi si sono illuminati: “Si va bene, ma dopo le Feste di Settembre…ora ho un po’ da fare!”; ci ha offerto un caffè ed è tornato al suo muretto.

Siamo andati a casa sua sabato 17 settembre 2005, alle 16,00 circa. Ci siamo seduti intorno al tavolo di una piccola cucina ordinata ed accogliente e abbiamo chiacchierato a lungo.

 

Berardo Buccella nasce ad Ortona dei Marsi il 23 maggio 1920. Giuseppe, suo padre, è vedovo, ha perso la prima moglie a causa della spagnola; sua madre, Lucia Conte, è vedova anche lei, il suo primo marito è morto in guerra. Berardo conosce suo padre all’età di sei anni, perché Giuseppe è un emigrante e quando lui è nato era partito per l’America. Ci dice che allora ad Ortona nessun bambino aveva i giocattoli, mentre lui si; nessuno aveva un paltò, il primo è stato il suo perché, ci spiega: “..papà era scafato…quello che ci voleva, ci voleva!”.

Frequenta la scuola fino alla quinta elementare. Nella sua classe c’erano circa sessantacinque/sessantasette alunni; la sua prima insegnante è la maestra Verzellina di Vasto, la successiva è la Maestra Olimpia, di un paese vicino L’Aquila, moglie di un ortonese, Alfredo Taglieri. Avrebbe voluto fare il meccanico ma per studiare bisognava andare a Roma e soldi non ce n’erano e allora a sedici anni fa quello che fanno tutti i giovani della sua età per guadagnare da vivere: va a lavorare a Frascati, parte ad ottobre e torna per la metà di marzo. Inizialmente lavora in mezzo ai canneti, oppure raccoglie i resti della potatura delle vigne poi, diventato più grande e più forte, viene impegnato in lavori più faticosi, quali zappare, vangare, “scassare” la  vigna. Oltre che partecipare alla vendemmia, nei mesi da maggio a luglio, dalle ore 03,00 della notte alle ore 08,00 del mattino, si occupa della “rifrescatura”: pulisce la vigna da tutto ciò che può essere dannoso alla buona crescita delle viti. Insieme a lui ci sono diverse persone di Ortona, alcune le ricorda chiamandole con il loro soprannome quali Palletta (Paolo Persico), F’leppa (Filippo Asci), Peppe d’ C’c’picch (Giuseppe Di Cristofaro).

 

L’infanzia di Berardo e la sua prima gioventù si svolgono nel periodo fascista. “Dovevamo portare tutti la camicia nera… altrimenti non si mangiava”. Gli chiediamo se ricorda come venivano “organizzati” i ragazzi ed i bambini e lui ci dà una dettagliata spiegazione: i bimbi fino a cinque anni erano chiamati Figli della Lupa; dai cinque ai dieci anni le ragazze erano definite Piccole Italiane, i ragazzi “Balilla”; dai dieci ai quindici anni c’erano i Giovani Italiani; dai quindici ai diciotto anni gli Avanguardisti; dai diciotto anni erano Giovani Fascisti. Berardo ci dice che i Capigruppo del Movimento Fascista, secondo gli ordini ricevuti da Roma, avevano organizzato anche ad Ortona il cosiddetto Premilitare. Tutti i sabato pomeriggio i Giovani Fascisti dovevano ritrovarsi nell’aia di allora, vale a dire l’area dove oggi sorge l’ex edificio scolastico e qui dovevano fare addestramento militare: dalla ginnastica allo studio di tattiche di guerra su percorsi e ostacoli appositamente allestiti e collocati per tutta l’aia.

Berardo ci spiega che come militare faceva parte del Corpo dell’Aeronautica e che era un “mobilitato”, vale a dire che, essendo stato assegnato al Terzo Scaglione, invece di partire per la guerra con i ragazzi della sua classe, era partito con i ragazzi della classe 1921.

 

A questo punto inizia un intenso, lungo, dettagliato racconto.

