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Gianni Vattimo

Gianteresio "Gianni" Vattimo è nato a Torino nel 1936. Si è laureato in filosofia con Luigi Pareyson ed ha ottenuto la specializzazione a Heidelberg, dove insegnavano Karl Löwith e Hans-Georg Gadamer. Nel 1964 ha cominciato ad insegnare filosofia all'università di Torino, dove successivamente è diventato preside della facoltà di Lettere e filosofia.

Ha spesso, se non sempre, unito all'impegno filosofico l'attività politica, iniziando come dirigente degli studenti cattolici negli anni '50, per poi saltare nei radicali e, successivamente, nei partiti della sinistra italiana (è stato parlamentare europeo eletto nelle liste dei ds). Vattimo tutt'ora si batte per il rinnovamento della società in senso pluralista e libertario (e, si potrebbe dire, postmoderno) pur non disdegnando l'accoglienza di quei valori storici propri della cattolicità tradizionale (soprattutto il senso della "pietas") sintentizzandoli in ragione di un pensiero che si autodefinì "debole", in contrapposizione alle distinzioni etiche ed epistemologiche intransigenti e dogmatiche.

Direttore della "Rivista di estetica", Vattimo è stato più volte negli Stati Uniti in veste di visiting professor ed è considerato tra i più eminenti studiosi europei, nel solco della corrente filosofica che da Heidegger porta a Gadamer e al pensiero francese della differenza, passando per il recupero del pensiero di Nietzsche e una comprensibile sintonia con l'itinerario di Richard Rorty, filosofo statunitense di scuola analitica, poi attirato dal post-modernismo continentale e dall'arte di Nabokov.

Il pensiero debole
Gianni Vattimo è ormai conosciuto come uno dei massimi teorici del pensiero debole, ovvero di un nuovo modo di porsi del pensiero nei confronti delle problematiche filosofiche ed etiche. L'idea che sta alla base di questo atteggiamento è che non esiste alcuna possibilità, da parte del pensiero, di affermare o raggiungere una qualsiasi verità stabile o definitiva. E' convinto che la modernità abbia fatto il suo tempo e che il postmoderno sia l'esperienza di una fine. In primo luogo, in quanto consapevolezza della " fine della storia ", cioè della concezione moderna della storia come corso unitario e progresso illimitato,. secondo il paradigma per il quale "nuovo" corrisponde a migliore: «[...[ la modernità, nella ipotesi che propongo, finisce quando - per molteplici ragioni - non appare più possibile parlare della storia come qualcosa di unitario» (da La società trasparente). Ragioni che non sono soltanto di tipo intellettuale e fìlosofico, ma anche di tipo storico-sociale, visto che vanno dal tramonto del colonialismo e dell'imperialismo fino all'affermarsi della società mondiale e globalizzata. Il riscatto dei popoli del terzo e quarto mondo ha reso problematica l'idea di una storia eurocentrica (è Colombo che ha "scoperto" l'America?) l'affermarsi del pluralismo e della società dei media ha minato alla base la possibilità stessa di una storia unitaria. Come dimostra il fatto che, se è vero che solo con il mondo moderno, cioè con "l'età di Gutenberg" di cui parla McLuhan, si sono create le condizioni per costruire e trasmettere un'immagine unitaria e globale della storia umana, è altrettanto vero che con la diffusione delle tecnologie multimediali si è avuta una moltiplicazione dei centri di diffusione delle notizie e di interpretazione degli avvenimenti: «[...] la storia non è più un filo unitario conduttore, è invece una quantità di informazioni, di cronache, di televisori che abbiamo in casa, molti televisori in una casa» (1).
Nella premessa a Il pensiero debole (2), scritta con Pier Aldo Rovatti, gli autori affermavano: «Il dibattito filosofico ha oggi almeno un punto di convergenza: non si dà una formazione unica, ultima, normativa.
Negli anni sessanta si cercava un'altra fondazione. Se un senso del sapere appariva ormai cristallizzato, la filosofia si incaricava proprio di affrontare questa "crisi" e si mobilitava per tentare di cambiar scena, di ricucire le discipline, e in particolare i saperi umanistici, con una nuova trama: strutturalistica o fenomenologica. L'alternativa, schematizzando, era: o ricorrere a strutture prive di centro e finalità, in una parola senza soggetto, oppure cercare di battere il terreno di una soggettività non sostanzialistica, più fluida, in divenire. L'esempio più lampante veniva fornito dalla discussione attorno ai fondamenti del marxismo. Mentre la riscoperta del Marx "filosofo" voleva dire che le categorie economico-politiche erano ripercorribili a partire da un senso filosofico esistenziale, da un'idea di uomo come soggetto in via di costituzione e disposto finalisticamente verso una realizzazione (si pensi a Sartre), d'altra parte, e in modo predominante, l'anti-umanismo strutturalistico rifiutava la semplificazione scientistica per valorizzare un'idea complessa di struttura a più dimensioni, con molti centri, con molti strati temporali relativamente autonomi, dotati di rapporti causali non lineari. Soggetto e oggetto, in definitiva, tentavano di sfuggire a una ipostatizzazione riduttiva, soggettivismo coscienzialistico o oggettivismo scientistico, e ciascuno tentava di ridefinirsi per conto proprio, entrambi però prendendo le distanze da una metafisica schematica.»

