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Ortonesi veraci

- Albetta Di Cicco -

 

Albetta Di Cicco è nata ad Ortona dei Marsi il 24 luglio 1922

 

 

Alla fine di ottobre dello scorso anno sono andata a far visita ad Albetta e l’ho trovata seduta sulla poltrona che guardava la televisione. Ospitale come sempre, mi ha fatto accomodare, con la sua solita affettuosa premura si è informata della mia salute e del mio lavoro e, infine, mi ha parlato orgogliosa dei suoi quattro nipoti e quattro pronipoti. Quando le ho chiesto se avrebbe avuto piacere a farsi una chiacchierata con me ed altri miei amici per raccontarci della sua vita, per un attimo la sua timidezza si è annullata e mi ha immediatamente risposto: “Certo, quando una cosa è buona non si può dire di no e poi io sono contenta della compagnia”.

 

Il 15 novembre 2008, subito dopo pranzo, siamo andati a trovarla.

Albetta ci stava aspettando e insieme a lei abbiamo trovato anche sua sorella Rosina ed una vicina di casa, Lina.

 

Albetta nasce ad Ortona dei Marsi il 24 luglio 1922 da Rocco Di Cicco e Angelina Perrotta ed è la terza di sei figli: Amelia, Giordano, Caseria, Brescia e Rosina. Il suo vero nome è Alba e ci spiega che questo nome non poteva essere usato quando lei è nata perché allora c’era il fascismo: “..mo’ è repubblica e puoi dire quello che vuoi, allora invece non era come adesso...”. Suo padre, infatti, era stato convocato dai Carabinieri che volevano spiegazioni su questo nome ma era riuscito a “farla franca” dicendo che aveva lasciato in America una moglie che si chiamava Alba e che, per questo motivo, aveva deciso di chiamare così sua figlia.

Non ci sa spiegare perché “Alba”, diminuito in Albetta per smorzarne il significato “negativo”, piacesse così poco ai fascisti ma noi, curiosi di capire, abbiamo fatto delle ricerche storiche, abbiamo parlato con Berta, una delle sue due figlie e con il genero Ferdinando e… così non solo abbiamo conosciuto Albetta, ma abbiamo anche scoperto e conosciuto suo padre, cosiddetto Rocc’ B’sciard’, dalla sua tendenza a fare degli scherzi, a volte anche un po’ pesanti e ci è piaciuto parlare anche di lui, seppur brevemente.

 

Rocco Di Cicco era emigrato in America e qui, nel Massachussetts, aveva frequentato, condividendone il pensiero, un gruppo di anarchici di cui facevano parte Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti che egli conobbe personalmente. Sacco e Vanzetti, noti alle autorità locali come militanti radicali, coinvolti in scioperi, agitazioni politiche e propaganda contro la guerra, furono accusati ingiustamente, processati e giustiziati negli Stati Uniti nel 1927.

Rocco Di Cicco, tornato in Italia, non era venuto meno alle sue idee e, con molto coraggio, le aveva manifestate seppure in modo apparentemente scherzoso, come da sua indole. Non è, pertanto, un caso che non solo Alba ma anche i nomi delle altre quattro figlie ricordassero degli anarchici, così come non è un caso che con la scelta, per il figlio maschio, del nome Giordano, avesse voluto esprimere un suo personale modo di intendere la religione cristiana.

Precisamente:

Alba si riferisce al nome dell’anarchico Antonio d’Alba che il 14.03.1912 cercò di attentare, senza riuscirci, alla vita di Vittorio Emanuele III.

Amelia è un nome che veniva usato spesso nella letteratura anarchica.

Caseria deriva da “Caserio”, un anarchico italiano il cui nome esatto è Sante Geronimo Caserio che, nel 1894, pugnalò l’allora presidente delle Repubblica Francese.

Brescia deriva da Gaetano Bresci un anarchico che il 29.07.1900 uccise il re d’Italia Umberto I di Savoia per vendicare l’assassinio, da parte dei generali dello stesso re, degli operai di Milano insorti per le spaventose condizioni di miseria in cui vivevano.

Rosina deriva dal Rosina Zambelli, la donna che nel 1912 divenne la moglie di Nicola Sacco.

Giordano si riferisce a Giordano Bruno, filosofo, scrittore e frate domenicano italiano condannato al rogo dall’Inquisizione cattolica per eresia. Ci racconta Alba che suo padre soleva dire che egli: “Credeva a Dio ma non ai preti...” e, poi, precisa, “...in punto di morte ha voluto l’Estrema Unzione”.

