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da: L'odore dei soldi
Origini e misteri delle fortune di Silvio Berlusconi
Autori: Elio Veltri, Marco Travaglio
Un mafioso ad Arcore
Quando sia arrivato nella villa di Arcore,
nessuno esattamente lo sa. Chi dice nel 1974, chi nel 1975. E anche
la data e le modalità del suo allontanamento restano un mistero.
Ma una cosa è certa: per alcuni anni un boss di prima grandezza
della mafia síciliana, Vittorio Mangano, ha soggiornato nella
villa di Silvio Berlusconi, con moglie e due figlioletti, ufficialmente
per svolgervi le mansioni di "fattore" o di "stalliere".
Grazie alla raccomandazione di un conterraneo e amico di vecchia
data: Marcello Dell'Utri. Nato a Palermo il 18 agosto 1940, giovane
emergente della famiglia mafiosa di Porta Nuova (quella di Pippo
Calò e Tommaso Buscetta), fin dai primi anni '70 Mangano
fa la spola fra la Sicilia e Milano, dove divide un piccolo appartamento
con la suocera e il cognato, operaio all'Ansaldo. Per gli investigatori,
è già un soggetto pericoloso: la prima segnalazione
della Questura sul suo conto risale al 1967, dopodiché il
giovane boss colleziona denunce, arresti (tre, per l'esattezza)
e condanne per ogni sorta di reati: dalla truffa agli assegni a
vuoto, dalla ricettazione alle lesioni volontarie, alla tentata
estorsione. Mica male, per un uomo che non ha ancora trent'annì.
Il suo curriculum di tutto rispetto lo fa presto notare da Stefano
Bontate, "principe di Villagrazia" e numero uno di Cosa
nostra. Il suo vestire elegante, i suoi modi raffinati e la sua
intelligenza pronta convincono la cosca.
"Guadagnavo 26 500 mila lire, che poi
divennero addirittura un milione, in un periodo in cui la paga di
un magistrato era 100 mila lire". Lira piú, lira meno,
guadagna l'equivalente di 10 milioni di oggi al mese. E lui ad accompagnare
a scuola ogni mattina i giovani figli di primo letto del futuro
Cavaliere, Marina e Pier Silvio detto "Dudu". E i due
ragazzi fanno presto amicizia con le due prime figlie del "fattore"
siciliano, Loredana e Cinzia. Mangano battezzerà la sua terzogenita
Marina, come la figlia di Berlusconi. Anche Berlusconí, nel
1987, verrà chiamato da un giudice, Giorgio Della Lucia (che
indaga sul crac della "Bresciano", la società di
costruzioni amministrata da Marcello Dell'Utri), a spiegare quella
strana presenza nella sua villa: "Ad Arcore ? spiegherà
il Cavaliere avevo bisogno di un fattore, di uno che si occupasse
dei terreni, dei cavalli, degli animali [ ... I. Chiesi a Dell'Utri,
che mi presentò Vittorio Mangano come persona conoscíuta
da un suo amico: assumerlo fu una mia scelta, su una rosa di nomi
che mi vennero prospettati. Non feci indagini preventive perché
Mangano mi diede l'idea di una persona a posto e competente [ ...
]. Avevo in animo di impostare un'attività di allevamento
di cavalli che poi non fu realizzata". Strano, perché
Mangano dichiarerà il contrario. E anche Dell'Utri smentirà
Berlusconi, nel 1996, di fronte ai pm di Palermo: "Quando Berlusconi
acquistò villa Casatí c'era una bellissima scuderia
con un solo cavallo. Berlusconí decise di farla rivivere
acquistando numerosi animali. Questa scuderia ben attrezzata esiste
ancora". Dell'Utri ha sempre sostenuto di aver scoperto i trascorsi
criminali di Mangano soltanto diversi anni dopo la sua assunzione
ad Arcore. Ma secondo la procura di Palermo mente: li conosceva
almeno fin dal 1973. Lo dimostrerebbe un documento conservato nell'archivio
della stazione dei carabinieri di Arcore. Un rapporto in cui i militari
dell'Arma scrivono: "Dell'Utri ha lasciato un impiego in banca
[lavorava alla Cassa di Risparmio di Belmonte Mezzagno] per seguire
Berlusconi ed una volta qui ha chiamato Mangano, pur essendo perfettamente
a conoscenza ? è risultato dalle informazioni giunte del
Nucleo investigativo del gruppo di Palermo ? del suo poco corretto
passato". A farli incontrare era stato, oltre alla comune passione
per il pallone, un comune amico, Gaetano Cinà detto Tanino,
che secondo i giudici è un uomo d'onore palermitano della
famiglia di Malaspina. "Cinà ? ha raccontato Dell'Utri
? era il padre di uno dei tanti ragazzi che imparavano il calcio
nella scuola in cui ero istruttore. Mangano assisteva alle partite.
Veniva da noi talvolta da solo e talvolta con Cinà del quale
era amico."
E ancora, sempre dal racconto di Dell'Utri
(al "Corriere della sera" del 21 marzo 1994): "Mangano
l'ho conosciuto nella Palermo anni '60: ero allenatore della Bacigalupo,
squadra di calcio giovanile. Mangano era una specie di tifoso. Commerciava
cavalli. Me ne ricordai nel 1975. Berlusconi mi aveva incaricato
di cercare una persona esperta di conduzione agricola. Cosí
chiamai Mangano". Mangano racconta che fu proprio Cinà
ad accompagnare Dell'Utri quando questi andò a casa sua per
chiedergli di prendere servizio a villa Berlusconi. Era, secondo
Mangano, il 1973. Naturalmente Dell'Utri giura di non aver mai neppure
sospettato che Cinà fosse un mafioso, e nemmeno "vicino
ad ambienti di mafia". Né un quarto di secolo fa, né
pochissimi anni or sono, visto che ancora nel '96 diceva: "Cinà
lo frequento ancor oggi e sono legato a lui da grande amicizia".
