RAFFAELE CORSO: Scritti di Raffaele Corso      (2)

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                                Da: CALABRIA LETTERARIA, a. III, n. 6 (fasc.31), 1955

L’arte popolare in Calabria

  Col nome di arte popolare o popolaresca ordinariamente si designa un complesso di prodotti e di estrinsecazioni, che per alcuni rappresentano concetti e forme dell’arte primitiva, infantile o selvaggia; per altri documenti della degenerazione o della decadenza dell’arte nobile, aulica, culta. Per i primi, nel continuo contatto con la natura, l’uomo dei campi, il terrigno bifolco o il villoso pastore sarebbero portati a ritrarre con fedeltà ingenua stati di vita e stati di animo, figure di esseri e orme di cose, e ad imprimere al disegno, alla scultura, alla decorazione caratteri rispondenti alla bellezza vera, il cui mio vibrare della vita spirituale e il vibrare della vita esteriore si fondono in un insieme, per trasfondersi poi, in ritmi agili, gai, spontanei. Per quanto rozza la morfologia di questa arte, altrettanto profonda è l’idea, che risente dell’impulso, dell’emozione, o meglio della  commozione.  Per i secondi, pur volendo imitare o riprodurre o modelli dell’arte culta,  l’uomo del popolo non fa che contraffare e, talvolta, goffamente, le figure, le sculture le incisioni di quella. La sua non è, quindi, arte, ma una degenerazione di essa come il  suo canto non è  il soffio lirico spontaneo, ma il rifacimento di strambotti e di  stornelli composti in varie epoche da poeti più o meno noti.

   L’Ojetti, l’Artata, il Maraini, lo Jahier ed altri  si sono fatti assertori di questo concetto, che se può essere ammesso per una parte e per una piccolissima parte dell’arte rustica, e soprattutto per i prodotti  artigianeschi, dev’essere rigettato per quanto concerne l’arte del pastore, il solitario della montagna, che conosce di ogni animale gli istinti e i costumi, di ogni rupe la leggenda, di ogni santo i miracoli. Il nomade  lavoratore, più che imitare o riprodurre le iconografie sacre e civili dei templi e dei palazzi dei signori, le stampe devozionali e commemorative, trasfonde nell’opera la reminiscenza di ciò che ha udito, i ricordi di quanto ha osservato nella vita e nella natura, trasformati dalla propria fantasia, che l’idealizza e li colora.

         Questo fatto è manifesto nelle rappresentazioni di scene mitologiche, di mostri favolosi, di grifoni e di centauri; cose ed  esseri

che il pastore non ha mai potuto vedere, ma ha immaginato e disegnato sotto l’impressione dei racconti e delle fiabe narratigli nelle lunghe sere d’inverno, accanto al ceppo fiammeggiante, dalla madre o dalla nonna

         Difatti, l’elemento leggendario delle piccole sculture e dei bassorilievi, che  decorano migliaia di utensili da caccia e da lavoro, di legno, di corno, di cuoio, di canna, di zucca, è quello dei racconti che, dal punto di vista religioso, ora hanno carattere pagano, ed ora cristiano; e dal punto di vista storico, si riportano al medioevo o ad un’epoca di eroismo. Le figure di prelati mitrati,          reggenti la Croce o il bàcolo; le immagini dei santi in atto di compiere benedizioni e miracoli, di debellare la «mala bestia»,  sono frequenti nell’arte sarda, quanto quelle dei cavalieri armati di spada e lancia.

         A differenza della produzione sarda, quella calabrese ed abbruzzese non rivelano le persistenti concezioni medievali. In esse  i prelati ed i cavalieri lasciano il posto alle figure di madonne e di taumaturghi meno  ieraticamente rappresentati, meno rigidamente e più umanamente ritratti.  Quando l’artefice stacca lo sguardo dalla visione leggendaria, nella quale fermamente crede,  e pensa alla casa e alla famiglia,  nuovi elementi entrano a comporre la rappresentazione; la sposa,  e tutti i simboli di cui essa è oggetto, l’amore nutrito e germogliato, il mistico legame, che forma il «magnum  sacramentum», l’idea  della convivenza serena,  dell’avvenire prosperoso, della felice figliolanza. Nella Sardegna, ove più è sentita l’autorità paterna,  sugli utensili donneschi si vede incisa  o scolpita la figura di una specie di «Paterfamilias» in atto di proteggere la donna e il focolare; mentre nella Calabria, quando non è una figura muliebre con le mani addossate ai fianchi o strette alla cintola, simbolo delle virtù casalinghe compendiate nel motto:

 

Faci ‘a lana,

Curri ‘a campagna,

Ed è donna guardiana;

 

è quella di una coppia di sposi, che fanno il «toccamano» o si scambiano un fiore o un ramoscello. Concezione questa meno grave e certamente più leggiadra di quella sarda. Altre volte le rappresentazioni grafiche traggono l’ispirazione dalle allegorie e dalle metafore degli stornelli, dei «fiori»,  degli «strambotti», delle «leggende»; anzi  pare che la cosiddetta letteratura popolare alimenti il fiorire dell’idea estetica. I differenti simboli figurati, con cui il pastore suole esprimere i sentimenti amorosi, e cioè il cuore trafitto, ovvero i due cuori congiunti, i due cuori dagli apici convergenti, i due cuori annodati e chiusi con una chiavetta, hanno gli equivalenti nei canti e negli strambotti, che il pastore e il contadino sogliono cantare, a notte alta, sull’uscio dell’amata, o nei campi, tra i vigneti in germoglio, le messi verdeggianti, o negli ozi guardinghi delle solitudini montane:

 

Cu ‘na catina d’oru m’ha’ ligatu,

Moru chidd’ura chinun viju a tia.

