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di
Massimo Giannini
La Repubblica
- 1/10/2002
L'UNICA cosa
vera che ha detto il presidente del Consiglio presentando la manovra
economica del prossimo anno è che si tratta di "una
Finanziaria senza precedenti". Lo è, in effetti, da
molti punti di vista. Intanto, è difficile che una Finanziaria
sia uguale alle altre. Cambia la congiuntura, cambiano i fabbisogni,
cambiano i saldi contabili. Copiare la legge dell'anno prima sarebbe
sconveniente, oltre che scorretto. Ma questa Finanziaria è
"senza precedenti" soprattutto perché realizza
il miracolo evangelico delle nozze di Caana: trasforma l'acqua in
vino. Partiamo dai dati certi.
La manovra ammonta a 20 miliardi di euro. È
ripartita in otto miliardi di tagli alle spese, quattro miliardi
di cartolarizzazioni generate da Infrastrutture e Patrimonio Spa,
otto miliardi di nuove entrate prodotte dal maxi-condono fiscale.
In teoria è tutto chiaro. Ma qui subentrano le virtù
sovrannaturali del premier.
Ai cronisti Berlusconi spiega che nella manovra
"non ci sono tagli alla spesa". Per nessuno. Né
ministeri né Mezzogiorno, né enti locali né
scuola. Soprattutto, "non solo non aumentano, ma addirittura
diminuiscono le tasse". Per tutti. Addirittura, per le persone
fisiche c'è "una riduzione che non ha eguali nella storia".
Nonostante questo ben di dio, Tremonti aggiunge che "questa
manovra centra gli obiettivi concordati con la Ue". Come sia
possibile questa quadratura del cerchio, il ministro dell'Economia
non lo spiega: per gli "approfondimenti tecnici" rimanda
tutti "a una prossima conferenza stampa". Nel frattempo,
questo è il prodigio: c'è una Finanziaria che "non
mette le mani nelle tasche degli italiani", non sottrae risorse
al portafoglio delle imprese e a quelle delle Pubbliche amministrazioni,
eppure taglia il deficit all'1,5% del Pil e onora gli impegni con
Bruxelles.
Il trucco c'è. E a sfogliare un po' le carte, si vede pure.
Il governo aveva un grosso problema: doveva fare una manovra severa,
con una congiuntura ormai in fase quasi recessiva. Una maxi-stangata
avrebbe soffocato definitivamente l'economia.
Il Cavaliere ha scansato il pericolo, sfruttando
fino in fondo la proroga al 2006 per il pareggio di bilancio concessa
dalla Commissione europea, e scaricando le responsabilità
delle prossime micro-stangate sugli enti locali. Se è vero
che quella varata dal governo Amato nell'autunno del 2000 è
stata una "manovra pre-elettorale" (come grida Tremonti
da un anno e mezzo), si può dire che quella di Berlusconi
è una "Finanziaria post-elettorale". Il Cavaliere
ha cercato di salvare la faccia, e di non tradire in modo troppo
sfacciato le promesse fatte sul fisco prima del voto.
Il risultato è un ibrido, una somma
di non-scelte. Che ha il pregio di non martoriare le famiglie, già
fin troppo stressate dai tracolli delle Borse e dall'assurda rincorsa
dei prezzi. Ma che non soddisfa quasi nessuno. I benefici teorici
sono annullati dai malefici pratici. Dal punto di vista del ciclo,
la manovra non soffoca l'economia reale, ma non rilancia lo sviluppo.
Non tartassa i contribuenti, ma non incentiva i consumi. Non strozza
le imprese, ma non sostiene il Sud. A meno di non voler credere
all'ennesima invenzione del Cavaliere: "Abbiamo individuato
un innovativo strumento di gestione dei fondi per le aree depresse",
ha annunciato soddisfatto. Alludeva al Cipe:
Peccato che questo "innovativo strumento"
esista da una trentina d'anni. Dal punto di vista dei saldi di bilancio,
la manovra non sperpera, ma non risana. Di "riforme strutturali",
quelle invocate dalla Banca d'Italia, dal Fondo monetario e dalla
Ue, non c'è traccia. Con uno sforzo estremo di sincerità,
persino il premier riconosce che da questa Finanziaria "manca
la riforma delle pensioni". Salvo poi, anche in questo caso,
scaricare le responsabilità su qualcun altro: "A quella
tanto penserà l'Europa". Come un governicchio balneare,
lo squadrone berlusconiano rimanda o schiva le questioni più
rognose politicamente e più spinose socialmente. Non era
su queste basi che l'uomo di Arcore si era presentato agli italiani,
spacciandosi per una "Thatcher" con i pantaloni.