Berardo, con dolorosa passione ci racconta la guerra, i suoi anni di guerra e di prigionia. E’ passato tanto tempo, ma il suo è un ricordo vivo; ogni tanto rallenta la foga del racconto…non vuole che chi sta scrivendo possa tralasciare alcuna delle sua parole e poi riprende, instancabile.

“Sono partito per la guerra nella Befana del 1941 insieme a Felice Conte e ci accompagnava sua sorella Almerinda. Felice non è mai tornato”.

Viene assegnato al X Reggimento, Battaglione Telegrafisti (RT), di stazza in Santa Maria Capua Vetere: la mattina fa pratica e il pomeriggio studia la teoria per diventare un bravo telegrafista. Il suo Battaglione avrebbe dovuto raggiungere la piazzaforte di Tobruch in Libia ma molte navi, appena uscivano dal porto di Napoli venivano affondate per cui la partenza venne rimandata spesso fino a quando, cento uomini, tra cui lui, furono mandati di rincalzo in Grecia. Era nell’87° Compagnia TR, Posta Militare 17; lavora inizialmente nella città di Xilocastron, Centralino di Compagnia di dieci linee; poi viene mandato a Corinto, in un centralino di trenta linee. Gli ordini di tornare a Gianina, in Albania, dove tutte le Compagnie si sarebbero dovute riunire per il rientro in Italia, non ebbero mai esecuzione; gli eventi precipitarono: l’Otto Settembre 1943, mentre si trova fuori la caserma con il suo amico Augusto e gli sta offrendo una fetta di melone, sente un grande vociare provenire dalla caserma e apprende che è stato firmato l’Armistizio. Augusto dice: “Mo passiamo i guai”. “E purtroppo, - commenta Berardo -, fu proprio così”. Bivaccarono per diversi giorni fino a quando non arrivarono i tedeschi. “I tedeschi hanno preso tutti i mezzi, le armi pesanti, i fucili. Poi ci hanno caricato e ci hanno portato lontano dall’Albania. Gli ufficiali erano scomparsi, tutti, c’erano solo tenenti e sottotenenti”. I tedeschi li costringono a risalire a piedi tutta la Grecia; loro, affamati, entrano nei casolari che incontrano per strada e lasciano il vestiario che, dopo l’Armistizio, hanno trafugato dai magazzini, per avere in cambio qualcosa da mangiare.

 

Il racconto diventa “forte”: Berardo è preso dai suoi ricordi e noi lo seguiamo, passo passo, nel suo cammino verso la prigionia.

I tedeschi, prima di arrivare a Salonicco, lo caricano su dei carri merci, la cosiddetta tradotta e lì sopra attraversano la Grecia, la Iugoslavia, la Bulgaria, poi di nuovo la Iugoslavia fino a quando, all’uscita da una lunga galleria si trovano sul Danubio. Berardo commenta: “Ho visto la città di Iuvidek e la prima cosa che ho notato è che tutte le case avevano le antenne della radio” “Dove vi hanno portato?”, gli chiedo, risponde: “Aspetta, ci sta ancora da camminare sette anni!” (Aspetta, il racconto è ancora lungo). “Il Danubio l’ho calpestato due o tre volte ma l’ho visto blu solo una volta…al ritorno in Italia”. Successivamente la tradotta si è nuovamente fermata in Ungheria. Tante ragazze li hanno accolti con numerose pagnotte di pane e carne di oca già cotta, chiedendo in cambio camice di flanella e pancere. Berardo ne ricorda una in particolare, un’universitaria che parlava un po’ l’italiano e ci dice che “…ha svuotato la casa per loro e a lui ha regalato una fotografia, uno scorcio del Danubio, fotografia che ancora conserva.  Questa ragazza ha detto loro: “Quando parte la tradotta se gira a sinistra andate in Italia, se va diritto andate in Germania”. Purtroppo la tradotta è andata diritta e dopo numerosi giorni di cammino sono arrivati a Vienna, in uno scalo secondario. Qui, per la prima volta, tutti hanno ricevuto la “gavetta” piena di un mestolo di brodaglia. “Ero arrivato a pesare 39/40 Kg”.

