interventi
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26
gennaio 2002
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Con l'approvazione della Legge Lunardi (Legge 21 Dicembre 2001, n. 443 - Delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici ed altri interventi per il rilancio delle attività produttive), ci sono serie probabilità che le aggressioni all'ambiente rimangano impunite. Vediamo di sviscerare la questione e spiegarne i motivi. Come molti degli addetti ai lavori sanno i comma 17, 18 e 19 dell'articolo unico del testo approvato dalle Camere sono stati introdotti con un maxi-emendamento dal Governo quando la discussione sul progetto di legge era già in stadio avanzato e, soprattutto, all'indomani delle notizie riguardanti i sequestri dei cantieri toscani della TAV per violazione delle norme in materia di smaltimento rifiuti e altre ipotesi di reato legate al depauperamento delle sorgenti idriche. Su tutta la vicenda abbiamo dedicato un approfondimento che potete leggere cliccando sul testo dell'intervento - Cantieri TAV: l'audizione dei Ministri Lunardi e Matteoli.
Sulla scelta del legislatore di cambiare le regole a procedimento penale iniziato i commenti negativi sono stati numerosi e anche lo scrivente non può che associarsi allo sconcerto e alla riprovazione circa i metodi poco ortodossi che si utilizzano per risolvere le vertenze giudiziarie e, diciamo così, i problemi della magistratura. Ma con questi metodi si dovrà continuare a fare i conti per un po’, si presume, e quindi non serve la condanna generica, ma la riflessione condivisa sulle conseguenze di questi atti.
Veniamo quindi al nocciolo del problema. Il primo nodo che si doveva affrontare per togliere qualche arma ai pubblici ministeri che hanno aperto il fascicolo a carico del consorzio che ha avuto in appalto i lavori di costruzione delle gallerie nel tratto toscano, il Cavet, era l'applicabilità della normativa rifiuti alle terre e rocce di scavo. Come abbiamo già avuto occasione di dire l'intenso dibattito sulla nozione di rifiuto è destinato a non aver mai fine a causa in particolare della "opinabilità" sul significato dei termini "si disfa" e "intenzione di disfarsi". E' perfettamente inutile riprodurre tutte le varie tesi a confronto anche perché la discussione è molto spostata sul piano dottrinale, rimane spesso al mero livello speculativo. Non è quindi di nessun aiuto al tecnico che deve prendere decisioni "in giornata".
In questo caso, come anche in altri già registrati (vedi l'esempio del recupero in conto lavorazione), il legislatore ha preferito glissare sulla vexata quaestio e decidere dirattamente per l'esclusione delle terre e rocce di scavo, anche quando contaminate (ma non oltre i limiti, beninteso):
Art.1, co.17 Il comma 3, lettera b) dell’articolo 7 ed il comma 1, lettera f-bis) dell’articolo 8 del decreto legislativo n. 22 del 1997, si interpretano nel senso che le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, non costituiscono rifiuti e sono, perciò, escluse dall’ambito di applicazione del medesimo decreto legislativo, anche quando contaminate, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti derivanti dalle attività di escavazione, perforazione e costruzione, sempreché la composizione media dell’intera massa non presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti dalle norme vigenti. |
Ad un puro livello teorico non si può che condividere l'esclusione delle torre e rocce di scavo dalla normativa sui rifiuti. Se andiamo ad analizzare il processo che le genera e l'elevata riutilizzabilità delle stesse, come può seriamente ritenersi che ci si debba preoccupare del loro destino? In effetti la traduzione della direttiva CEE sul punto sollevava alcune perplessità in quanto il campo di applicazione poteva comunque ricomprenderle nel caso queste risultassero "pericolose". Oggi, con l'entrata in vigore della Decisione CE/118/01 che aggiorna le codifiche CER, sappiamo che cosa probabilmente si voleva intendere con il termine, ma fino all'altro ieri, senza punti di riferimento, una soluzione doveva essere trovata.
E' stato effettivamente con la vicenda della TAV che si è potuto sperimentare nel concreto cosa si dovesse temere da una esclusione delle terre e rocce di scavo dalla normativa sui rifiuti. Non è sempre detto che i processi di estrazione siano del tutto "puliti", il rischio è che certe lavorazioni portino ad una contaminazione neppure tanto limitata del materiale estratto. La realizzazione di gallerie con il sistema adottato dal Cavet incappa appunto nell'uso di olio minerale come "disarmante" e quindi nella conseguente contaminazione dello smarino.
