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Cancellare la Povertà

Di Jeffrey D. Sarks - libera riduzione ed adattamento

La maggior parte degli esseri umani è stata quasi sempre poverissima. Per millenni e millenni, carestie, mortalità infantile, malattie infettive e innumerevoli altre disgrazie sono state la norma. L'umanità cominciò a cambiare solo intorno al 1750, con la Rivoluzione Industriale, quando nuove conoscenze scientifiche e tecnologiche permisero a una parte sempre più ampia della popolazione di liberarsi dalla povertà.

Due secoli e mezzo più tardi, oltre cinque dei 6, 5 miliardi di persone che vivono sul pianeta sono in grado di soddisfare i propri bisogni fondamentali, non più schiavi di un'esistenza in condizioni precarie. Eppure ancora oggi un essere umano su sei deve lottare quotidianamente per procurarsi tutte, o alcune, delle necessità primarie, quali un'alimentazione adeguata, acqua potabile non contaminata, un'abitazione sicura, servizi igienici e assistenza medica di base. Queste persone vivono con un dollaro al giorno, a volte meno, e sono tagliate fuori dai servizi pubblici per la sanità, l'istruzione e le infrastrutture. Ogni giorno, più di 20.000 persone muoiono a causa della povertà: per mancanza di cibo, acqua potabile, medicine o altre necessità essenziali.

Per la prima volta nella storia, nei primi anni 2000. la prosperità economica globale generata da un continuo progresso scientifico e tecnologico e da una continua accumulazione di ricchezza, offre al mondo la possibilità di eliminare del tutto la povertà estrema. La sorprendente crescita economica verificatasi negli ultimi 25 anni in Cina, in India e in altri paesi a basso reddito del continente asiatico dimostra che si tratta di una possibilità reale. Inoltre, la stabilizzazione della popolazione mondiale prevista a metà di questo secolo dovrebbe contribuire ad alleggerire la pressione sul clima, gli ecosistemi e le risorse naturali del pianeta, pressione che altrimenti potrebbe vanificare tutti gli attuali progressi economici.

Ma benché la crescita economica si sia dimostrata in grado di aiutare grandi masse di persone a uscire dalla morsa della povertà, i progressi in questo senso non sono né automatici né sicuri. Le forze di mercato e i liberi scambi da soli non bastano. Molte delle regioni più povere sono prigioniere di un circolo vizioso, perché non hanno i mezzi finanziari per compiere i necessari investimenti in infrastrutture, istruzione, sistema sanitario e altri interventi essenziali.

Tuttavia, la fine di questo tipo di povertà è possibile se viene affrontata con uno sforzo comune a livello globale, come molti paesi di tutto il mondo si sono impegnati a fare nel 2000 al Millennium. Summit delle Nazioni Unite, durante il quale sono stati stabiliti gli Obiettivi di sviluppo del millennio Millennium Development Goals, MDG). Nei paesi in via di sviluppo esiste già un network di istituzioni finanziarie internazionali, agenzie per lo sviluppo, organizzazioni non governative e comunità locali in grado di offrire le competenze e l'impegno necessari a raggiungere questi obiettivi.

Una nuova visione dell'economia

Nei paesi ricchi si attribuisce spesso la colpa della povertà estrema ai poveri stessi, o almeno ai loro governi. Un tempo, la razza era ritenuta il fattore decisivo. Poi lo è diventato la cultura: divisioni religiose e tabù, divisione in caste, mancanza di spirito imprenditoriale, discriminazioni sessuali. Queste tesi sono state superate via via che religioni e culture di ogni tipo hanno raggiunto una relativa prosperità. In particolare, aspetti culturali che un tempo erano ritenuti immutabili (come la fertilità, i ruoli sessuali o quelli di casta) in realtà cambiano, spesso drasticamente, quando le società si urbanizzano e si sviluppano economicamente.

Molto recentemente, gli esperti si sono concentrati sulla «cattiva capacità di govemo», espressione spesso usata per intendere la corruzione. Gli specialisti sostengono che la povertà estrema persiste perché alcuni governi non si aprono al mercato, non forniscono servizi pubblici e non combattono la corruzione, e che anche quei regimi potrebbero prosperare se solo si dessero una ripulita. Così, l'assistenza allo sviluppo si è in gran parte tradotta in una serie di lezioni sul buon governo.