Strano, Perché Tanino Cinà, nato a Palermo nel 1930,
titolare di una lavanderia e di un negozio di articoli sportivi
a Palermo, nonché del titolo di studio di terza elementare,
è indicato da tutti i principali collaboratori di giustizia
come l'uomo che - scrivono Peter Gomez e Leo Sisti nell'Intoccabile
- almeno a partire dal 1980 e sicuramente fino a dopo le stragi
di Capaci e via D'Amelio (1992), attraverso il gruppo Berlusconí
avrebbe periodicamente versato alla mafia grosse somme di denaro.
Cinà, ovviamente, nega. Ma arrestato
e interrogato nel 1996, sarà costretto ad ammettere perlomeno
parentele e amicizie con alcuni tra i piú bei nomi dell'onorata
società come Mimmo Teresi, braccio destro e cugino
di Stefano Bontate. Sua moglie, una Cítarda, appartiene a
una dinastia di gente di rispetto che, almeno fino alla seconda
guerra di mafia, ha retto con il pugno i ferro la famiglia mafiosa
di Malaspina, alla quale - secondo il pentito Francesco Marino Mannoia
- apparteneva il deputato andreottiano Salvo Lima. Quanto a Tiresi,
è lo stesso Cirià a definirlo "nipote di mio
cognato Benedetto Citarda". Un altro parente ingombrante Salvatore
Sbeglia, "con cui - dice Cinà - ho messo i piedi un
negozio di articolo sportivi": lo stesso Salvatore Sbeglia
che secondo i giudici faceva da prestanome Raffaele Ganci, cioè
al piú fedele alleato di Totò Riina, accusato di aver
fornito il telecomando usato da Cosa nostra per far saltare l'autostrada
Palermo-Punta Raisi in località Capaci al momento del passaggio
delle auto di Giovanni Falcone, di Francesca Morvíllo e degli
uomini della scorta.
Mangano, lasciata Arcore, diventa poi il numero
uno della famiglia di Porta Nuova dopo l'arresto di Pippo Calò.
E lo rimane finché non finisce in carcere per scontare due
condanne all'ergastolo per duplice omicidio, associazione mafiosa
e traffico di droga. Muore nell'estate del 2000 per un male incurabile.
Negli anni '70 era considerato l'anello di congiunzione tra la cosca
di Salvatore Inzerillo e quella dei siciliani trapiantati a Mila
no, legato a pericolosi pregiudicati come i fratelli Fidanzati,
Giorgio Bono, Gerlando Alberti, Tommaso Buscetta e Ugo Martello
detto "Tanino". Ma negli anni '80 dopo l'ultima guerra
di mafia, si era prontamente "convertito" ai nuovi padroni
di Cosa nostra, i corleonesi di Totò Riina. Tant'è
che il suo nome ricorre spesso negli atti del maxiprocesso. Falcone
indagava su di lui per mafia e droga. E la Procura di Palermo si
interessava a lui - come dimostra l'intervista di Paolo Borsellino
che pubblichiamo qui di seguito - ancora nel 1992, a proposito dei
suoi rapporti con Dell'Utri e Berlusconi.
Ma torniamo ad Arcore, nei primi anni '70.
Racconta Mangano: "Quando arrivai, la villa - che si componeva
di 147 stanze - era ancora in fase di ristrutturazione ed era pertanto
abitata solo dalla mia famiglia e da parte della servitú.
Dopo qualche tempo arrivò anche il dottor Berlusconi".
Dunque la data di arrivo dello "stalliere" mafioso ad
Arcore dovrebbe essere i primi mesi del 1974. Nello stesso anno
torna a Milano Marcello Dell'Utri, che ha conosciuto Berlusconi
all'Università statale nei primi anni '60 e, dopo un periodo
trascorso in Sicilia a farsi le ossa in alcune banche, è
stato richiamato al Nord dall'amico Silvio per fargli da segretario
?tuttofare nella nuova villa (appena acquistata, a prezzo di superfavore,
dalla marchesina Annamaria Casati Stampa, grazie ai buoni uffici
dell'avvocato Cesare Previti, protutore della ragazza rimasta orfana
dei genitori e consulente del futuro Cavaliere). Nei primi anni
'70 la Lombardia pullula di pezzi da novanta di Cosa nostra, quasi
tutti al soggiorno obbligato, oppure in libertà per espandere
riciclaggío e narcotraffico in quel mercato in piena espansione
dopo il boom dei '60. La parabola di Michele Sindona, banchiere
e ricíclatore della mafia, è soltanto una delle tante.
E quando, nel 1985, il giornalista del "New York Times"
Nick Tosches chiederà a Sindona, in carcere in America, "Quali
sono le banche usate dalla mafia?", si sentirà rispondere:
A una domanda pericolosa... In Sicilia il Banco di Sicilia, a volte.
A Milano una piccola banca di piazza dei Mercanti". Quale?
La Banca Rasiní, di cui è stato direttore generale
fino alla metà degli anni '70 Luigi Berlusconi, padre di
Silvio: la banca che - come vedremo piú avanti - è
all'origine dei primi finanziamenti del palazzinaro in erba Silvio
Berlusconi. "Le città giardino di Berlusconi ? spiega
Paolo Madron in Le gesta del Cavaliere (Milano, Sperling & Kupfer,
1994: l'unica biografia berlusconiana autorizzata) ? sono servite
[ ... 1 per far rientrare le valigie di soldi a suo tempo depositate
nella vicina Svizzera. Alla fine degli anni '60 le vie che portano
al paese degli gnomi sono intasate di spalloni che vanno a mettere
al sicuro il denaro della ricca borghesia terrorizzata dai sequestri
(ci provano anche col padre di Berlusconi) [ ... I. Il Cavaliere
va da Rasini e gli chiede di appoggiarlo su quei suoi amici, clíenti
o meno della banca che hanno portato fuori tanti soldi
[ ... ] Berlusconi non ha mai voluto rivelare i nomi di chi lo ha
finanziato[...]. In tempi diversi tutti sono stati liquidati da
Berlusconí con piena soddisfazione".