Il treno riparte. Gli sportelloni, aperti fino ad allora, vengono chiusi; attraversano la Selva Boema, arrivano al Nord della Germania. Il Campo di Concentramento  XB (Decimo B) li attende. Sono circa ventimila prigionieri, altri ancora affluiscono. Vengono spogliati e tutti gli indumenti, eccetto le scarpe e la cintura dei pantaloni, vengono disinfettati all’interno di grandi forni e poi sono loro restituiti; Berardo insieme ad altri quattordici compagni è assegnato alla Seconda Baracca: costruzione in legno, isolata dal terreno, arredata con tre piani di letti a castello, un tavolo, due panche per stare seduti. Fuori della baracca c’è dello spazio e poi del filo spinato; oltre quel filo non si può andare ma si vedono le persone passare. Il secondo giorno Berardo vede passare un Alpino. L’emozione del suo ricordo e l’emozione di quel momento sono nello sguardo e nelle parole di Berardo, mi dice: “Metti”, cioè quasi mi detta quello che devo scrivere: “Vedendo quell’alpino gli ho chiesto se era del Battaglione Val Pescara, mi ha risposto di si”. (Molti ortonesi e abitanti della vallata erano Alpini e appartenevano al Battaglione Val Pescara). ”Allora gli ho chiesto se conosceva un certo Conte, che sarebbe Conte Nazareno, mio zio, mi rispose che ne conosceva due e allora ho pensato ‘E’ fatta’, se sono due, saranno sicuramente Zi Nazit’ e Francisc’; gli chiesi dove si trovavano e mi disse che erano alla Settima Baracca“. Si ferma nel suo racconto e mi chiede: “ Hai scritto?”.

Seduti intorno al tavolo della cucina siamo tutti lì, con quel giovane di 23/24 anni, strappato dalla sua terra, costretto a combattere, costretto a subire la prigionia che, inaspettatamente, sente di aver ritrovato la sua casa, la sua Ortona. Avverte una sentinella che si sta allontanando e raggiunge la Settima Baracca. Gli ortonesi lo vedono e restano tutti stupiti e gli chiedono: “Come hai fatto ad arrivare qui?!”. “Ho travato tutti gli Alpini di Ortona, di Cesoli, di Bisegna e di S. Sebastiano. Ricordo Giubitt’ (Concetto Eramo), Pasquale d’ la Roscia (Pasquale De Matteis); gli ho detto che io il pane non ce l’avevo, ma che avevo tanto tabacco e che, siccome io non fumavo, lo avrei dato a loro”. Zio Nazareno lo accompagna alla Seconda Baracca e prende il tabacco per tutti perché, spiega Berardo: “In prigionia si divide ogni cosa per tutti”.

Si fermano in questo posto per almeno venti giorni, fanno le adunate e vengono inquadrati. Un uomo vestito tutto di nero che parla in italiano e che porta il fez, detto “l’uomo nero”, cerca di convincerli a collaborare con i tedeschi. Concetto Eramo e Francesco Conte, più grandi di Berardo di sette anni, si rivolgono allo zio Nazareno preoccupati e gli dicono: “Ferma quij vajone – ferma quel ragazzo – non gli far alzare la mano” (fa che non collabori con i tedeschi). Io allora gli risposi: “Non avete paura, io la guerra non la faccio più, non voglio collaborare…ora che mi sono salvato”.

Terminato l’inquadramento Berardo insieme ad altri mille uomini viene caricato su dei pullman e viene portato in un campo di lavoro. Nel gruppo non ci sono i suoi compaesani ma lui, prima di partire, riesce a salutarli.

Il suo campo di lavoro è il numero Sette.

Si trovano in un immenso cantiere; i capi formano squadre di carpentieri, meccanici, muratori, panettieri. Lui si occupa di lavorare il ferro che verrà messo in mezzo al cemento.