Oggi però la disponibilità di dati storici incrociati tra più paesi consente analisi molto più sistematiche. Benché il dibattito continui, i fatti dimostrano che la qualità dell'amministrazione conta, ma non è l'unico fattore che determina la crescita economica. Secondo indagini  i leader del mondo degli affari pensano che molti dei paesi asiatici in rapida crescita siano più corrotti di alcuni paesi africani a crescita lenta.

La geografia, ossia le risorse naturali, il clima, la topografia e la vicinanza alle rotte commerciali e ai grandi mercati, ha un ruolo importante almeno quanto il buon governo. Già nel 1776, Adam Smith affermava che un alto costo dei trasporti inibiva lo sviluppo delle regioni interne dell'Africa e dell'Asia. A pesare sono anche altri fattori geografici, come la forte incidenza di malattie tipica dei Tropici. Un recente studio di Xavier Sala Martiri, della Columbia University, dimostra ancora una volta che nei paesi tropicali con una forte incidenza di malaria la crescita è più lenta rispetto a quelli dove la malattia è assente. Fortunatamente, i fattori geografici non decidono il destino economico di un paese, ma si limitano a dargli un'impronta. La tecnologia può combatterli: la siccità può essere combattuta con sistemi di irrigazione, l'isolamento con strade e telefoni cellulari, le malattie con misure preventive e terapeutiche

L'altro importante dato da considerare è che, sebbene il modo migliore per ridurre la povertà estrema sia favorire la crescita economica globale, un aumento della ricchezza complessiva non significa necessariamente benefici per tutti. Se il reddito medio aumenta ma non è distribuito in modo omogeneo, i poveri non ne traggono alcun vantaggio, e rimangono sacche di povertà estrema, soprattutto nelle regioni geograficamente svantaggiate. Inoltre, la crescita non è determinata unicamente dal libero mercato. Ha bisogno di servizi pubblici di base: infrastrutture, sanità, istruzione e innovazione scientifica e tecnologica. La spesa pubblica diretta a investimenti in settori critici è di per sé un incentivo fondamentale alla crescita, specialmente se riesce a raggiungere i più poveri tra i poveri.

La trappola della povertà

I fattori geografici sono stati determinanti, a cominciare dall'Himalaya, responsabile del clima monsonico e dell'ampio sistema fluviale dell'Asia meridionale. La buona irrigazione dei terreni agricoli è stata il trampolino di lancio della rapida eliminazione della povertà estrema dall'Asia. La Rivoluzione Verde degli anni sessanta e settanta ha favorito l'introduzione di cereali ad alta resa, di sistemi di irrigazione e di fertilizzanti che hanno messo fine al circolo vizioso di carestie, malattie e disperazione.

Questo ha anche permesso a una parte consistente della forza lavoro di trovare occupazione nelle industrie delle città. L'urbanizzazione ha a sua volta favorito la crescita, non solo permettendo all'industria e alla ricerca di trovare luoghi in cui installarsi, ma anche incentivando gli investimenti a favore di una forza lavoro sana e specializzata. Chi vive in città fa meno figli, e perciò è in grado di spendere di più per la salute, l'alimentazione e l'istruzione di ogni figlio: il tasso di scolarità nei centri urbani è più alto che nelle campagne. Con la comparsa di infrastrutture e sistemi sanitari pubblici, chi vive in città si ammala meno degli abitanti delle aree rurali, dove in genere mancano acqua potabile sicura, servizi igienici, assistenza sanitaria professionale e protezione da malattie.

In Africa non c'è stata nessuna Rivoluzione Verde. La fascia tropicale del continente non ha le grandi pianure alluvionali che in Asia facilitano l'irrigazione su vasta scala e a basso costo. Inoltre le precipitazioni sono molto variabili.
Oltre ai problemi del settore agricolo, l'Africa paga anche il prezzo di un'altissima incidenza di malattie tropicali. A causa del clima e delle specie endemiche di zanzara, la malaria è più diffusa in Africa che in qualunque altro luogo. A questo si aggiunge l'isolamento economico dovuto all'alto costo dei trasporti. Nell'Africa orientale, per esempio, piove di più nelle aree interne, e quindi la maggior parte della popolazione vive in quelle zone, lontano dai porti e dalle rotte del commercio internazionale.