E' questo l'ambiente
che trova Mangano quando prende servizio, probabilmente all'inizio
del 1974, nella villa di Arcore ancora in fase di restauro. Un clima
pesante, per gli imprenditori milanesi: Berlusconi, oltre ai progetti
di rapimento del padre Luigi e alle minacce di sequestro del figlio
Pier Silvio, ha subíto un attentato (una bomba contro la
sede delle sue società, l'ex villa Borletti di via Rovani
a Milano). Pericoli che cessano come per incanto con l'arrivo in
villa dello "stalliere" siciliano. Il che fa pensare ad
alcuni biografi del Cavaliere che il suo entourage non abbia raccontato
tutto sui veri motivi che portarono all'íngaggio di Mangano.
Sospetti avvalorati dal racconto di un mafioso pentito del calibro
di Francesco Di Carlo che, se fosse confermato, modificherebbe la
ricostruzione del ruolo di Mangano: da quello di fattore-stalliere
a quello di garante-guardaspalle. Dal 1974 al 1978 Di Carlo - capo
della potente famiglia di Altofonte, poi espulso da Cosa nostra
con l'accusa di aver imbrogliato gli amici fingendo il sequestro
di una partita di droga e riparato a Londra - racconta di aver conosciuto
Dell'Utri perché "Cinà me lo presentò
in un bar di via Libertà a Palermo, a metà degli anni
'70. Qualche mese dopo rividi Dell'Utri a Milano [ ... I. In un
ufficio di via Larga di proprietà di alcuni nostri amici
L ... 1 incontrai Cínà, Mimmo Teresí e Stefano
Bontate. Quel giorno erano particolarmente eleganti. lo domandai
il perché e loro mi risposero che dovevano andare da un grosso
industriale milanese amico di Cinà e Dell'Utri, e mi proposero
di seguirli". Il quartetto si reca cosí nella sede dell'Edilnord
dove - secondo Di Carlo - incontra Berlusconi e Dell'Utri.
Parla Bontate: "Dottore, lei da questo
momento può smettere di preoccuparsi. Garantisco io... Perché
piuttosto non pensa a investire nella nostra bellissima isola? Da
noi c'è tanto da costruire". E Berlusconí (secondo
Di Carlo): "Vorrei, vorrei... Ma sa, già qui al Nord
ci sono tanti siciliani che non mi lasciano
tranquillo ... ".
"La capisco - replica Bontate - ma adesso è tutto diverso.
Lei ha già al suo fianco Dell'Utri io le manderò qualcuno
che le eviterà qualsiasi problema con quei siciliani."
Berlusconi: "Non so come sdebitarmi resto a sua disposizione
per qualsiasi cosa". E Bontate: "Anche noi siamo a sua
disposizione. Se c'è un problema basta che ne parli con Dell'Utri".
Senonché, sia prima, sia durante il suo soggiorno a villa
San Martino, Mangano avrebbe continuato a fare il furbo, organizzando
estorsioni, financo ai danni di Berlusconi, e addirittura progettando
sequestri ai danni degli ospiti del suo nuovo "padrone".
Cosí almeno racconta un altro pentito, Salvatore Cucuzza,
successore di Mangano alla guida del clan di Porta Nuova e suo compagno
di cella dal 1983 al 1990. A quel punto - sostiene Cucuzza - Berlusconi
si rivolse a Cinà per trattare direttamente con Bontate e
Teresi e "raggiunse con loro un accordo per il versamento di
una tangente di 50 milioni l'anno. La stessa cifra che veniva prima
versata a Marigano". E Mangano, divenuto ormai superfluo per
il Cavaliere, sarebbe stato liquidato. Fantasie? Farneticazioni
di pentíti ansiosi di compiacere le solite "procure
rosse"? Mica tanto. Almeno sui tentativi di sequestro di alcuni
ospiti di villa San Martino, visto che sono gli stessi Dell'Utri
e Berlusconi a indicarli come la ragione principale dell'allontanamento
di Mangano dopo soli due anni di servizio (e dunque, si presume,
nel 1976, visto che secondo Dell'Utri egli "rimase ad Arcore
due anni"). Ma sull'addio di Mangano le versioni dei protagonisti
non potrebbero essere piú divergenti, contraddittorie ai
limiti dell'inverosímile. Tutto ruota intorno a un misterioso
sequestro di persona: quello di Luigi D'Angerio, avellinese trapiantato
a Milano e sedicente principe di Sant'Agata, subito dopo una cena
a villa San Martino, chez Berlusconi. Un sequestro che risalirebbe
alla notte di Sant'Ambrogio (7 dicembre) del 1975. Anche su quell'episodio,
il primo rapimento in Brianza, le versioni divergono. E la dicono
lunga sull'imbarazzo e la reticenza dei protagonisti di fronte
a un capitolo cosí ingombrante della loro biografia.
Eccole, in estrema sintesi.
Primo. Intervistato dal "Corriere della sera"
(21 marzo 1994), Marcello Dell'Utri racconta: "Mangano rimase
ad Arcore due anni. E si comportò benissimo. Trattava con
i contadini, si occupava dei cavalli. Ma la notte di Sant'Ambrogio
del 1975, dopo aver cenato con noi, il principe di Sant'Agata fu
sequestrato vicino ad Arcore. C'era una nebbia terribile. L'auto
dei rapitori andò a sbattere. E il principe riuscí
a fuggire. Le indagini lanciarono sospetti su Mangano, svelarono
che non aveva un passato immacolato. Fu allontanato. Poi finí
in carcere".
Ma le date non tornano: se - come dice
Dell'Utri - l'avevano assunto nel '75 e l'hanno allontanato nel
dicembre dello stesso anno, come faceva Mangano a restare a villa
San Martino "due anni"? Infatti Berlusconi racconta una
storia un po' diversa.
Secondo. "Avevo bisogno ad Arcore di un fattore, più
precisamente di un responsabile della manutenzione di terreni e
della cura degli animali, cioè cavalli, avendo in animo di
impostare una attività di allevamento di cavalli, attività
poi non realizzata". Chi parla è Berlusconi, interrogato
il 26 giugno 1987 dal giudice istruttore Giorgio Della Lucia. "Ciò
che mi determinò a non portar avanti detta attività
fu la difficoltà di reperire uomini fidati, specialmente
dopo una per me preoccupante scoperta circa il fatto che Mangano
Vittorio si fosse poi rivelato un pregiudicato [...]. Il Mangano
si era sistemato con la sua famiglia ad Arcore, cioè nella
mia villa. Poco tempo dopo, dopo un pranzo avvenuto nella mi villa,
uno dei convitati, il signor Luigi D'Angerio, era stato vittima
di un sequestro di persona, casualmente sventato dall'arrivo di
una pattuglia dei carabinieri. Nell'ambito delle indagini seguite
a questo sequestro emerse che Mangano era un pregiudicato [...].