Negli anni Settanta, secondo Rovatti e Vattimo, lo scenario si complica e il quadro assume tinte fosche. Emerge un pensiero senza redenzione, "negativo", nel quale, tuttavia, permangono residui metafisici e quindi la tentazione della reductio ad unum. «La crisi dei fondamenti, a questo punto, non è più trattabile come una cattiva verità che può essere rovesciata da una nuova: la "crisi" si sposta infatti dentro l'idea stessa di verità. Il dibattito cambia tono: vi irrompe stabilmente, anche se non gradito, un elemento tragico, e tutte le posizioni alla fine, lo sappiano o no, modi per elaborare o tenere a distanza questo elemento, che un linguaggio reso opaco dalla lunga consuetudine continua a chiamare "irrazionale".» Da cui una domanda di sapore retorico: si deve necessariamente rinunciare alla verità, oppure accettare la manifestazione di nuove ragioni plurime?

Entrando nel merito del testo di Vattimo - Dialettica, differenza, pensiero debole - ci si imbatte subito nel richiamo al termine heideggeriano Verwindung (una famglia di possibili signficati, da guarigione a accettazione, passando per rassegnazione, svuotamento, distorsione, alleggerimento ed altri ancora). Vattimo allude al rimettersi da una malattia (ossia: la metafisica) nella rassegnata consapevolezza che di essa siamo comunque destinati a portare le tracce. Partire dalla dialettica e dalla differenza per connettersi a Verwindung «[...]. non è una decisione teorica che debba o possa venir radicalmente giustificata. Questi due termini, e ciò che significano specificamente, nella nostra situazione, sono "dati" di destino nel senso dell'invio: sono due riferimenti che ci troviamo ad incontrare sempre di nuovo quando ci mettiamo a pensare qui ed ora. Forse è soprattutto il pensiero "forte", quello della cogenza deduttiva, che deve temere di lasciarsi sfuggire la "mossa" iniziale, fatta la quale i giochi sarebbero poi fatti. Ma è vero che non si può saltare la questione neanche dal punto di vista di una visione debole del pensare; la quale, anzi, si costituisce proprio supponendola possibilità che, di contro a una impostazione duramente metafisica del problema del cominciamento (muovere dai principi primi dell'essere) », a una metafisico-storicistica (alla Hegel: l'essere non ha principi primi, ma un processo provvidenziale: pensare significa innalzarsi all'altezza dei tempi), si dia una terza via di stampo "empiristico", senza però alcuna pretesa di muovere da una qualche esperienza pura o purificata di ogni condizionamento storico-culturale. L'esperienza da cui possiamo muovere, e a cui dobbiamo essere fedeli, è quella dell'innanzitutto e per lo più quotidiano, che è anche sempre storicamente qualificata, culturalmente densa. Non ci sono condizioni trascendentali di possibilità dell'esperienza, che sia possibile raggiungere mediante una qualche riduzione o epochè che sospenda la nostra adesione a orizzonti socio-culturali, linguistici, categoriali. Le condizioni di possibilità dell'esperienza sono sempre qualificate; o come dice Heidegger, l'Esserci è progetto gettato, di volta in volta gettato.»