La sveglia è alle ore 06,00 e non si lascia di lavorare prima delle 18,00. Arriva la Vigilia di Natale del 1943, 40 centimetri di neve ricoprono il cantiere e nevica. Berardo pensa: “Forse oggi, Vigilia di Natale, ci fanno fare festa”. E invece, sveglia alle ore 06,00 anche quel giorno e, con addosso solamente i vestiti (ormai stracci) con cui erano arrivati, scaricano quintali di cemento dalle ore 07,45 fino alle ore 19,00.

La prigionia dura due anni. Berardo vede morire molti ragazzi per stenti e fame. A mezzogiorno mangiano un mestolo di brodaglia; la sera un mestolo di brodaglia e un tozzo di pane nero con la pula in mezzo. Nelle baracche, con le scatole di lucido, hanno costruito delle bilance e le utilizzano per tagliare in pezzi tutti uguali i filoni di pane che vengono distribuiti interi. Una volta comincia a tremare per il freddo e un suo compagno lo riscalda con dell’acqua calda. Solo un giorno non lavorano, quando l’immenso cantiere è oggetto di un bombardamento americano, con bombe ritardatarie: “Penso – commenta Berardo – che gli americani volessero permettere a noi prigionieri di metterci al riparo prima dello scoppio delle bombe”.

 

Con l’arrivo degli americani finisce la prigionia e arriva anche il cibo: “Alcuni dei miei compagni si sono sentiti male perché per la gran fame hanno mangiato troppo; io sono stato attento, ho mangiato poco e spesso”.

Quando, accompagnato dagli americani, giunge nella città di Ulmann, completamente distrutta, solo il Duomo è rimasto in piedi, Berardo vede il Danubio blu…è libero, sta tornado a casa. Caricati sulla tradotta viaggiano diversi giorni e Berardo dorme sul tetto fino ad Innsbruck, poi capisce che è pericoloso stare lì sopra perché cominciano ad esserci i fili della linea elettrica e allora, avvertiti del pericolo gli altri suoi amici che sono con lui, torna all’interno della tradotta. Il sei/sette luglio 1945 è a Bolzano. Sacerdoti e volontari dell’Azione Cattolica aspettano i soldati del Nord Italia per accompagnarli a casa; lui prosegue il suo viaggio con i compagni che vanno verso Roma; non si fermano nei “campi di accoglienza” per non perdere tempo, hanno fretta di arrivare e, comunque, sono attrezzati: hanno un sacco di patate e la pentola per cuocerle. Si fermano in una scarpata per cucinare le patate e sentono quattro colpi di fucile; dei militari li hanno seguiti e intimano loro di andare al Comando. Erano sopravvissuti alla prigionia tedesca e stavano per essere “banalmente “ uccisi. E’ Berardo a seguire i militari, poi torna indietro e lui e i suoi compagni si allontanano il più in fretta possibile. Camminano per tutta la notte, costeggiando la ferrovia e si fermano alla prima stazione che incontrano; trovano un treno merci carico di residui di guerra americani, vi si adattano alla meglio e arrivano fino a Falconara. Qui Berardo apprende che il ponte per  Pescara è rotto e, allora, prosegue fino a Terni, dove riceve un gavetta piena di rigatoni.

Berardo ricorda le mamme e le mogli ferme al loro passaggio ad aspettare di udire le voci dei loro figli e dei loro mariti. Una signora gli chiede: “ Vieni dalla Germania… io ho un figlio lì”. Berardo replica: “Fino a quando ti ha scritto?”. Alla risposta della madre Berardo la rassicura e replica: “Non ti preoccupare, da allora (dal tempo in cui è stata scritta l’ultima lettera) abbiamo cominciato a stare meglio”.

Finalmente arriva a  Roma; pensa di visitarla ma si accorge che non è la Roma che ricorda e torna indietro; ci sono numerosi camioncini che smistano i soldati nei vari luoghi di provenienza, quando sente chiamare “Quelli per Avezzano”, si avvicina.