La situazione si ripete quasi identica in altre zone povere del pianeta, come le aree montuose dell'America centrale e delle regioni andine, e gli Stati del l'Asia centrale senza sbocchi sul mare. Isolati economicamente, questi paesi non riescono ad attrarre investimenti dall'estero (eccetto quelli per l'estrazione di petrolio, gas e metalli preziosi) a causa dell'alto costo dei trasporti nelle regioni interne. Le aree rurali rimangono quindi intrappolate in un circolo vizioso di povertà, fame, malattia e analfabetismo. Le zone povere non hanno risorse finanziarie sufficienti per compiere i necessari investimenti, perché quasi tutte le famiglie vivono alla giornata.

Portare soldi dove ci sono bocche da sfamare

La tecnologia per superare questi ostacoli e innescare lo sviluppo economico c'è. La malaria può essere tenuta sotto controllo usando le zanzariere, disinfestando le abitazioni e ricorrendo a farmaci più efficaci. I paesi africani più soggetti alla siccità, i cui terreni sono ormai impoveriti, trarrebbero grande giovamento dai sistemi di irrigazione a goccia e da un più largo impiego di fertilizzanti. L'isolamento geografico di molti paesi può essere superato con strade asfaltate, aeroporti e cavi a fibre ottiche. Ma t tutti questi progetti costano denaro.

Nei paesi molto grandi, come la Cina, le regioni più prospere possono aiutare le più svantaggiate. La costa della Cina orientale, per esempio, oggi finanzia enormi interventi pubblici nella parte occidentale del paese. La maggior parte dei paesi che oggi stanno raggiungendo un buon grado di sviluppo ha ricevuto almeno una volta degli aiuti dall'estero, nei momenti di difficoltà.

Un elenco degli investimenti necessari per aiutare le regioni più povere a coprire i costi di servizi essenziali come sanità, istruzione, acqua, igiene pubblica, produzione alimentare o strade. Abbiamo calcolato un prezzo approssimativo di questi interventi, e stimato quanto di esso potrà essere sostenuto dalle famiglie povere e dalle istituzioni nazionali. Ciò che resta è il «gap finanziario che dovrà essere coperto
 

dalle donazioni internazionali. Per l'Africa tropicale, l'investimento totale è di 110 dollari a persona all'anno. Per dare un senso a questa cifra, si pensi che il reddito medio in questa parte del continente è di 350 dollari all'anno, quasi tutti destinati solo alla sopravvivenza. Il costo totale non può quindi essere sostenuto interamente da questi paesi. Dei 110 dollari pro capite, forse 40 potranno venire da finanziamenti interni, ma gli altri 70 dovranno arrivare sotto forma di aiuti internazionali.

Facendo una somma complessiva, la spesa globale per l'assistenza sarebbe di circa 160 miliardi di dollari all'anno, ossia il doppio di quanto i paesi ricchi stanziano oggi in aiuti ai paesi poveri. Questa cifra corrisponde allo 0,5 per cento circa del totale dei prodotti nazionali lordi (PNL) delle nazioni donatrici. In essa non sono incluse altre misure umanitarie come la ricostruzione postbellica dell'Iraq o gli aiuti alle vittime dello tsunami nell'Oceano Indiano Per coprire anche questi costi, la cifra dovrebbe probabilmente essere portata allo 0,7 per cento del PNL, vale a dire quanto tutte le nazioni hanno da tempo promesso di donare, ma finora solo poche hanno effettivamente versato. Altre organizzazioni, tra cui il Fondo monetario internazionale, la Banca Mondiale e il governo britannico sono arrivate alle nostre stesse conclusioni.