Fare i conti con la dialettica: Sartre e Benjamin
L'esigenza di far i conti con la tradizione dialettica, come parte viva della continuità metafisica e del "pensiero forte", è facilmente intuibile. Vattimo, si rivolge a Sartre ed alla sua Critica della ragion dialettica come testo emblematico. Sono in gioco due termini cardinali: totalità e riappropriazione. Questo lavoro di Sartre è una critica nel senso kantiano del termine; tenta di chiarire entro quali condizioni sia possibile ricostituire un punto di vista totale non ideologico. «E' noto - scrive Vattimo - come Sartre risolva, sia pure in modo non definitivo, il problema: un sapere effettivamente totale-rappresentativo si attua soltanto nella coscienza del gruppo-in-fusione, il gruppo rivoluzionario in azione, nel quale teoria e prassi fanno tutt'uno, e la prospettiva del singolo coincide pienamente con quella di tutti gli altri. Ma di là da questa soluzione e dai problemi che essa pur sempre contiene (la tendenza alla ricaduta nell'alienzazione del pratico-inerte passati i momenti rivoluzionari "caldi"), quel che importa dell'analisi di Sartre è il fatto di aver chiarito una volta per tutte (pare a noi) il carattere mitologico delle altre soluzioni del problema della dialettica; anzitutto di quella lukacsiana, che attribuiva, con Marx, la capacità di una visione totalizzante del senso della storia al proletariato espropriato in quanto espropriato, e garantiva poi, leninisticamente, l'attendibilità di questa visione totalizzante identificando la coscienza di classe con l'avanguardia del proletariato - il partito e la sua burocrazia.» Si potrebbe dire, allora, che Sartre ha provato a dimostrare come ciascuno potrebbe diventare lo spirito assoluto hegeliano, andando incontro al fallimento, mostrando l'impossibilità della riappropriazione.
Con Benjamin, in particolare le Tesi di filosofia della storia (uno dei pochi scritti schiettamente filosofici del saggista tedesco), Vattimo prende le mosse dalla critica del tempo storico come procedere omogeneo. «L'idea di un corso progressivo del tempo, e in fondo l'idea che si dia qualcosa come la storia, è espressione della cultura dei dominatori; la storia come linea unitaria è in verità solo la storia di ciò che ha vinto; essa si costituisce a prezzo dell'esclusione, prima nella pratica e poi nella memoria, di una moltitudine di possibilità, valori, immagini: è lo sdegno per questa liquidazione, più che il desiderio di assicurare un destino migliore a quelli che verranno, ciò che davvero muove, secondo Benjamin, la decisione rivoluzionaria.» Testo, quello dell Tesi, che pone grandi difficoltà, e che rispecchia problemi che riguardano la dialettica nel suo insieme. «Il pathos micrologico di Benjamin, che si risente in molte pagine di Adorno, è il modo più significativo e urgente in cui oggi si presenta la crisi del pensiero dialettico (ma non dimentichiamo che già Kierkiegaard aveva fondato il proprio antihegelismo sulla rivendicazione del singolo). L'importanza e il fascino di pensatori come Benjamin, Adorno, Bloch, non consiste tanto nell'aver ripensato la dialettica incorporando in essa le esigenze critiche della micrologia, ma nell'aver fatto valere queste esigenze anche a scapito della dialettica e della stessa coerenza e unità del proprio pensiero. Essi non sono pensatori della dialettica, ma della sua dissoluzione.» Per Vattimo, bisogna prender atto che il pensiero della totalità è un pensiero signorile - ossia aristocratico e borghese - e che quella parte - che chiama «maledetta» della società, il mucchio degli esclusi, «non si lascia facilmente ricomprendere in una totalizzzione» Per questo, proprio nel cuore del marxismo, non può che avere luogo una permanente tendenza dissolutiva «che ha la sua peculiare espressione nella dialettica negativa di Adorno, nella mistura di materialismo e teologia di Benjamin, nell'utopismo di Bloch.»