Arrivano ad Avezzano intorno alle ore 16,00; l’Azione Cattolica li accoglie e dà loro un paio di uova alla coque e uno stabile senza finestre per dormire. Berardo e un suo amico decidono di avviarsi a piedi. Un carretto li trasporta per un paio di chilometri; un camion li porta sopra a Celano, perché si dimentica di fermarsi al bivio. Tornati al bivio il suo amico trova i famigliari ad aspettarlo e Berardo prosegue fino a Pescina con un altro mezzo di fortuna, anche se carico di persone, tanto che deve sedersi sul parafango. Le donne di Pescina sedute a prendere il fresco sullo “stradone”, nel vederlo gli dicono che se si affretta poco più avanti trova i mietitori di Ortona. Riesce a raggiungerli e prosegue il cammino insieme a loro. Ricorda tra di essi Filippo d’Eugenia, Paiacitt’ (Giulio Di Ticco). Giunto a Rivoli si ferma alla fontana per lavarsi e decide di raggiungere Ortona passando per la strada vecchia sotto Rivoli. A Cesoli non vorrebbe fermarsi ma riconoscono che è un soldato, lo costringono a fare una sosta; gli cuociono un uovo e lo accompagnano fino al “Codicillo”. Di lì, passando per la via del Vignale, arriva ad Ortona.

La prima persona che incontra, all’ tre scajell’ (cosiddette le scale che sono in cima a piazza S. Giovanni Battista, che una volta erano tre, ora sono sette), è Ang’lucc’ d’ L’tizia (Angelo Marsili). E’ arrivato a casa…accorre la gente…grande gioia. Osserva Berardo: “Ormai si era fatto notte, ma era tutto buio, non c’era l’elettricità io, dovunque ero stato, avevo trovato sempre l’elettricità”.

“Quando stavi in Grecia e poi in Germania pensavi ad Ortona?”. “Si, pensavo alla mia casa, ad Ortona, alla libertà…”. Il tono della sua risposta sembra impassibile, anche l’atteggiamento è controllato, da buon ortonese, ma se lo guardi negli occhi il suo sguardo parla più di mille parole, è profondamente emozionato.

 

Terminato il racconto di questa avventura dolorosa, incredibile e pur vera, facciamo una piccola pausa. Berardo ci offre delle buonissime ferratele e un altrettanto buona “Rattafia” (liquore a base di ciliegie), le une e l’altra fatte entrambe da lui.

“Che cosa hai fatto dopo che sei tornato dalla guerra?” “Ho aperto, vicino a questa casa dove abito ora, una bottega da barbiere. Già da quando lavoravo a Frascati, la sera, andavo a guardare i barbieri per rubare con gli occhi i segreti del loro mestiere. Allora cominciai a “chiacchierare” con una bella ragazza che abitava in questa casa, Rosina e nel 1950 l’ho sposata. Il matrimonio è stato celebrato da Padre Augusto; io indossavo un abito “ble”, confezionato da Amedeo Taglieri. Il pranzo è stato semplice, famigliare; io però, poiché avevo lavorato per un periodo con la Romana Elettricità, avevo guadagnato circa £. 70.000 e allora ho potuto fare il viaggio di nozze a Napoli e a Roma. – E precisa, con orgoglio – Solo in tre, all’epoca, facemmo il viaggio di nozze: io, Nelson Taglieri e Guerrino Conte”.

Tornato dal viaggio di nozze Berardo resta ad Ortona solo per alcuni giorni; il “libero sbarco” sta per scadere e allora, viste le difficile condizioni di vita nel paese, decide di emigrare per il Sud America e va a Caracas. Ci spiega che, per poter emigrare bisognava avere una documentazione ben precisa: 1) Certificato di buona condotta del Casellario Giudiziale di Roma; 2) Certificato di buona condotta del Casellario Giudiziale di Avezzano; 3) Certificato dei lavori che l’emigrante sa fare; 4) Documento che indica da chi viene ricevuto l’emigrato; 5) Documento che indica da chi l’emigrato va a dormire.