Un altro esempio che è possibile portare è il caso della dismissione di grandi zone industriali e le movimentazione terra che si rende necessaria per attuare piani particolareggiati ed opere di urbanizzazione in luogo delle vecchie produzioni. Se si eccettuano i siti già censiti nel programma nazionale delle bonifiche, vi è una moltitudine di casi che, per insipienza o disinteresse, corrono il rischio di essere ignorati sotto questo profilo solo perché nessuna pubblica ammistrazione ha richiesto lo svolgimento di una accurata indagine dei luoghi a carico del proponente, in modo da garantire che i terreni di fondazione o di riporto non celino brutte sorprese. Ecco che, allora, in questi luoghi, le terre di scavo non sono più un oggetto da rimuovere in assoluta tranquillità, ma abbisognano di un approfondimento preventivo (come la conoscenza dei processi industriali e delle sostanze utilizzate, dei serbatoi interrati, dei reticoli fognari ecc.).
Quello che proprio non va nel disposto è quel riferimento alla "…composizione media dell’intera massa…". Qui, per capire, serve avere letto le cronache parlamentari. In una audizione in Commissione Ambiente, susseguente alle notizie dei sequestri toscani, il Ministro Lunardi ha voluto fornire una giustificazione tecnica del fattaccio ricorrendo proprio all'aritmetica:
"… considerato il volume di disarmante impiegato per tutte le gallerie in queste operazioni, considerati i metri cubi di smarino previsti nell'ambito di tutte le gallerie e quant'altro, rappresenta non più di 4,5 parti per milione. Questo è un dato fornito dai cantieri, implicitamente avallato, quindi, anche da Italferr..."
E' abbastanza chiaro da quale ministero è uscito il testo del comma 17, no?
Ma, per rimanere in argomento, perché questa mediazione dei risultati dovrebbe tanto preoccupare? Per un motivo semplice: in questo modo si legittima la pratica della diluizione dei rifiuti.
Riesaminiamo ancora la vicenda TAV. Il tutto è nato dalla volontà dell'esecutore o dei subappaltatori (cui peraltro nessuna amministrazione ha posto resistenza) di disconoscere l'attributo di rifiuti alle terre e rocce di scavo prodotte con le escavazioni. Se però si fosse istruito meglio il SIA (Studio di Impatto Ambientale) sarebbe probabilmente emerso che non solo di terre e rocce si stava parlando ma anche di fanghi, per es. i fanghi di depurazione delle acque di aggottamento i quali contengono un residuo variabile di idrocarburi, dovuto all'utilizzo del disarmante, tale da richiederne un trattamento ai sensi del D.Lvo 22/97. Lo stesso dicasi per i fanghi di depurazione del lavaggio delle betoniere e i fanghi derivanti dal lavaggio degli inerti. Nel mucchio è andato di tutto. Tutte queste categorie di rifiuto invece di essere destinate a collocazioni lecite sotto il profilo della contaminazione, sono state smaltite abusivamente in discariche per inerti o, peggio, in cave dismesse in diretta comunicazione con le falde, unitamente allo smarino. Quest'ultimo, in termini di massa, è decisamente soverchiante.
L'ipotesi di reato si poggia, molto presumibilmente, sulla prova costituita da campioni di fanghi raccolti laddove questi sono stati buttati. Chi ha raccolto il campione ha ritenuto di dover sottoporre all'analisi tale matrice, e non l'intera massa, in quanto per la dimostrazione del reato ci si doveva limitare a segnalare la presenza di una contaminazione in una categoria di rifiuti che non può conseguentemente essere considerata alla stregua di un inerte. Per rifarsi cioè al principio introdotto dal "glorioso" DPR 915/82 e relativi regolamenti attuativi la composizione del rifiuto si esamina laddove questo si forma, cioè subito a valle del processo che lo ha generato.
Invece il testo dell'articolato più volte citato rischia di essere interpretato con l'indicazione che le analisi vadano effettuate sull'intera massa costituita dal terreno e dai rifiuti ad esso frammisti, con ciò ricadendo inevitabilmente in una media dei valori, abbattendo le punte. Questa lettura estremamente favorevole al soggetto indagato non è tanto peregrina come sembrerebbe, considerando che il DM 471/99, che è la norma regolatrice in caso di siti contaminati, chiede proprio che venga effettuata una caratterizzazione dell'area inquinata. Ma questa caratterizzazione, che è in sostanza un'indagine analitica accurata sia in termini di estensione che di profondità del sito, è un obbligo a carico del responsabile dell'inquinamento ed ha la finalità di permettere, per quanto possibile, l'individuazione di un "modello concettuale" dell'inquinamento, come ha avuto luogo nel tempo la diffusione delle sostanze inquinanti. Siamo in tutt'altro campo rispetto alla raccolta delle prove di un reato.