Non ricordo come il rapporto lavorativo del Mangano cessò,
se cioè per prelevamento delle forze dell'ordine o per un
suo spontaneo allontanamento. Ricordo comunque che qualche tempo
dopo fu tradotto in carcere".
Strano che Berlusconi, scoperto di aver assunto
e ospitato in casa un mafioso pregiudicato, scarti l'ipotesi piú
naturale: quella di licenziarlo. E resti nel dubbio se Mangano se
ne sia andato con le proprie gambe, oppure trascinato a viva forza
dai carabinieri. Strano anche che un evento di tale portata - l'irruzione
dei carabinieri a villa San Martino per arrestare il factotum del
padrone di casa, rivelatosi un pregiudicato mafioso - possa sfuggire
alla memoria del padrone di casa medesimo. In ogni caso, secondo
il Cavaliere, Mangano non rimase in villa due anni, ma "poco
tempo".
Terzo. "Rapporti con la mafia -
dichiara Berlusconi il 20 marzo 1994, intervistato dal "Corriere
della sera" - ne ho avuti una volta sola, quando tentarono
di rapire mio figlio Pier Silvio, che allora aveva cinque anni:
portai la mia famiglia in Spagna e lí vissero molti mesi"
Il tentato sequestro risale dunque al 1973 (essendo Pier Silvio
nato il 28 aprile 1968), prima dell'arrivo di Mangano ad Arcore.
Addirittura prima dell'acquisto di villa San Martino. E questa volta,
a proposito del "fattore" mafioso, il Cavaliere rivela:
"Lo licenziammo non appena scoprimmo che si stava adoperando
per organizzare il rapimento di un mio ospite, il principe di Sant'Agata.
E poco dopo venne scoperto anche il tentativo di rapire mio figlio".
Una contraddizione dopo l'altra: se il tentato sequestro di Pier
Silvio viene dopo quello di Sant'Agata, Píer Silvio doveva
avere 7 anni e non 5. E sarebbe stato spedito in Spagna con madre
e sorella addirittura nel '76, dopo la partenza di Mangano. E poi:
perché, nel 1986, con la memoria molto piú fresca
per la maggior vicinanza ai fatti, Berlusconi esclude di aver licenziato
Mangano, mentre ora afferma di averlo licenziato e scarta le altre
due ipotesi formulate nel 1986 (allontanamento spontaneo o arresto
da parte dei carabinieri)?
Quarto. I giornalisti Claudio Fracassi
e Michele Gambíno (Berlusconi. Una biografia non autorizzata,
Roma, Avvenimenti, febbraio 1994) hanno raccolto una versione alternativa,
di cui tacciono la fonte ma che almeno ha il pregio della coerenza
logica e cronologica. Anche perché - come osserva Giuseppe
Fiori (Il venditore, Milano, Garzanti, 1995) - "delle tante
incriminazioni dello "stalliere"
di Arcore, nessuna risulta collegata all'avventura del principe
Sant'Agata". Ecco, dunque, la versione di Fracassi e Gambino:
"Il fallito sequestro D'Angerio davanti alla villa di Arcore,
secondo il nostro testimone, avvenne prima dell'assunzione di Mangano,
e anzi ne fu la causa. Secondo questo racconto, Berlusconí
rimase terrorízzato da quell'episodio, probabilmente convinto
che i sequestratori avessero in mente di prendere lui e si fossero
sbagliati. Di certo c'è che, nei giorni successivi a quell'episodio,
Berlusconi partí per la Svizzera con l'amico e collaboratore
Romano Comincioli, la moglie, i due figli e la governante. l'imprenditore
tornò ad Arcore pochi giorni dopo, senza la famiglia [...].
Fu qualche settimana dopo, secondo il racconto del nostro uomo,
che Mangano arrivò alla villa, presentato da Dell'Utri su
segnalazione di Cinà, un altro uomo di rispetto del clan
di Mimmo Teresi e Stefano Bontate. E, stando a questa versione dei
fatti, l'arrivo del boss avrebbe tranquillizzato Berlusconi; e infatti,
di lí a poco, la famiglia fece rientro in Italia".
Quinto. La quarta versione si integra
perfettamente con la cronologia ricostruita dai giornalisti Peter
Gomez e Leo Sisti (l'intoccabile, cit.): il fallito sequestro D'Angerio
avvenne sí nella notte di Sant'Ambrogio, ma non del 1975,
bensí del 1974. Ma l'incastro finisce qui. Perché,
secondo Gomez e Sisti, in quel periodo Mangano era già da
tempo alloggiato in villa, e forse quella sera a tavola con il Cavaliere,
il principe e alcuni amici del Cavaliere (Fedele Confalonieri e
Dell'Utri) c'era seduto anche lui, il "fattore" mafioso.
Le indagini, comunque, lasciarono molto a desiderare, e non appurarono
neppure con certezza l'elenco completo dei commensali. Anche perché
la testimonianza di Berlusconi fu molto reticente: il futuro Cavaliere,
al magistrato che gli chiedeva la lista completa degli invitati,
"dimenticò" addirittura di nominare il suo stalliere
mafioso. Una dimenticanza che lo rende poco credibile quando racconta
di non aver sospettato, allora, chi veramente si era messo in casa.
Il pentito Salvatore Cucuzza, poi, nel 1996 ha sostenuto che il
vero obiettivo del tentato sequestro era Luigi Berlusconi, padre
di Silvio e direttore generale della
Banca Rasini: "Il sequestro era stato ideato da Nino e Gaetano
Grado [due mafiosi siciliani amici di Mangano, Teresi e Bontate,
residenti abitualmente a Milano in quegli anni], assieme a Totuccio
Contorno [guardia del corpo di Bontate e futuro pentito, il secondo
grande pentito dopo Buscetta e Pietro Vernengo [altro boss palermitano].