Dopo tre anni e mezzo Berardo torna a casa ma, di lì a poco, decide di tornare nuovamente in Sud America. Lascia la sua Rosina in attesa di Aldo, il loro bambino, che nascerà il 04 aprile 1955. Nel suo primo soggiorno a Caracas aveva svolto qualunque possibile lavoro, ora invece fa il tappezziere presso una grande industria automobilistica, la Chrysler. La sua permanenza in Sud America dura cinque anni, fino a quando una lettera della moglie lo riporta in Italia. Scrive Rosina che, alle sue parole sulla lontananza del padre per motivi di lavoro, il piccolo Aldo replicava che tutti i bambini avevano un papà e lui no. Queste parole del figlio colpiscono molto Berardo; capisce che è importante la sua presenza al suo fianco e allora torna in Italia per stare vicino a Rosina e ad Aldo. Siamo nel maggio del 1962. Torna a fare il barbiere ma, dopo circa tre anni, non riuscendo a guadagnare a sufficienza per vivere, Berardo deve nuovamente ripartire. Con sguardo triste commenta: “Ripresi la valigia da emigrante che non volevo riprendere più”.

La famiglia Buccella si trasferisce a Torino nell’ottobre del 1967. Berardo, ancora una volta, si adatta a fare qualunque lavoro; per un certo periodo è dipendente di un’azienda privata che fa le pulizie all’interno della Fiat. Poi, in un bar dove va a prendere il caffè tutte le sere per leggere le offerte di lavoro, vede che c’è una richiesta di un tappezziere. Forte della sua esperienza presso la Chrysler, Berardo riesce ad ottenere questo lavoro.

 

Lavora come tappezziere per undici anni fino al 1980, quando va in pensione. Il 7 febbraio 1982 muore Rosina.

 

L’instancabile voglia di fare, la sua inventiva, il suo voler stare e il suo saper stare tra la gente, il suo  “Io non mi perdo d’animo” hanno riempito e continuano a riempire le giornate di Berardo.

Nei mesi invernali vive a Torino mentre da maggio ad ottobre si trasferisce ad Ortona. E’ un bravo cuoco e un bravo pasticciere. Le ferratelle, gli amaretti, il ciambellato e i biscotti per il latte di Berardo non hanno nulla da invidiare a quelli preparati dalle massaie ortonesi; altrettanto buone le sue marmellate e i suoi liquori.

Nelle giornate calde d’estate lo puoi incontrare la mattina presto con la sua bicicletta: si reca in qualche terreno di sua proprietà, controlla lo stato delle piante, fa qualche piccolo lavoro di manutenzione, raccoglie i fiori, cura diverse specie di fiori nel giardino adiacente la sua abitazione; in cucina e nella sua camera ha tanti libri. Ci spiega che ama anche leggere e che si diletta in questo passatempo mezz’ora prima di pranzo “In  attesa che bolle la pentola” e la sera nel letto prima di addormentarsi.

Con orgoglio ci mostra la sua casa. L’ha dipinta e rifinita tutta lui. “D’inverno disegnavo quello che dovevo fare e poi l’estate lo mettevo in pratica”; in particolare ammiriamo le finestre e le porte in legno che con un lungo e paziente lavoro di sverniciatura, da esperto restauratore, ha riportato alla loro originaria bellezza.

 

Quando siamo tutti sulla porta e lo stiamo salutando per andare via ci lascia una raccomandazione: “Scrivete:

 

mai più la guerra, la guerra si scrive con il sangue

 

Grazie Berardo per il bel pomeriggio che ci hai regalato, per la forza e il coraggio che ci hai trasmesso.

 

Un particolare grazie da parte mia, 

    con affetto Letizia

 

 

Ortona dei Marsi, 17 settembre 2005

 

nonno Berardo è stato intervistato da Letizia Del Capraro

 

 

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