In effetti i timori non possono che essere confermati dal successivo comma 18.
Art.1, co.18. Il rispetto dei limiti di cui al comma 17 è verificato mediante accertamenti sui siti di destinazione dei materiali da scavo. I limiti massimi accettabili sono individuati dall’allegato 1, tabella 1, colonna B, del decreto del Ministro dell’ambiente 25 ottobre 1999, n. 471, e successive modificazioni, salvo che la destinazione urbanistica del sito non richieda un limite inferiore. |
Avete compreso bene. Violando il principio introdotto nella normativa del
1982 qui il legislatore chiede chi i controlli analitici vengano effettuati
sui siti di destinazione, cioè su una massa eterogenea di materiali
in mezzo ai quali sono finiti anche rifiuti non ammessi.
Cerchiamo di spiegarci attraverso un esempio. Immaginiamo che in una cava di 40.000 mc di capacità volumetrica siano scaricati nottetempo 5000 mc di rifiuti industriali contenenti piombo in concentrazione pari a 2.000 mg/kg (0,2%) e che progressivamente la cava sia riempita con terre e rocce di scavo, questa volta indenni da contaminazione, e intimamente mescolate con i rifiuti stessi fino a renderli indistinguibili dal resto. L'ente pubblico dovrà a questo punto assicurare un campione medio-composito cioè rappresentativo dell'intera massa provvedendo mediante il sistema della cosiddetta "quartatura".
Tenendo conto di un peso specifico di 1,5 sia per le terre che per i rifiuti avremmo nell'esempio:
40.000 x 1,5 = 60.000 tonnellate dell'intera massa pari a 6.000.000 kg
2000 mg x 5.000.000 x 1,5 = mg 15.000.000.000 di piombo nei rifiuti
15.0000.000.000 : 60.000.000 = 250 mg/kg è la concentrazione del piombo nell'intera massa
Con una concentrazione di 250 mg/kg, inferiore ai limiti di accettabilità previsti per le zone industriali (1000 mg/kg) alle quali si assimila un'area per attività estrattive, non c'è reato.
Questa nell'ipotesi migliore. In quella peggiore il metodo della quartatura potrebbe venire contestato in quanto il riferimento al DM 471/99 comporta necessariamente l'applicazione della metodologia di campionamento descritta nello stesso, cioè la già nominata caratterizzazione.
I malcapitati enti pubblici che verranno chiamati a determinare il rispetto dei limiti dovranno allora predisporre una campagna di misure assai più impegnativa, con un elevato numero di campioni da raccogliere, l'acquisto della strumentazione necessaria (della quale nessun ente è presumibilmente dotato), le spese sostenute per le analisi, le risorse umane che dovranno garantire le prestazioni richieste. Senza contare che il carico di lavoro generato da quest'attività sarà sottratto ad altri compiti istituzionali.
Naturalmente questo è un esempio limite, è ben difficile che il lavoro di rimescolamento sia così ben fatto, risulterebbe evidente la stratificazione del sito e la presenza di un livello anomalo nel quale ritrovare tutto il piombo celato dall'operazione. Ma è vero anche che i risultati delle indagini analitiche spesso danno indicazioni interpretabili, presentano margini di incertezza. E sappiamo che quando i tecnici non sono in grado di fornire risposte univoche e indiscutibili i periti delle parti avverse vanno a nozze.
Anche se l'auspicio è che si tratti di una svista, che non ci sia l'intenzione, che sia possibile un chiarimento, il risultato di questo intervento normativo sarà molto probabilmente (anche se speriamo altrimenti) la richiesta di nullità delle analisi effettuate dall'ARPAT. I campioni mirati all'analisi del rifiuto saranno sicuramente contestati perché non rappresentativi dell'intera massa, mentre si porteranno risultati più favorevoli agli indagati consistenti in determinazioni degli stessi parametri in punti nei quali non si riscontra la presenza di fanghi. Perché sia rappresentativo il campione deve cioè riprodurre in piccolo le caratteristiche dell'intero cumulo. Vedremo se questa previsione sarà azzeccata, vedremo anche se il giudice darà ragione alla difesa o riterrà fondate le posizioni dell'accusa.
Ora, si sa, il modo più utilizzato per liberarsi di rifiuti è quello di scaricarli in cave esaurite. Con questa bella trovata quanto valore avranno le prove raccolte nel corso di indagini riguardanti l'interramento di rifiuti industriali? E da domani chi si troverà davanti ad un abuso di queste dimensioni come si comporterà? Chi scrive crede che questo sia un vero e proprio regalo agli inquinatori.