Mangano doveva fare il basista. Ma quella sera Contorno, che guidava
l'auto con a bordo i sequestratori, ebbe un incidente a causa della
nebbia. Il padre di Berlusconi non venne rapito, ma fu sequestrato
un altro ospite della villa". Il principe di Sant'Agata, appunto,
che però riuscí a fuggire dopo pochi minuti, proprio
grazie all'improvviso incidente.
Le indagini sull'"invíto a cena
con sequestro" non portano praticamente a nulla. Ed è
per puro caso che gli inquirenti scoprono, il 27 dicembre 1974,
che a villa San Martino abita il noto pregiudicato Vittorio Mangano:
grazie al fatto che i carabinieri vanno a prelevarlo chez Silvio,
sotto gli occhi della moglie e delle figlie, per eseguire la condanna
appena subita dal "fattore" di Berlusconi a 10 mesi e
15 giorni di reclusione per truffa. Mangano resterà comunque
in carcere appena tre settimane. Tant'è che il 22 gennaio
1975 è di nuovo a villa San Martino. Dove - rivelano Gomez
e Sisti - "rimane ancora per un mese. Poi, a metà del
1975, quando il suo spessore criminale è ormai evidente anche
agli occhi poco allenati degli investigatori di Milano, spontaneamente
decide di fare le valigie. Una decisione motivata questo è
almeno quanto sosterrà lui con i magistrati da ragioni di
"sensibilítà". Una sensibilità che
evidentemente non hanno avuto né Berlusconi né il
suo segretario Dell'Utri, che si sono ben guardati dal cacciarlo,
anche dopo il suo arresto.
"Un giornale locale - ricorda Mangano
- pubblicò un articolo nel quale venivo descritto come un
soggetto pericoloso collegato con ambienti di mafia. Mi preoccupai
molto, soprattutto per l'immagine del dottor Berlusconi, che rischiava
di uscirne offuscata. Ne parlai quindi con il dottor Dell'Utri,
che mi fissò un appuntamento col
dottor Confaloníeri. Nel colloquio con lui io gli espressi
la mia intenzione di lasciare la villa per lo stato di disagio che
si era creato. Confalonieri mi lasciò libero di decidere
e non mi chiese di andarmene."
Quando però se ne sia andato per davvero,
Mangano, da villa San Martino, non si sa con certezza. Basti pensare
che nel tardo autunno del 1975 fu di nuovo arrestato. E quando fu
scarcerato, il 6 dicembre 1975, elesse domicilio "in Arcore
- via Villa San Martino 42". Una circostanza che Dell'Utri,
smentito dallo stesso Mangano su tutta la linea, non riesce a spiegare
con i giudici: "Mangano continuò comunque a frequentare
Arcore e più precisamente la scuderia, dove teneva a pensione
il suo cavallo, di nome Epoca". Certo, tagliare i ponti con
un personaggio del suo calibro, che aveva respirato per un paio
d'anni l'aria di casa Berlusconi, non era facile. In quei due anni,
aveva goduto di una certa libertà di azione. E, secondo le
rivelazioni di alcuni pentiti, aveva addirittura preso l'abitudine
di ricevere in villa uomini d'onore, alcuni dei quali latitanti.
"Mangano mi spiegò - ha rivelato
Salvatore Cancemi,i già ottimo amico di Mangano - che nella
tenuta di Arcore furono nascosti anche dei latitanti, fra cui i
fratelli Grado, Giuseppe Contorno [soltanto omonimo di Totuccio]
e Francesco Mafara." Anche il medico palermitano Gioacchino
Pennino, ex politico democristiano nonché mafioso doc, che
collabora da anni con la giustizia, ha confermato le accuse: "Gaetano
Zarcone [un avvocato siciliano intimo amico di Bontate] mi spiegò
che Mangano teneva i rapporti con Silvio Berlusconi, visto che faceva
fittiziamente il guardiano in una sua villa vicino a Monza. Li venivano
ospitati tutti i latitanti della famiglia di Santa Maria del Gesú
e forse di altre. A un certo punto però Berlusconí
aveva interrotto questa consuetudine perché qualcuno di questi
ospiti aveva trafugato dalla villa oggetti di valore. Ricordo che
commentando queste vicende lo Zarcone diceva: "Come al solito,
ni facimmu canusciri e schifari" ... ".
Dell'Utri, anziché smentire sdegnato
queste ricostruzioni, fornisce loro a suo modo un certo grado di
credibilità. E' vero, sostiene,
che Mangano riceveva a villa San Martíno un sacco di amici
siciliani, ma lui non sapeva chi fossero e, riservato com'era, non
faceva domande indiscrete: "C'erano molte persone che andavano
a trovarlo... lo ebbi modo di vederne alcune, perché in quel
período trascorrevo molto tempo in villa, visto che Berlusconi
mi aveva incaricato di seguirne la ristrutturazione. Mangano a volte
mi presentava delle persone dicendo che erano dei suoi amici, ma
non mi faceva nessun nome. Non si fanno mai nomi quando si presenta
una persona nel modo di Mangano ... ".
Nulla da stupirsi se poi, nel numero, qualcuno
se ne andava dalla villa con l'argenteria sotto la giacca: "Effettivamente
nel 1974, quando Mangano stava già ad Arcore, furono rubati
quadri e altri oggetti. L'episodio venne regolarmente denunciato".
