Appare oggi più di ieri evidente la diffusa
esigenza di rivolgere la propria considerazione a pratiche
alternative alla medicina tradizionale. Ciò riporta l’essere
umano che si appresta a salutare il ventunesimo secolo di un
balzo indietro in un non lontanissimo passato dove medicina,
religione e magia si intrecciavano in una tela robusta e
rassicurante che ha avvolto e protetto intere generazioni e
che è stata trama caratterizzante della civiltà contadina in
particolare nelle nostre regioni meridonali.
Che la
medicina fosse di per sé assieme scienza, arte e magia non è
un aforisma da me felicemente intuito bensì rappresenta uno
tra gli insegnamenti che il Professor Angelo Caniggia,
illustre Clinico della Scuola Senese ha impartito a noi
giovani studenti. Scienza assolutamente imperfetta che da
pochi decenni ha trovato riscontri oggettivi e di reale
efficacia a teorie prima solo tratteggiate a livello
empirico. Esoterismi, pranopratiche, omeopatia, medicina
naturale, iridologia sono tutte facce della stessa medaglia
che manifestano l’esigenza di un approccio differente con il
proprio corpo, forse più maturo, senz’altro teso ad una
ricerca interiore che, troppo spesso, la medicina
tradizionale ha abbandonato, trascurando quel rapporto
medico-malato cardine dello svilupparsi del percorso
diagnostico-prognostico-terapeutico e riabilitativo,
occasione unica di approfondimento, di ricerca anche
spirituale, di catarsi spesso benefica, di recupero di un
equilibrio psicofisico perduto.
Tale
attualità stimola la riflessione su credenze e pratiche al
limite tra il rituale magico pagano e il rito religioso
ortodosso che (come notava il medico-psicologo cosentino
Pasquale Rossi nella sua opera : “Le rumanze e folklore
in Calabria” del 1933) le nostre popolazioni fino a
pochi anni or sono esercitavano e in alcuni, ormai rari,
casi anche oggigiorno esercitano nel confronto con la
malattia in particolare riguardo agli occhi ed alla vista
come primi strumenti di relazione con gli altri e con
l’ambiente che ci circonda (occhio specchio dell’anima e
anche del corpo). Ben noto è il malocchio inteso
sia come sguardo avvelenato e carico di invidia, portatore
di danno a chi lo riceve, sia come condizione propria dello
sguardo che si ritiene possa nascondere una malattia o un
presagio funesto. Tale credenza popolare pare tanto vicina a
ciò che gli iridologi sostengono a proposito della
possibilità di diagnosticare malattie le più varie e
riguardanti gli organi e gli apparati più disparati
attraverso l’osservazione dell’iride, vale a dire del
segmento circolare e diversamente colorato contenuto
all’interno del nostro occhio. Del resto la teoria che gli
occhi emanassero dei raggi che colpivano gli oggetti e
materializzavano l’immagine consentendone la percezione
apparteneva al filosofo Euclide alla quale si contrappose la
teoria di Democrito il quale sosteneva viceversa che fossero
gli oggetti a emanare raggi che gli occhi intercettavano e
percepivano come forme proprie. La tradizione popolare del
malocchio prevede la possibilità di emendare il soggetto
colpito da tale maleficio attraverso “riti magici”
effettuati da donne preposte a tal fine che pronunciando
frasi ad effetto tra le quali la classica “fora
maluocchiu, fora affascinu” liberavano dal sortilegio.
Se allo sguardo della persona invidiosa e maligna si
attribuiva una eventuale conseguenza nefasta, così
all’occhio ed alla vista venivano attribuiti poteri augurali
e discriminativi tra presagi fausti ed infausti raccolti
nell’aforisma popolare : “ uocchiu mancu, core francu;
uocchiu dirittu, core affrittu” , attribuendo ad una
malattia dell’occhio sinistro buoni auspici e al contrario
condizioni di afflizione se ad essere colpito fosse
malauguratamente l’occhio destro. Così come ancora l’occhio
veniva considerato il bersaglio della donna gravida non
soddisfatta nelle sue voglie (“gulii”) ritenuta
capace di far ammalare l’occhio del malcapitato di orzaiolo
(“rijuolo”) al fine di vendicarsi del desiderio non
esaudito. Guai quindi a non assecondare una partoriente. Se
una donna incinta avesse “colpito”, al malcapitato restava
pur sempre la speranza di incontrare una comare esperta in
guarigioni. In tale caso il poverino veniva fatto
posizionare su di una sedia mentre la maga (magara)
posta davanti a lui, pronunciando frasi augurali, doveva
disegnare sull’occhio per tre volte una croce con la cruna
di un ago o un oggetto metallico. Dopo tale intervento il
malato veniva invitato per tre giorni a guardare ogni
mattina in un recipiente contenente olio d’oliva! Sono stati
tramandati altri “rimedi” per lenire le sofferenze dei
malati della vista, alcuni bizzarri ed originali, altri
sconcertanti per la loro pericolosa inutilità; infatti ciò
che l’essere umano nel corso della sua storia ha introdotto
o provato ad introdurre negli occhi a scopo terapeutico
potrebbe essere oggetto di una ponderosa trattazione. Alcuni
ricordano come si riconoscesse alla pelliccia di talpa
scuoiata con la mano sinistra un potere benefico nei
confronti di numerose condizioni patologiche dell’organo
della vista che venivano comunemente definite il sangue agli
occhi (‘u sangu all’uocchi) nella cultura popolare.