Dopo un anno e mezzo passato a spartire la
torta con i poteri forti (le imprese hanno avuto l'abolizione delle
imposte di successione, la Tremonti bis e uno scudo fiscale a buon
mercato) ora concede qualche briciola ai ceti deboli. Il primo modulo
della riforma fiscale vale sulla carta 5,5 miliardi di euro e riguarda
circa 23 milioni di contribuenti. L'entità e l'estensione
dei benefici sono gli stessi che l'ultimo governo dell'Ulivo aveva
inserito nel suo Dpef, tra maggiori detrazioni e restituzione del
fiscal drag. In ogni caso, con la nuova curva delle aliquote spalmata
sul singolo contribuente, siamo al piatto di lenticchie. Un esempio:
il risparmio più alto, 436 euro, lo ottiene un lavoratore
dipendente senza carichi di famiglia, e con un reddito annuo di
11 mila euro. Cioè un single, che guadagna meno di un milione
di vecchie lire al mese: non proprio una categoria standard.
Un altro esempio, più realistico: un
lavoratore dipendente con coniuge e due figli a carico, e con un
reddito annuo di 12.500 euro (circa 24 milioni di vecchie lire,
lorde, pari a 1 milione e mezzo al mese netto) ottiene un risparmio
di 371 euro. Un ultimo esempio, ancora più plausibile: un
lavoratore dipendente con coniuge e due figli a carico, con un reddito
medio superiore ai 25 mila euro (50 milioni di vecchie lire) risparmia
63 euro all'anno: 5,25 euro al mese, poco più di 10 mila
vecchie lire. Sette caffè al bar. Neanche due pacchetti di
sigarette dal tabaccaio. Di questi tempi è bene accontentarsi.
Ma di qui a parlare di "rivoluzione dell'Irpef" ne corre.
Il ceto medio non ottiene nulla. Chi è in miseria ottiene
un'elemosina. È lodevole che un governo liberista si accorga
che esistono le nuove povertà, cosa che onestamente non hanno
capito neanche i governi dell'Ulivo. Ma queste misure non sono "riforme".
Tutt'al più forme di quel "Welfare compassionevole",
al quale fanno ricorso le destre populiste di tanti Paesi.
E visto che nessun pasto è gratis, queste
prebende qualcuno le deve pur pagare. Sono le imprese e i comuni
(per non dire della scuola che mette in mobilità 5 mila insegnanti,
e della sanità che chiude almeno 300 ospedali). La reazione
ufficiosa di Confindustria è amara, ma Antonio D'Amato non
può lamentarsi troppo: paga il macroscopico errore di aver
firmato una cambiale in bianco al governo, che oggi non può
rimborsare. La reazione ufficiale degli enti locali è furente,
perché gli toccherà il "lavoro sporco" che
il governo centrale ha accuratamente evitato di fare. Privati della
possibilità di introdurre le addizionali, e con un taglio
del 2% ai trasferimenti, i sindaci saranno costretti a riprendersi
dai cittadini, sotto forma di mancata erogazione dei servizi, quello
che il Fisco gli ha appena restituito, sotto forma di sgravi Irpef.
Contro questa Finanziaria è esagerato
mobiliare le masse come promette di fare la Cgil. Ma per questa
Finanziaria è grottesco gridare al miracolo, come fa il centrodestra.
Il saldo finale della manovra è modestissimo. Il suo vero
piatto forte resta il concordato. Al di là di ogni giudizio
etico-morale sull'ennesimo "premio" a chi ha violato le
regole della convivenza civile (dopo la legge sul falso in bilancio
e la sanatoria sulla fuga di capitali) resta anche in questo caso
un'incognita sul gettito. Il primo concordato di Tremonti del '94
non fu un successo epocale. I condoni veri, quelli tombali che facevano
il pieno di entrate e mettevano al riparo dai nuovi accertamenti
e dai rischi penali, sapevano farli i "professionisti"
della Prima Repubblica, da Formica a Pomicino. Forse non era per
questo che tanti elettori hanno votato per il Polo. Vuota com'è
di interventi strutturali, questa Finanziaria è un'altra,
azzardatissima scommessa: rinvia al prossimo anno il vero appuntamento
con il rigore, quando l'Italia dovrà correggere i suoi conti
per importi ben superiori allo 0,5% del Pil.
"Questo Paese ha un governo di ferro",
ha esultato il premier, cercando di nascondere sotto il tappeto
della Casa delle libertà i troppi cocci rimasti per terra
dopo una settimana di scontri feroci tra ministri, sul Fondo unico
del Mezzogiorno e i bilanci dei dicasteri. Ma qualche scoria rimane,
al di là dei numeri schiaccianti in Parlamento. Secondo un
sondaggio Abacus appena sfornato, e relativo alle intenzioni di
voto, a settembre del 2002 l'alleanza Ulivo più Rifondazione
otterrebbe il 46,2% dei suffragi (contro il 40% delle ultime elezioni
politiche), mentre la Cdl si attesterebbe al 46,4% (contro il 50,9%
registrato il 13 maggio 2001). "Io non sono affatto stanco",
ha concluso il Cavaliere, dopo la maratona notturna sulla Finanziaria.
Parecchi italiani forse sì.
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