Tutto sembra combaciare anche con il racconto di un altro collaboratore,
Antonino Galliano, uomo d'onore del clan della Noce, di professione
impiegato di banca ' anch'egli citato da Gomez e Sisti: "Mangano
venne licenziato col consenso di Cosa nostra, perché aveva
finto un furto di quadri per potersi adoperare poi per ritrovarli,
allo scopo di accrescere la propria credibilità agli occhi
di Berlusconi ... ". Nel 1977, a 36 anni, Marcello Dell'Utrí
lascia Berlusconi che - dirà lui stesso (vedi la sua deposizione
al processo di Torino, che pubblichiamo da pagina 182) - lo pagava
troppo poco. E trasloca da Arcore a Milano per andare a lavorare
come dirigente nel gruppo di un siciliano di Sommatino (Caltanissetta)
di 11 anni piú anziano di lui: Filippo Alberto Rapisarda,
uno spregiudicato finanziere amico di molti mafiosi, con alle spalle
vari precedenti penali e persino un arresto. La sua holding, la
Inim, ha sede nello splendido palazzotto di via Chiaravalle 7. E
qui Marcello Dell'Utri e suo fratello gemello Alberto vanno ad abitare.
La paga è buona - il doppio di quel che offre Berlusconi,
allora piuttosto a corto di liquido - e il lavoro è tanto,
visti i capitali che miracolosamente affluiscono nelle scatole cinesi
rapisardiane dalla Sicilia degli "amici".
Il gruppo Iním e la consorella
Raca vengono definiti, in un rapporto della Criminalpol del 1981,
"società commerciali gestite dalla mafia e di cui la
mafia si serve per riciclare il denaro sporco provento di illeciti".
Soci occulti sarebbero Vito Cíancimino, l'ex sindaco - imprenditore
- mafioso dì Palermo, e il suo amico e socio Francesco Paolo
Alamia. A raccomandare Marcello e Alberto all'amíco Rapisarda
presso quella simpatica compagnia di galantuomíni è
il solito Tanino Cinà. Uno che - spiegherà Rapisarda
- "rappresentava il gruppo in odor di mafia facente capo a
Bontate-Teresi-Marchese" e dunque "era difficilissimo
potergli dire di no". Ma l'esperienza dirigenziale dei due
gemelli (Marcello alla Bresciano Costruzioni e Alberto alla Nuova
Venchi Unica) durerà poco, meno di due anni. Sia la Bresciano
che la Venchí finiranno in bancarotta (ovviamente fraudolenta):
Alberto finirà in carcere a Torino, insieme a Rapisarda e
Alamia, mentre Marcello resterà indagato a piede libero,
ma disoccupato. Solo, però, per pochi mesi. Poi, nel 1980,
verrà riassunto dall'amico Silvio. Come dirigente alla Publitalia
80, la neonata concessionaria pubblicitaria dell'impero Fininvest.
E negli anni '80, proprio per quel po' po' di frequentazioni mafiose
o paramafiose, finirà sotto inchiesta per associazione mafiosa.
Un'inchiesta verrà poi archiviata nel 1989 dal giudice milanese
Giorgio Della Lucia (tutt'oggí indagato con l'accusa di essersi
fatto corrompere, in quegli anni, da Rapisarda). Mangano, intanto,
si è messo definitivamente in proprio. Risiede in pieno centro
a Milano, albergo Gran Duca di York. E di li dirige i suoi loschi
traffici. Sempre in contatto con i vecchi amici. Almeno con Marcello
Dell'Utrí. Che, nel 1980, finisce sotto inchiesta del giudice
Della Lucia per concorso in associazione mafiosa. Come pure Mangano,
i cui telefoni vengono intercettati dal 5 al 15 febbraio '80. Dalle
bobine salta fuori che, lungi dall'aver raffreddato i loro rapporti,
l'epilogo delle vicende di Arcore li ha víeppiú riscaldati.
Marcello e Vittorio si danno affettuosamente del tu ("Caro
Marcello", "Caro Vittorio").
Ecco il racconto di quella istruttiva conversazione,
tratto dal rapporto della Criminalpol del 13 aprile 1981: "Mangano
parla cordialmente con tale dottor Dell'Utri e, dopo averlo salutato
cordialmente, gli chiede se ha telefonato Tony Tarantino [uno che
Dell'Utri definirà "uno che faceva affari di vario tipo,
di pìccolo cabotaggío, ma leciti"]. L'interlocutore
risponde affermativamente e aggiunge che Tony Tarantino ha lasciato
detto che avrebbe chiamato il Mangano ìn albergo alle ore
16. Il Mangano riferisce allora a Dell'Utri che ha un affare da
proporgli e che ha anche il "cavallo" [espressione spesso
usata da Mangano per indicare partite di droga, come ricorderà
Paolo Borsellino nell'intervista che pubblichiamo su
questo link] che fa per lui. Dell'Utri sorride e gli risponde
che per il cavallo occorrono i "piccíoli" [cioè
soldi] e lui non ne ha. Mangano non ci crede. Dell'Utri spiega allora
che ha avuto dei problemi. Mangano con tono scherzoso gli dice dì
farsi dare i "piccioli" dal suo amico Silvio. Dell'Utri
risponde che "quello lí 'n' Sura" ["non paga",
oppure - secondo Dell'Utri - "è un santo che suda, che
significa: inutile insistere"] e gli spiega che, per via di
suo fratello, ha dovuto pagare 8 milioni solo per le perizie contabili;
nello stesso tempo lui stesso ha bisogno di soldi per gli avvocati
perché è nel guai, sempre per via "d'u pazzu...
dà " ...
Mangano chiede allora se suo fratello si trovi
sempre a Torino [in carcere]. Dell'Utri risponde che suo fratello
Alberto è sempre a Torino e che spera gli venga tolta la
"camurría" [che si risolva il problema giudiziario],
cosi potrà muoversi e lavorare [...]. La conversazione si
chiude e i due interlocutori fissano un appuntamento [...] in albergo
da Mangano, e cercheranno di "sbrogliare" una situazione".
Interpellato dal pool di Palermo ("Come mai lei nel 1980 continuava
a intrattenere questo tipo di rapporto con Mangano?"), Dell'Utri
risponde con evidente imbarazzo: "Se nella telefonata ho adoperato
un tono amichevole, ciò è stato solo perché
in quel periodo Mangano faceva paura, ero cosciente della sua personalità
criminale. Mi telefonava di tanto in tanto ed io - data la
sua personalità - non potevo non rispondergli Quanto al "cavallo",
Dell'Utri sostiene che "Mangari voleva vendere il cavallo a
Berlusconi, non voleva vederlo a me, anche perché in quel
periodo ero sostanzialmente senza lavoro. Mangano si rivolgeva a
me perchè facessi da intermediario con Berlusconi".
