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Ortonesi veraci

- Giovanni Conte -

 

 

Giovanni Conte è nato ad Ortona dei Marsi il 12 gennaio 1913

 

 

In un pomeriggio piovoso di mezza estate, siamo andati a trovare Giovanni Conte, classe 1913, per farci raccontare la storia della sua lunga vita.

E’ ansioso di parlare, emozionato ma tranquillo.

Ci fa sedere intorno al tavolo e inizia il suo racconto.

E’ come un fiume in piena: lucidissimo, ricorda tutto… ma proprio tutto!

 

Giovanni è nato ad Ortona il 12 gennaio 1913 e per tutti gli ortonesi è Bellino, soprannome datogli da Nonna Camilla, vicina di casa, che gli è rimasto appiccicato addosso come una seconda pelle.

Torna indietro nel tempo Giovanni, si vede scolaro, il più bravo della classe, elogiato dalla maestra Vecchietti e dal maestro Dell’Orso per la sua memoria di ferro.

Frequenta tutte le classi, fino alla quarta elementare, tanto da saper parlare molto bene l’italiano.

A nove anni e mezzo il padre lo porta a Frascati a lavorare le vigne e conosce la dura condizione della “stenzia”.

 

Nel 1927, a quattordici anni, viene ingaggiato a lavorare per il catasto con la qualifica di “canneggiatore”, affianca il geometra Emilio Cantèra di Ofena nella misurazione dei terreni e nel censimento dei fabbricati. Impara tante cose e nuovi linguaggi: punto focale, punto trigonometrico, topografia, classamento.

Il lavoro di riordino di Ortona sotto il profilo catastale dura sei anni, i tecnici sono attrezzati di tutto e forniti di una cucina da campo sistemata vicino alla fonte di Santa Maria: spaghetti col sugo a volontà!

Al geometra Emilio Cantèra di Ofena, ricordato con tanto affetto, segue il geometra Notarfranchi di L’Aquila, un po’ invidioso di Giovanni per via una certa signorina.

 

Nel 1933 Bellino parte soldato e va in Sardegna, a Cagliari e dopo qualche tempo raggiunge Roma.

Il ricordo del padre che vende le pere d’inverno e gli fa un vaglia di cinquanta lire, è carico di tenerezza e amore figliare.

 

Nel 1937, il 18 settembre, Giovanni si sposa con Marietta, una bella festa di matrimonio con tutti quelli di famiglia compreso Zi’ Maria Giuseppa e Zi’ Marinese.

Alla domanda nostra se erano tempi difficili per mettere su famiglia, ci risponde con decisione ”No, facili… non aveva niente nessuno!”

Ricorda i compagni della famosa “Squadra del Filo a Piombo”: giovanotti della stessa età che si divertivano insieme senza fare dispetti o danni ad altri. Li ricorda tutti i ragazzi del Filo a Piombo: Odorisio Eramo chiamato Adrizij, Secondo Di Benedetto detto Peparoije, Guido Eramo detto Cappellone, Concetto Eramo detto Giubbitt’, Secondo Marsili detto Tisa e sorride al ricordo della cena con due capretti trovati a Carrito e non sa dirci perché si chiamavano la squadra del Filo a Piombo.

Tanti pensieri affollano la mente di Giovanni: la vendita di una bella cantina alla Torre e due canapine alle Rosce per l’acquisto della casa dove ha trascorso la vita, il dolore per la scomparsa in guerra del fratello Felice, il pensiero sereno per la sorella Almerinda diventata Suor Santina, il bene voluto a Marietta, il senso della paternità.

 

Prima della guerra si trova in Albania con il 53° Reggimento Divisione Arezzo.

Giovanni è artigliere. Nel ’40 scoppia la guerra ed a settembre riceve due cartoline per la chiamata alle armi, una per L’Aquila e una per Teramo.

Sceglie L’Aquila e parte per il fronte albanese del “Monastero”.

Fa lo “zappatore”, cioè prepara il terreno per il posizionamento degli obici e ci sottolinea, con fermezza, che non ha mai sparato a nessuno.