Apprendiamo anche altri episodi significativi del pensiero di Rocco e chiudiamo questa digressione, con cui abbiamo voluto rendere un piccolo omaggio alla memoria del padre di Albetta, raccontandone uno.

Albetta ci dice che, da deciso oppositore del fascismo Rocc’ B’sciard’ aveva dato al suo asino il nome di “Rachele” tanto che i fascisti glielo avevano “sequestrato” chiudendolo per una notte in una stalla e impedendogli di riprenderlo. Commenta, riferendosi all’asino “…Si era fatto una notte in carcere” e aggiunge che solamente il giorno dopo lei e sua sorella Amelia lo avevano potuto “liberare”.

Comunque, conclude Albetta: “…Nostro padre era contro i fascisti ma è riuscito a non farsi prendere”.

 

Chiediamo ad Albetta come si è svolta la sua infanzia e la sua giovinezza e dal suo racconto conosciamo un mondo contadino, povero, dove tutti, come potevano, mettevano a disposizione la propria forza lavoro per vivere e…. per sopravvivere.

Ci racconta che da bambina andava a pascere gli agnelli; al tempo della mietitura, invece, andava ad Aschi, insieme a tante altre donne ortonesi, a “rimettere la paglia”. Allora non c’era la trebbia e per dividere il grano dalla paglia, i covoni, distesi su di un grande lenzuolo tessuto al telaio (i’ pannaron’), venivano pistati dagli asini (si diceva “trescare il grano”). Alla fine di questa “operazione” la paglia ottenuta era in realtà un “tritume” che poteva essere portato nei fienili soltanto raccogliendolo in grandi lenzuoli. I pannaroni, ricolmi di paglia venivano legati ai lembi e le signore se li “caricavano” sulla testa e, camminando perfettamente erette, attraverso numerosi viaggi, “rimettevano la paglia”, vale a dire riportavano la paglia nei fienili. Ad Aschi si produceva molto grano e, pertanto, andare a rimettere la paglia diventava un vero e proprio lavoro perché si riceveva come ricompensa del grano che, in quegli anni di grande povertà, rappresentava un’inestimabile ricchezza.

Sempre nel periodo della mietitura, verso le ore quattro del mattino, al fine di poter lavorare prima del sorgere del sole, cioè con il fresco, Albetta e le sue sorelle, così come accadeva in tutte le famiglie, si alzavano per andare a “raccogliere la spiga”. Rocc’ B’sciard’ diceva ai suoi figli: “Andiamo che per terra c’è l’oro”. Nella povertà s’impara a non sprecare nulla…., neppure un chicco di grano.

In vista del lungo e freddo inverno, da giugno ad ottobre, bisognava provvedere alla riserva della legna e così anche Albetta andava in montagna “a fare la legna”; poiché gli asini erano pochi, le donne che avevano la forza per poterlo fare, trasportavano i fasci di legna dalla montagna fino al paese portandoli sulla testa.

Il suo racconto continua e ci parla dei lunghi e freddi mesi invernali quando, seduta vicino al camino, con la luce di un piccolo lume a petrolio, filava la canapa che era stata comperata a S. Benedetto. “…Lì la gente era più ricca…”, commenta Albetta. Lei e le sue sorelle si recavano a piedi a S. Benedetto sia per prendere la canapa sia, una volta che l’avevano filata, per vendere il filo e ricevere in pagamento dei fagioli. Spesso, però, preferiva andare a filare “ai mont’”, nelle stalle: i mont’ era il luogo di ritrovo di uomini e donne, lì faceva caldo, si passavano delle ore in compagnia e, inoltre, si risparmiava della legna perché si evitava di accendere il fuoco in casa.

Sempre con il filato ottenuto dalla canapa venivano tessuti al telaio anche dei teli e, unendone tre, si otteneva un lenzuolo. “…Le lenzuola erano ruvide e non ci piacevano perché pizzicavano e nessuno ci voleva dormire. Le lenzuola a quei tempi erano poche, solo i ricchi ne avevano uno un più per cambiare il letto; una volta ne abbiamo tinto un paio con la f’j’na (fuliggine) e Amelia, che sapeva cucire, ci ha fatto un paio di pantaloni per nostro padre che ne aveva bisogno per andare a Frascati”.

Comunque la sua famiglia aveva una zia che viveva a Padova la quale mandava loro dei pacchi con degli indumenti e Amelia li adattava per tutti; ma non erano i soli a ricevere i pacchi, altri avevano i parenti in America e, allora, i vestiti arrivavano da lì.