Una versioner che lascia molto perplessa la
Procura di Palermo, visto che "la frase di Mangano concernente
"cavalli" da vendere al Dell'Utri è in altre coeve
intercettazioni utilízzata dal Mangano per riferirsi a partite
di droga. Ma anche da altre prove raccolte da questo Ufficio
viene esai tamente definita la natura dei rapporti fra il Mangano
il Dell'Utri, natura perfettamente corrispondente quanto dichiarato
dal Rapisarda". Il quale Rapisarda as sicura che Dell'Utri
ríciclò al Nord svariati miliardi sporchi per conto
della mafia. Un'accusa, questa, ripetuta da diversi collaboratori
di giustizia. Impossibile, ovvia mente, inseguire tutte le accuse,
i sospetti, le ipotesi in vestigative che sono al centro del processo
che vede im putato Marcello Dell'Utri a Palermo per concorso ester
no in associazione mafiosa (per chi volesse saperne di più,
c'è il libro "L'onore di Dell'Utri", edito da Kaos
nel 1997, che riporta il testo integrale della richiesta di rin.
vio a giudizio della Procura, poi accolta dal gip). Abbiamo lasciato
Mangano e Dell'Utri al telefono, nel 1980, a parlare di "cavalli".
Passa il tempo e cambiano le alleanze (Mangano passa dal clan perdente
della guerra di mafia, quello dei Bontate e degli Inzeríllo,
a quello vincente dei corleonesi). Ma non le amicizie. E cosí,
quando la Procura di Torino fa arrestare Marcello Dell'Utri nel
maggio del '95 per le false fatture di Publítalia, e gli
fa perquisire gli uffici e sequestrare le agende, scopre un appunto
della sua segretaria in data 2 novembre 1993 (quand'era in piena
gestazione il nuovo partito di Forza Italia). Un appunto che dice:
"Mangano Vittorio sarà a Milano per parlare problema
personale". E, nel foglio seguente: "Mangano verso il
30-11".
Interrogato su quelle annotazioni, Dell'Utri
confesserà serafico: "Mangano era solito venirmi ogni
tanto a trovare, prospettandomi questioni
di carattere personale, spesso attinenti a motivi di salute ...".
Un anno e mezzo prima i corleonesi amici di Mangano hanno assassinato
i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, memorie storiche
del pool antimafia di Palermo, che si erano occupati di Mangano
e dei suoi traffici al Nord. Borsellino, nella primavera del '92
lascia la Procura di Marsala (di cui era il capo) per ritornare
in quella di Palermo con i gradi di procuratore aggiunto. E ha appena
preso possesso del nuovo ufficio e ripreso in mano vecchi fascicoli
quando, il 21 maggio 1992, rilascia un'intervista, la sua ultima
intervista televisiva, al giornalista Fabrizio Calvi (pseudonimo
di jeanClaude Zagdoun) e al regista Jean Pierre Moscardo per una
tv francese. Un'íntervista che avrà tante, forse troppe
disavventure.
"Nel 1992 - racconta Calvi ai pm di Palermo
che lo sentono come testimone il 26 aprile 1994 - conducevo una
inchiesta giornalistica con Jean Pierre Moscardo sull'argomento
dei rapporti fra criminalità e finanza in Europa. Per quanto
riguarda l'Italia la nostra attenzione si soffermò in particolare
sull'inchiesta gíudízlarla milanese comunemente nota
come indagine "San Valentino": indagine nel cui ambito
erano emersi i nomi di importanti esponenti della criminalità
organizzata, tra i quali quelli di Bono Giuseppe, Bono Alfredo,
Zaza Michele, ecc. Ci interessavamo di questa inchiesta, poiché
sapevamo che la stessa aveva riguardato anche un episodio francese,
cioè la compravendita del casinò di Beaulieu, in relazione
al quale si era sospettata la ingerenza di personaggi vicini alla
criminalità organizzata. Nel corso di questa inchiesta giornalistica,
a un certo punto, abbiamo appreso che le indagini avevano accertato
l'esistenza di rapporti tra un presunto mafioso, tale Mangano Vittorio
e Dell'Utri Marcello, un uomo che lavorava o aveva lavorato alle
dipendenze dell'imprenditore Silvio Berlusconi. La cosa naturalmente
ci incuriosí, e per questo motivo studiammo piú attentamente
gli atti del processo San Valentíno che erano ormai consultabili
perché pubblici. Per quanto riguardava la personalità
di Mangano Vittorio pensammo di chiedere notizie al dott. Paolo
Borsellino, che io personalmente conoscevo da dieci anni come uno
dei magistrati piú impegnati e piú esperti in materia
di criminalità organizzata di tipo mafioso.
Fu questa l'origine dell'intervista che il
dott. Borsellino accettò di darci, e che fu registrata nella
sua casa di Palermo in via Cilea, il 21-5-1992, due giorni prima
della strage di Capaci, in cui persero la vita il dott. Giovanni
Falcone, la dott. Francesca Morvíllo e gli uomini della loro
scorta [...]. Il dott. Borsellino non disse, fuori dall'intervista,
nulla che io ricordi allo stato come particolarmente rilevante,
all'infuori di una osservazione riguardante A possibile coinvolgimento
del Mangano in sequestri di persona. Il dott. Borsellino disse,
se ricordo bene, che il Mangano "era legato all'Anonima sequestri
insieme a Pietro Vernengo"." L'operazione San Valentino,
scattata a Milano nella notte del 14 febbraio 1983, porta all'arresto
di decine di mafiosi, fra i quali i fratelli Bono, Gaetano Fidanzati,
Vittorio Mangano e Ugo Martello, ma anche al sequestro di conti
correnti bancari, libretti al portatore, titoli di credito, azioni
in capo a personaggi e imprese collusi con la mafia. Alcuni dei
boss colpiti da mandato di cattura risultano correntisti della Banca
Rasini, diretta per anni dal padre di Berlusconi e appartenente
al finanziere Carlo Rasini che aveva concesso i primi crediti e
le prime fidejussíoni al giovane Silvio. L'operazione San
Valentino nasce da un rapporto della Criminalpol di Milano, che
si occupa a lungo dei rapporti fra Dell'Utri e Mangano, definito
"pericolosissimo pregiudicato schedato mafioso, coinvolto,
interessato o cointeressatc in imprese commerciali e finanziarie
con vorticosi volumi d'affari su scala nazionale e internazionale".