Chiavuzza di stum petti ferma, ferma.

Siti la catineja di lu cori.

 

Il parallelismo tra le immagini dei canti e le rappresentazioni grafiche popolari, dimostra che l’una e l’altra forma di arte sono governate da un processo, quasi da un solo ritmo.  E non a torto Adolfo De Carolis pensa che il ritmo del canto influisca sul ritmo gliptico, specialmente nel disegno, nella tessitura, perché in questa, meglio che in ogni altra forma artistica, l’armonia dei battenti del telaio, del pettine e della spola si accordano in un solo concento. La tessitura è, quasi,, un rito religioso. La donna si sena e prega; indi prende la spola e canta. Quasi lo stesso facevano i pittori meridionali prima di prendere il pennello a ritrarre l’effigie divina; anzi, i più fervidi credenti tra di essi, si comunicavano. Tra il ritmico battere del pettine e le ritmiche cadenze della voce, la tela si svolge; è una cosa bella a vedere, una meraviglia. Gli occhi, fissandosi sulla trama, rimangono incantati. Nell’umile lavoro è l’anima della tessitrice, la quale prepara per sé, se giovanetta, o per la figlia, se è madre, la coperta nuziale. Ispirandosi alle tradizioni sposalizie, ella rappresenta nei disegni e negli ornati i simboli più vaghi, le allegorie più liete. La coperta deve essere, sia per la combinazione dei colori, sia per il disegno della scena, un quadro, una visione dolcissima, che elevi i pensieri e infonda  la gioia nello spirito.  Nel territorio di Pescocostanzo e in quasi tutta la valle del Sangro è in voga il disegno della «Fontana di Amore», ove si vedono, tra gli alberi e i fiori,  uccelletti e cagnolini in atto di dissetarsi; in più luoghi della Sardegna il disegno preferito è quello del corteo nuziale. Figure di uomini nel tradizionale costume isolano, armati di fucile, cavalcano agili cavalli, portando in groppa la donna,  secondo l’uso dei Sardi. Nellom scompartimento centrale della coperta, talvolta, è rappresentata una specie di impresa araldica con animali mitologici (in essa è evidente lo scopo fasciunifugo); tal’altro l’«Albero della Vita», alto, dal tronco massiccio, dalla forma di piramide. Sotto a questa, ai lati del tronco, i due sposi si scambiano il ramoscello della fede, il ramo dell’oliva, di cui è ricordo nei canti popolari.

Le scene di caccia sono comuni nei tappeti rustici e nelle bisacce della Sardegna e della Calabria, nelle coperte di  Longobucco,  un villaggio della Sila, e in quelle di Santa Giusta, nel Campidano. Il daino dalle rigide forme, quasi geometriche,  dell’Isola di Sardegna, e sostituito, nei tessuti calabresi, dall’agile cerviatta artisticamente stilizzato.

         I disegni principali, che occupano il fondo centrale e che debbono rilevare all’osservatore il carattere dell’oggetto, sono chiusi o circondati da un vario intreccio foliaceo e floreale, che, in forma di tralcio o di ghirlanda, si svolge intorno, intorno, non di rado accompagnato da animali simbolici,, come uccelli e cani, o da animali araldici, come leoni ed aquile.  Le foglie e i fiori, che sono indispensabili nell’amore e nelle nozze e che adornano gli sposi presso l’altare e nel convito e un tempo coprivano il talamo nel momento in cui il sacerdote impartiva su di esso la benedizione nuziale,  non possono non mostrare i loro auspicali, giocondi segni nelle coperte destinate a far parte del corredo. Il quadro tessuto deve essere completo; esso deve dare una idea della cerimonia piùà bella, che unisce due anime e ne fa un’anima sola, un solo cuore.

         Come le antiche genti, che non concepivano il bello se non attraverso i colori più accesi,  così le popolane godono di circondare la propria dimora e di coprire il sacro talamo di note di colori vibranti, che siano come tanti sprazzi luminosi nella remota casa villereccia.

         Quasi dappertutto, per la preparazione dei colori, si adoperano la raggia di botte o la vinaccia per il rosso, le foglie del frassino per il verde, lo  zafferano o la terra di montagna per il giallo, l’indaco per il turchino. Ogni colore, poi, ha uno speciale significato, e la loro combinazione nella tessitura non ubbidisce soltanto a una regola cromatica, ma ad un principio ideale come nel velo del tempio di Gerusalemme che, secondo la tradizione, era intessuto con fili bianchi e purpurei, azzurri e scarlatti, che stavano a rappresentare la terra, il mare, il cielo e il fuoco.

         Il fondo delle coperte può essere di colore rosso acceso, giallastro, turchino, e su di esso risaltano arabeschi di color marrone. I piccoli, tenui fregi che chiudono le composizioni centrali, sono basati su tre colori: il rosso, il blu, il verde. A dare maggiore risalto al lavoro, il disegno può essere a “punto rialzo” o “a soprariccio”; e a dare miglior vaghezza, può essere più o meno stilizzato geometricamente, a “scacchiera”, o ad “occhio di pernice”, a “stella”, ovvero a “uccellato”.

         Questo ultimo motivo è molto antico; pare importato dai tessitori saraceni nella Calabria,, col nome di “uccellato arabo” tanto che serve ad indicare i tessuti bianco-azzurri, molto diffusi nell’Umbria e che si vedono nella “Cene” del Chirlandaio e del Lorenzetti.

 

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