 

“Albetta ma tu sei andata a scuola?”. “Ho fatto fino alla terza elementare e poi ho fatto il recupero con il Maestro dell’Orso”.

Ricorda che l’edificio scolastico si trovava presso la casa di Alfredacc’ e di aver avuto come insegnanti la Maestra Verzellina e la Maestra Olimpia. “A scuola andavo benino; chi faceva il cattivo, invece, veniva messo in ginocchio sui ceci…” Frequentava tre ore la mattina e due ore il pomeriggio perché per pranzo si tornava a casa anche se c’era ben poco da mangiare.

Ci spiega, infatti, che a quei tempi il cibo era razionato perché si andava a fare spesa con la “tessera”. Albetta si vuole riferire alla Carta annonaria, che era una carta individuale utilizzata dallo stato durante il periodo della guerra per il razionamento dei generi di prima necessità. La carta era dotata, per ogni bene (p. es. pasta, olio, zucchero), di un certo numero di cedole che corrispondeva alla quantità massima che ciascuna persona poteva acquistare di quel bene.

Ricorda che la spesa si faceva alla bottega di Trian’ che, entrando in Via Piano, si trovava dopo l’attuale Ca’ d’Alfonso, a quella di Gigi e a quella di Marietta di Clementino, situata su Via Roma dove si vendevano anche le stoffe. “Mia madre diede a Marietta di Clementino della genziana, perché faceva passare la febbre e allora Marietta gli regalò una cartiata di sarde (un cartoncino di sarde)”.

Ci racconta che bisognava fare sempre molta attenzione, e non solo alla spesa, perché: “…gli amici dei fascisti facevano la spia” e si rischiava che succedeva come era capitato alla madre di una sua amica che venne messa in carcere perché dall’aia, dopo la trebbiatura, aveva portato a casa una quantità di grano maggiore di quella che le spettava.

 

La mia famiglia era povera perché non aveva le terre; mio padre andava a coltivare le terre degli altri e poi divideva il raccolto a metà con i padroni. Anche noi andavamo a zappare ma mia sorella Amelia, che faceva la sarta, si vergognava di farsi vedere con la zappa e allora la nascondeva dentro ad una “saccuta” (Sacco fatto con i teli tessuti al telaio).

Le chiediamo che cosa si intendeva al suo tempo per famiglia contadina ricca e allora ci indica come esempio una sua vicina di casa la cui famiglia possedeva venticinque coppe di terra, una capra e quattro/cinque pecore.

A questo punto commenta: “A noi ci ha preso chi ha voluto, perché noi non avevamo nulla…” e, osserva ancora, dall’alto dei suoi 86 anni, “…in realtà non capivi nulla, ma pensavi, basta che me lo prendo”. Con questi pensieri che oggi, se non contestualizzati, potrebbero lasciare perplessi, Albetta ci ha in realtà riassunto un momento storico, una condizione di vita contadina, povera, non cercata e non voluta ma accettata quasi con rassegnazione e raccontata oggi con poche significative parole, ricche di saggezza, sensibilità, intelligenza.

Con mio marito, Giovanni Eramo, nato nel 1916, sono stata fidanzata solo un anno perché allora prima di sposarti non ti frequentavi”.

 

Giovanni ed Albetta si sposano il 17 maggio 1947.

Quel giorno entrambe le famiglie degli sposi avevano portato un agnello e avevano anche un po’ discusso perché l’agnello della famiglia di Giovanni era più grande dell’altro. La stoffa del vestito da sposa di Albetta, di color ruggine, era stata comperata a Pescina dallo stesso futuro sposo, mentre sua sorella Amelia aveva provveduto a confezionare l’abito. Dopo il pranzo avevano ballato e “…la musica la faceva il grammofono”.

Giovanni per circa dieci anni va a lavorare a Frascati, parte a novembre e torna a marzo. In questo periodo Albetta si occupa delle terre da coltivare e delle pecore da allevare. Con l’inizio dei lavori per il rifacimento e/o la realizzazione della rete stradale, Giovanni comincia a lavorare con le ditte incaricate di svolgere tali opere e, così, non va più a Frascati: “..allora la sera tornava a casa …”; “..con le ditte abbiamo cominciato a guadagnare di più, da Frascati invece gli uomini tornavano scalzi e nudi….”, “…io andavo in campagna e lui andava con le ditte…”.

Nel ricordo di quegli anni i suoi occhi si illuminano ed esclama: “...allora era tanto bello!”.

