|
IL NEWSGROUP |
|
LA CITTA' |
|
LE
ISTITUZIONI |
|
|
|
|
Maurizio
Maggiani |
a cura di Sciac |
|
Oggi
fa un freddo cane, ma la città quando la prende la
tramontana è splendida e io mi paralizzo nel
contemplarla sospendendo ogni giudizio. Nelle sue
strade dritte, esposte secche a levante a traguardare
il mare, il sole ci nasce dentro, le penetra e le
intontisce, eccitato com'è ne stilla la brina
notturna in un ferro di luce da criminale. Alle nove
la città non ha più una fine vera ma corre diritta
oltre i filari di palme del lungomare e si squaglia
nello stagno di acqua verde delle darsene che manco a
farlo apposta si mettono a splendere riflessi di
bagliori fin sulle Apuane. |
|
|
La Spezia, questa mia città |
|
Ci sono arrivato da transfuga in questa città: principe degli orti e
dei bozzi di Val di Magra decaduto a proletario inurbato. Ricordo il
trasloco, o forse ricordo il sogno di quel trasloco, perché l'immagine è
come di un film di quegli anni cinquanta: un camioncino 1100, la roba sul
cassone legata con le funi, io, mia madre e mia sorella nella cabina con l'
autista. L'autista che puzzava di sudore dal cappello di paglia, mio padre
che aspettava in una casa vuota. Le persiane di quella casa abbassate, ma
tra le stecche il riverbero del selciato di una piazza.
E io che sbirciavo e avevo paura della vastità nuda di quella piazza.
E la piazza che si riempie di una musica che non avevo mai sentito, e mio
padre che apre le persiane, e la musica riempie tutto, anche la mia paura, e
la solitudine della casa, e l'abbandono. Passa la serenata. Sì, passava la
serenata a consolare le domeniche in piazza Garibaldi, passava a consolare
la città intera la fanfara militare, e accecava di bellezza e di orgoglio,
bianca e dorata com'era.
Passava la mattina e tornava la notte. La notte raccoglieva i marinai che si erano persi per le vie degli incerti piaceri di ragazzi più soli di
me. "Imm'e a cuccà, guagliò" esortava il pacato maresciallo, e i ragazzi si
mettevano in fila dietro la musica lisciandosi i solini. La città si
spegneva con il trillo dell'ultimo danno sulla porta del Duca degli Abruzzi.
E così sono cresciuto in piazza Garibaldi, frontiera a mare della città
operaia.
E ogni mattina, mentre io me ne andavo a scuola, gli operai sciamavano dal quartiere Umberto sulle loro biciclette nere, la gamella legata alla
canna, il giornale infilato nel gibbonetto verde, il berretto di lana in
testa, le mani nei guanti. Mani fini, che andavano protette e curate; mani
da congegnatori, tornitori, aggiustatori. Mani di creatori. Vedevo quelle
mani nei giorni di festa, aprire con un temperino invisibile le valve dei
muscoli al banchetto in mezzo alla piazza. Dodici muscoli, un bicchiere di
bianco.
Vedevo quelle mani, tra un muscolo e l'altro, disegnare nell'aria il complicato congegno della futura umanità; ascoltavo tra le pieghe del
cappotto di mio padre, una mano stretta alla martingala - io sono di lui -
progetti di redenzione sociale, piani di fattibilità per razzi
interstellari, preoccupate analisi calcistiche. Mentre mia madre, su in casa
stava perdendo la vista per rifinire a puntino le casacche della squadra di
calcio della città. Ma io tifavo per l'Arsenal Spezia.
Sono cresciuto in questa città camminando a bocca aperta lungo i viali di platani per respirare a primavera la neve di semi piumati, per sentirmi
in un piccolo sogno, per valicare in quel sogno, l'elegante muraglia oltre i
canali e scegliere tra le navi addormentate quella abbastanza bella per
partire. E crescevo andando a vedere di là dal filo spinato della piazza d'
armi i marines americani trastullarsi con una palla da baseball, mentre le
tre giovani "spigliate" della città, tutte e tre accatastate al registro
della pubblica perdizione, tutte e tre ossigenate da far impazzire, tenevano
al caldo delle mani lattine di birra.
La birra che non c'era nei bar, quella di contrabbando che i barcaioli vendevano ai giovinastri; le ragazze del peccato, l'ambito peccato con cui
io non ho mai avuto la pur minima possibilità di tingere la mia tremula
anima. Sono cresciuto avendo nell'orecchio, come una nostalgia cronica, il
basso eterno regolarissimo respiro unisono delle fabbriche delle navi, il
pane della città. Che ancora oggi si sente quella specie di sordo cuore -
non è un'illusione - oggi che sono finite fabbriche, bellezza e pane. Quella
bellezza.
Perché sono cresciuto, sì, ma alla fine sono rimasto. Sono rimasto perché le
navi per partire si sono tutte quante dileguate oltre l'orizzonte
dei miei piccoli sogni. E sono rimasto, però, perché sto ancora cercando la
bellezza. E la trovo. Ogni giorno che Iddio manda in terra salgo la collina
e me la sto a guardare. La guardo e so che c'è bellezza anche nelle offese.
La ascolto e sento che respira. E nel suo respiro c'è dolcezza. E forse
parla, e prima o poi imparerò la sua lingua. Quella nuova che da qualche
parte qualcuno sta sillabando. Quella vecchia intanto mi bisbiglia all'
orecchio: passa la serenata. |
|
|
|
I NOSTRI FORUM
|
|
METEO LIGURIA |
|
RICERCA
|
|
OPEN SOURCE
|
|
LINKS UTILI
|
|
SERVIZI UTILI |
|
|
SITI GEMELLATI |
|
|
|