Anche in questi casi una persona esperta, quasi sempre
ancora una donna, attraverso un rituale che assumeva toni
liturgici, pronunciava frasi ad effetto che avrebbero dovuto
compiere il miracolo. Come contorno a tale cerimonia era
previsto l’utilizzo dei semi di finocchio, ritenuti un
viatico nella fattispecie, con i quali si aspergeva l’occhio
ammalato pronunciando la frase : “ l’uocchiu si carma cu
‘na cima i finuocchiu”. A volte quando la condizione lo
rendeva necessario si interveniva direttamente sull’occhio
attraverso l’utilizzo della cruna di un ago, di una spilla
d’oro o in mancanza di tali arnesi di una setola o anche di
sottili fili di paglia. Nella esecuzione di tali sciagurate
manovre, venivano pronunciate filastrocche che si sono
andate modificando a seconda del luogo e del tempo in cui
venivano tramandate. A noi ne è giunta una che recitava
pressappoco così : “Santa Lucia jia ppe bbia e truvau a
Giesù e Maria. - Cchid’à Lucia mia? ‘Aju ‘na furia all’uocchi
- Va all’uortu, piglia ‘na cima de finuocchi. Ccu lli piedi
l’àju scarpisatu, ccu lle manu l’àju benedittu, và Lucia
duve t’àju dittu” (brani tratti da : “Carmi,
tradizioni, pregiudizi nella medicina popolare calabrese”
di Alessandro Adriano, Pellegrini editore, Napoli 1983).
Sacro e profano si intrecciano e si compenetrano ancora una
volta in una miscela dalla dubbia efficacia clinica ma dal
sicuro effetto commotivo. L’urina specie se di donna
vergine era considerata un toccasana per gli occhi
malati, per non parlare degli infusi di piante le più
svariate alcune effettivamente giovevoli, altre
assolutamente inutili altre ancora alquanto dannose.
La medicina popolare dunque con
tutti i suoi limiti interpretava le esigenze della gente
ammalata e sofferente che aveva sete di certezze, di
riferimenti rassicuranti e assieme idealizzati e
idealizzabili. La litania della comare che con fare ieratico
strofinava sugli occhi ammalati una pelle di talpa appena
scuoiata (alla faccia delle più elementari nozioni di
igiene) appariva (o appare?!) più convincente delle cure e
dei consigli del medico, così come erano più credibili le
castronerie della fattucchiera delle utili indicazioni
relative ad una attenta ed accurata prevenzione. Certo che
la strega sapeva il fatto suo! Sempre pronta nelle domande e
nelle risposte, sempre rassicurante nel racconto di successi
conseguiti con le guarigioni dei tali compari delle tali
contrade. L’essere umano (ahimé) in questi casi mantiene a
mente i pochissimi e fortunati successi (magari l’unico) e
dimentica presto gli insuccessi; le nefaste conseguenze di
una altrettanto malaugurata terapia vengono presto rimosse
dall’immaginario collettivo, al contrario è
straordinariamente benefico il racconto e il vivo ricordo di
una miracolosa guarigione. Vi è un ritorno a tali
atteggiamenti da parte di ceti sociali anche evoluti (sic!)
che cercano e a volte trovano un approccio più animistico
alla vita ed alle sue incertezze che sembrano essere in
questo particolare momento storico opprimenti e pesanti come
una spada di Damocle sul futuro nostro e delle venture
generazioni; poche certezze, molti dubbi e angosce. In
questo clima un elemento di riferimento può farci sentire
meglio, una madonna che piange, un crocifisso che sorride,
una comare che ricorda i vecchi tempi in cui si stava meglio
pur stando peggio, in cui si poteva sperare di guarire da
una malattia con quattro parole e tre spezie possono
aiutarci a sopravvivere. Assistiamo pertanto ad un ritorno
della spiritualità; resta da vedere se ciò corrisponde ad
una vera e sincera ricerca interiore tesa ad una crescita
morale e civile ovvero ad un ennesimo rifiuto delle proprie
responsabilità. Soprattutto i giovani sono chiamati a
interrogarsi e a dare una risposta a questa e ad altre
domande.
AUTORE : Alessandro
Perrone
PUBBLICATO SU :
“IL MERIDIONALE”
supplemento al n° 4 - aprile 1997 - di La Nuova Gazzetta di
Calabria |