Noi crediamo che questi investimenti consentirebbero ai paesi più poveri di dimezzare la povertà entro il 2015 e, se venissero portati avanti, di eliminarla del tutto entro il 2025. Non si tratterebbe di «assistenzialismo» dei ricchi verso i poveri, ma di un'azione ben più importante e duratura. Chi ha un tenore di vita superiore alla semplice sussistenza è in grado di risparmiare per il futuro, e può perciò unirsi al circolo virtuoso dell'aumento dei redditi, dei risparmi e della crescita tecnologica. Non si tratta di beneficenza, ma di un aiuto alla crescita. Se le nazioni ricche non faranno questi investimenti, saranno chiamate a risolvere le emergenze dei paesi poveri a tempo indeterminato. Dovranno affrontare carestie, epidemie, conflitti locali e la nascita di nuovi focolai di terrorismo, condannando non solo i paesi più poveri, ma anche se stesse a un'instabilità politica cronica, con frequenti emergenze umanitarie e continui rischi per la sicurezza.

Una gestione corretta e mirata

Ora il dibattito si sta spostando dalla diagnosi della povertà estrema e dal calcolo dei finanziamenti alla questione più pratica di come vadano gestiti questi aiuti. Molti pensano che in passato gli aiuti non abbiano raggiunto l'obiettivo e che occorra prestare attenzione perché l'errore non si ripeta. Alcuni di questi timori sono giustificati, ma altri sono dovuti a una visione distorta. Dai sondaggi risulta, per esempio, che gli americani sovrastímano fino a 30 volte la cifra realmente versata dagli Stati Uniti in aiuti internazionali. Convinti che sia stato donato molto denaro, e con scarsi risultati, i cittadini statunitensi pensano che i programmi abbiano «fallito». Ma la realtà è diversa. Gli aiuti forniti dagli Stati Uniti all'Africa subsahariana hanno oscillato tra i 2 e i 4 miliardi di dollari all'anno, ossia tra i 3 e i 6 dollari per ogni africano. La maggior parte di questi aiuti è stata destinata a cooperazione tecnica (finita nelle tasche dei consulenti), aiuti alimentari alle vittime delle carestie e cancellazione dei debiti. t poco il denaro arrivato in forme che potessero essere investite in sistemi per migliorare la sanità, l'alimentazione e i trasporti. Prima di decidere se funzionano o no, dovremmo dare agli aiuti internazionali una vera opportunità di dimostrare la loro efficacia.

Un'analoga distorsione della realtà si incontra quando si affronta il tema della corruzione. In passato, alcuni aiuti sono effettivamente finiti nelle tasche sbagliate, ma questo si è verificato quando sono stati concessi per ragioni politiche e non per favorire lo sviluppo; un esempio è il sostegno americano al regime corrotto di Mobutu Sese Seko in Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo) durante la guerra fredda. Ma quando gli aiuti sono stati destinati davvero allo sviluppo, e non a obiettivi politici, i risultati sono stati positivi: dalla Rivoluzione Verde all'eliminazione dei vaiolo, fino alla recente lotta alla poliomielite. Il pacchetto di aiuti che proponiamo sarebbe diretto ai paesi con un'accettabile capacità di governo e di trasparenza. In Africa, paesi di questo tipo sono l'Etiopia, il Ghan a, il Mali, il Mozambico, il Senegal, la Tanzania. Il denaro non andrebbe semplicemente donato, ma concesso secondo un piano dettagliato e monitorato, e i finanziamenti sarebbero rinnovati solo in seguito al raggiungimento degli obiettivi. Molti dei fondi sarebbero distribuiti direttamente a villaggi e piccoli centri urbani, per minimizzare il rischio che siano usati per altri scopi dai governi centrali. E tutti questi programmi sarebbero soggetti a un attento controllo contabile. La società occidentale tende a pensare agli aiuti internazionali come a soldi buttati. In realtà, se distribuiti correttamente, sono un investimento che porterà ampi guadagni, come è accaduto agli aiuti forniti dagli Stati Uniti all'Europa occidentale e al Giappone dopo la seconda guerra mondiale. Raggiungendo la prosperità economica, i paesi poveri potranno liberarsi della dipendenza dalla carità. Contribuiranno allo sviluppo internazionale della scienza, della tecnologia e dei commercio. Usciranno dall'instabilità politica, che espone molti di loro alla violenza, al narcotraffico, alle guerre civili e persino al controllo da parte dei terroristi. Anche la nostra sicurezza ne sarà migliorata. Come ha scritto il segretario generale dell'ONU Kofi Annan: «Non ci sarà sviluppo senza sicurezza né sicurezza senza sviluppo».

 

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Ultimo aggiornamento: 25-11-05