L'ope razione riguarda varie città e varie procure d'Italia
Compresa quella di Palermo, dove se ne occupano per sonalmente Falcone
e Borsellino (e molti atti di quel l'indagine confluiranno nel processo
a Dell'Utri, tutt'og gi in corso).
Il 13 settembre 1991 un altro rapporto di polizia,
questa volta del Servizio informazioni droga della Polizia cantonale
di Bellinzona, inviato fra l'altro al procuratore ticinese Carla
Del Ponte, va ben oltre: "Per quanto riguarda il denaro da
ricevere in provenienza dall'Italia, il medesimo apparterrebbe al
clan di Silvio Berlusconi. Già si dispone del codice di chiamata
(per il trasferimento del denaro in Italia): dovranno unicamente
designare una persona di fiducia di tale gruppo. Il nome di Berlusconi
non deve impressionate píú di quel tanto, poiché
anni fa, segnatamente ai tempi della Pizza Connection [la mega?inchiesta,
condotta da Falcone, sugli affari sporchi della mafia turca e siciliana,
e sui loro rapporti con la finanza svizzera e con il maestro venerabile
della loggia P2 Licio Gelli], lo stesso era fortemente indiziato
di essere il capolinea dei soldi ricìclati. All'epoca si
interessava dell'indagine il giudice [Francesco] Di Maggio, che
era stato anche in Ticino per conferire con l'ex procuratore pubblico
on. Dick Marty". Il funzionario della polizia di Bellinzona
che scoprí quel giro di riciclaggio, infiltrato nel giro
del narcotraffico internazionale, è stato intervistato dal
giornalista Giovanni Ruggeri (Gli affari* del Presidente, Milano,
Kaos, 1994). E ha riferito: "Attraverso uno stratagemma sono
entrato in contatto con il finanzìere brasiliano juan Ripoll
Mari, personaggio che in Brasile gode di poderosì appoggì
politici [..] e dispone di quattro società - paravento panamensi
dislocate a Lugano, dove tra l'altro è in contatto con un
avvocato fiduciarìo con funzione di amministratore [...].
L'intenzione di Ripoll Mari era quella di riciclare 300 milioni
di dollari provenienti dalla Francia, dalla Spagna e dall'Italia
[...]. A suo dire il denaro fermo in Italia e da riciclare proveniva
dall'impero finanziario di Silvio Berlusconi, attualmente alle prese
con grosse difficoltà finanziarie ... ".
Il nastro con la registrazione dell'intervista
a Borsellino (registrazione "in presa diretta", senza
tagli né montaggi) scompare per otto anni. Fabrizio Calvi
e il suo regísta affermano che di quel documentario sulla
criminalità e l'alta finanza in
Europa, di cui faceva parte il colloquio con Borsellìno,
non se n'era piú fatto nulla, 1 il venir meno dei finanzíatori.
Improvvisamente la te visione francese aveva perduto l'interesse
a occuparsi quegli argomenti. E tutto il materiale già accumulato
(andato disperso. Ne rimaneva soltanto una traccia sct ta, grazie
alla trascrizione riportata dall'"Espresso" . aprile 1994
(con qualche imprecìsione rìspetto al testo originale),
Senonché, nella primavera del 2000, Rai News 24, canale satellitare
della tv dì Stato, decide preparare un programma speciale
per commemora l'ottavo anniversario delle stragi. Il curatore, SigfridoRanucci,
si rivolge alla famiglia Borsellino, e apprende che Fiammetta, una
delle figlie, conserva una copia della cassetta con l'intervista
del padre. Il documento è talmente eccezionale per le parole
esplicite di un uomo prudente come Borsellino, che il direttore
di Raí News 24 Roberto Morrione lo offre ai telegiornali
e aì príncipali anchormen della Rai, perché
lo trasmettano nel lor programmi di prima o seconda serata, con
l'evidenza che merita. Ma niente da fare: nessuno lo vuole. Così
Morrione decide di preparare uno speciale sul nastro ritrovato,
sia pure in terza serata. E appena in Rai si diffonde la notizia,
accade di tutto. Uno dei difensori c Dell'Utri, avvocato Enzo Trantíno
(deputato di An) chiede alla Procura di Caltanissetta di sequestrare
il nastro e bloccare la trasmìssìone, per "non
intralciare" l'in dagine sui "mandanti a volto coperto"
delle stragi de '92, che vede indagati Dell'Utri e Berlusconì.
Il procuratore Giovanni Tinebra sulle prime accetta, poi però
- di fronte al parere negativo del suo sostituto Luca Tscaroli,
pm dell'indagine - fa marcia indietro. Tescaroli' lascerà
la Procura di Caltanissetta un mese píú tardi, spiegando
che "non ci sono piú le condizioni per lavorare".
E qualche settimana dopo Tinebra chiederà l'archiviazìone
dell'inchiesta sui mandanti occulti.
Il programma con la clamorosa intervista a
Borsellino va in onda, fra mille dìfficoltà e sotterranee
polemiche, alle ore 23 del 19 settembre. L'ora deisonnambuli. In
studio i sostitutí procuratori Luca Tescaroli e Antonio
Ingroía (pupillo di Borsellino, pm a Palermo nel processo
Dell'Utri). Presente, con un'intervista registrata' l'avvocato Tarantino.
In qualunque paese civile, tutto questo susciterebbe dibattiti accesi
e approfonditi. Invece in Italia passa sotto silenzio. Sia prima
che dopo la trasmissione. A parte una tragicomica campagna del "Giornale"
di Berlusconi, che accusa la Rai di avere niente meno che "manipolato"
le parole di Borsellino. Manca poco che il povero giudice venga
querelato post mortem. A futura memoria.
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