Rivive un bombardamento massiccio contro i greci, otto ore di battaglia e poi il silenzio.

Sorride, ironico, al ricordo di Mussolini e dei suoi discorsi recitati quasi a memoria.

Raggiunge la Macedonia e quindi la Grecia.

 

L’11 settembre ’43, tre giorni dopo la firma dell’armistizio di Badoglio, viene catturato dai tedeschi nella città greca di Larissa e deportato in Germania.

Racconta il calvario del viaggio in treno, caricato sui carri bestiame, trenta uomini per carro in condizioni disumane. Nessun ortonese con lui, solo un celanese e uno di Collarmele. Il viaggio dura parecchi giorni, attraverso la Iugoslavia, l’Ungheria e l’Austria e le lunghissime, estenuanti soste sui binari morti.

E’ talmente vivo il ricordo dell’attraversamento dell’Ungheria, vista dal finestrino blindato del vagone merci, che riusciamo a vederla anche noi che lo ascoltiamo: il maestoso Danubio, le mandrie di mucche e cavalli che punteggiano l’immensa pianura verde.

Il treno arriva in Germania nella regione della Westfalia e Giovanni viene smistato a Dortmund e internato ad Aachen, una campo di lavoro dove si costruiscono i forni crematori.

Con i compagni di prigionia Giovanni è trattato malissimo: lavoro solo lavoro ed una misera zuppa di cavoli e rape per il sostentamento.

Ma nel campo, Giovanni si arrangia e scambia, con un ebreo che parla italiano, sigarette di marca 88 con un orologio 15 rubini a doppia cassa.

In seguito l’orologio si rivelerà prezioso poiché verrà scambiato, tramite un russo di lingua tedesca, in cambio di un filone di pane la settimana.

Per il prigioniero di guerra, Giovanni Conte, ancora lavoro in una fabbrica di automobili e di bombe.

La prigionia dura due anni precisi e per altri sei mesi, lavora alla costruzione di un acquedotto.

 

Nel 1946, finalmente rientra in Italia e torna alla vita di sempre: d’inverno a Frascati a lavorare le vigne e nel resto dell’anno a fare il contadino ad Ortona.

La buon’anima del padre gli regala un asino che si ammala e viene venduto.

La mula, la famosa mula di Bellino, la eredita da un vignaiolo di Frascati.

Torna ad Ortona con la mula Peppina a piedi; fa tappa a Colli di Monte Bove dove un pastore generoso, rifocilla sia Giovanni che la “Peppina”. Dopo qualche tempo vende la mula frascatana e ne  compra un’altra da suo fratello Angilla  che chiama come la precedente la quale dimostra un carattere non troppo docile. Ad essa ne segue una terza, l’ultima, con la quale ha condiviso 21 anni di vita e di lavoro.

Giovanni la ricorda con nostalgia: una mula “lavoratora”, brava e ubbidiente.

Con le lacrime agli occhi, Bellino racconta la morte di Peppina terza ed ha ancora nelle orecchie l’eco del lungo nitrito ad esprimere una richiesta di aiuto.

La ricordo anch’io Peppina Terza, una mula che ai miei occhi di bambina appariva come un dinosauro e l’omone che la cavalcava; il quale mi allungava una mela o un grappolo d’uva e mi tirava su in groppa per la strada di sotto il casale.

Non riuscivo a chiamarlo Bellino quando ero piccola, mi sembrava irrispettoso!

 

Lunga vita a te caro Giovanni, figlio di un’Ortona del tuo tempo; ti ho sempre visto e sentito come un amico; grazie e ancora grazie per la testimonianza che ci hai reso, uno spaccato di vita vissuta e ancora oggi sognata.

 

Ortona dei Marsi, 26 agosto 2003

nonno Bellino è stato intervistato da Marina Eramo

 

 


nonno Bellino ha lasciato i suoi cari e noi tutti alle 23.45 del 03 agosto 2006

 

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