Giovanni spesso portava un bigoncio pieno di ciliegie e lei andava a venderle a San Sebastiano per avere in cambio della legna.

Albetta e Giovanni hanno due figlie: nel 1950 nasce Serenella, nel 1954 Berta. Con la nascita della seconda figlia Albetta vende le pecore per avere più tempo per occuparsi della sua famiglia, ma, osserva: “…le pecore erano una grascia (un’abbondanza)...” E poi aggiunge, con una frase che molto efficacemente sintetizza i cambiamenti che avrebbe portato lo sviluppo economico di quegli anni: “…nel 1954 cominciò ad allargarsi il mondo e allora si cominciò a stare meglio…”.

Verso la fine degli anni ’70 ha il primo televisore in casa, prima invece, chi voleva seguire un programma televisivo doveva andare a Ca’ di Salass’. Più o meno in questi anni compera anche la prima lavatrice mentre, fino ad allora, come tutte le signore ortonesi, era andata al fiume a lavare i panni.

 

Le chiediamo di parlarci delle feste ortonesi e Albetta ci dice che a casa sua l’Otto settembre veniva sempre un “bandista” a pranzo. In quel tempo non c’erano molti soldi per cui spesso la questua si faceva dando ai festaroli, in luogo del denaro, quello che si aveva dentro casa, p.es. una forma di formaggio, una balla di paglia; allo stesso modo accadeva per i suonatori delle bande, i cosiddetti bandisti. I festaroli non potevano provvedere al loro pranzo e così, ogni famiglia ortonese che voleva e poteva, ospitava a pranzo un bandista. “…mia suocera, che è vissuta a casa con me e mio marito per quindici anni, cucinava per il bandista sempre il galletto alla graticola..”.

Il suo ricordo torna ancora alla fanciullezza e ci dice che: “...le feste di settembre ci sono sempre state..” ma che lei e le sue sorelle non sempre vi potevano partecipare perché il loro papà voleva che andassero a “Camp’ Castin’” a raccogliere la secina per riportarla ad Ortona, secina che serviva per fare gli gnocchi. Ricorda ancora che c’era anche un fruttivendolo di Sulmona, che si chiamava Ciaravall’; una volta giunto a Carrito si faceva prestare un asino e poi veniva ad Ortona e girava per tutto il paese per vendere fichi e frutta. Albetta ci descrive anche i piatti di questi giorni di festa: il Sei settembre si cucinavano gli gnocchi; il Sette settembre le “segn’ stracciat’”; l’Otto settembre la “pasta comperata”. Mangiare la pasta comperata oggi per noi è la normalità, ma allora era un lusso che, in quanto tale, ci si concedeva solo l’otto settembre, la festa delle feste. Albetta precisa anche che il secondo piatto lo cucinava solo chi poteva “ammazzare un gallo” perché non c’erano i soldi per comperare la carne e gli agnelli non si potevano mangiare perché venivano sì allevati ma per essere venduti.

 

Tornando al presente Albetta ci dice che è andata a lavorare in campagna fino all’età di 77 anni quando, sia per l’età sia per dei problemi di salute di Giovanni ha deciso di smettere. “Giovanni si è operato e io sono rimasta a casa a fargli compagnia. Lui non voleva restare solo e spesso, quando uscivo, mi mandava a cercare”. Albetta nel ricordare questi anni ci parla di suo marito con grande rispetto e con altrettanta tenerezza. “Siamo riusciti a festeggiare il cinquantesimo anniversario di matrimonio e per poco non abbiamo festeggiato anche i sessant’anni”.

 

A conclusione della nostra chiacchierata le chiediamo come passa oggi le sue giornate. “Oggi mi cucino per conto mio (intendendo dire, con questa espressione, che sta bene in salute e che può badare a se stessa), esco a fare la spesa, mi faccio una chiacchierata con le mie amiche e con mia sorella Rosina, guardo la televisione che per me è una compagnia”.

 

Non ci lascia andar via senza prima averci offerto del succo di carota e dei biscotti e aver regalato una cioccolata a Sara, la giovanissima del gruppo. Ci ringrazia per la visita ed esclama: “E’ stato tanto bello”, anche se i suoi gesti ed i suoi occhi dicono molto di più di quello che la timidezza non le fa esprimere con le parole.

 

Grazie a te, Albetta.

 

Ortona dei Marsi, 15 novembre 2008

 

nonna Albetta è stata intervistata da Letizia Del Capraro

 

 

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