La differenza
Sicché per Vattimo, sulla deriva autodissolutiva della dialettica si innesta il pensiero della differenza. Per spiegarsi meglio, ricorre ad una precisazione: inserire la differenza significa seguire un itinerario di pensiero che, senza negare la propria caratteristica personale, «si sforzi di farsi guidare dalla "cosa stessa".» L'inserimento non è casuale. C'è un filo che lega i marxisti critici all'esistenzialismo. Uno è certamente Sartre ma, esso porta ad Heidegger. «La tesi che si propone deve dunque essere completata così: nello sviluppo del pensiero dialettico novecentesco, si fa luce una tendenza dissolutiva che lo schema dialettico non riesce più a controllare; questa tendenza è visibile nella micrologia benjaminiana, nella "negatività adorniana, e nell'utopismo di Bloch. Il significato di questa tendenza consiste nel mettere in luce che l'approccio dialettico al problema dell'alienazione e della riappropriazione è ancora profondamente complice dell'alienazione che vorrebbe combattere: l'idea di totalità e quella di riappropriazione, capisaldi di ogni pensiero dialettico, sono ancora nozioni metafisiche non criticate.Al venire in chiaro di questa consapevolezza contribuisce in modo determinante Nietzsche, con la sua analisi della soggettività metafisica in termini di dominio, e con l'annuncio che Dio è morto, e cioè che le strutture forti della metafisica - archai, Gründe, evidenze prime, e domini ultimi erano solo forme di rassicurazione del pensiero in epoche in cui la tecnica e l'organizzazione sociale non ci avevano ancora resi capaci, come accade ora, di vivere in un orizzonte più aperto, meno "magicamente" garantito. I concetti reggenti la metafisica - come l'idea di una totalità del mondo, di un senso unitario della storia, di un soggetto autocentrato capace eventualmente di appropriazione - si rivelano come mezzi di disciplinamento e rassicurazione non più necessari nel quadro delle attuali capacità di di disposizione della tecnica. Anche la scoperta della superfluità della metafisica (in termini marcusiani, della repressione addizionale) resterebbe tuttavia esposta al rischio di risolversi in una nuova metafisica (per esempio: umanistica, naturalistica, vitalistica), se si limitasse a sostituire un essere "vero" a quello svelato falso dalla critica - sia essa di Nietzsche o di Marcuse.»
Per evitare tale rischio occorre associare la critica alla metafisica come ideologia rassicurante che consente il dominio allla radicale ripresa del problema dell'essere avviata da Heidegger. Ciò non conduce ad una struttura trascendentale di tipo kantiano (o husserliano) né ad una totalità dialettica che determini il senso, bensì al riconoscimento dell'insostenibilità (prima nella "cosa stessa" che nella teoria) «di uno dei tratti che da sempre la tradizione metafisica ha assegnato all'essere, cioè la stabilità della presenza, l'eternità, l'"entità" o ousia.» Su tale strada si va anche oltre le aspettative di Heidegger. L'essere non è, l'essere accade. L'essere si presenta distinguibile dagli enti posti dal pensiero ontico della metafica classica solo come accadere storico-culturale, il trasformarsi degli orizzonti entro i quali gli enti si danno all'uomo e l'uomo stesso si autopercepisce. Da quando Heidegger è riuscito a temporalizzare l'a priori, si può solo dire che l'essere è tras-missione, invio. «Il mondo si esperisce in orizzonti che sono costruiti da una serie di echi, di risonanze di linguaggio, di messaggi provenienti dal passato, da altri (gli altri accanto a noi come le altre culture)...[...] La differenza fra essere ed enti è anche, forse principalmente, il tratto peculiare di differimento che caratterizza l'essere....[...] Di questa differimento è intessuto anche il rapporto tra essere e linguaggio, che per Heidegger diventa decisivo a partire dagli anni trenta, e che lo accomuna, ma ancora una volta su un piano di maggior radicalità, con altri orientamenti filosofici novecenteschi (per i quali Apel, come si sa, ha parlato di "trasformazione semiotica del kantismo"). quel che c'è di più radicale in Heidegger è che la scoperta del carattere linguistico dell'accadere dell'essere si riverbera sulla concezione dell'essere stesso, che risulta spogliato di tutti tratti forti attribuitigli dalla tradizione metafisica.»

Le avventure della differenza
Tali considerazioni sintetizzate nel breve e nervoso saggio esaminato finora erano già apparse in vari scritti di Vattimo. (3) Liberare il discorso dalle pesanti ipoteche della metafisica tradizionale, significa riaprire la porta alle suggestioni del nichilismo in termini diversi, dunque aprirsi alle "avventure della differenza". Ciò di cui si è persa la memoria nella vicenda metafisica della filosofia, e quindi nei testi che raccontano la sua storia, è il loro carattere eventuale - termine che Wikipedia presenterebbe come necessitante di una disambiguazione (eventuale in che senso?). Dopo aver ricordato che per Heidegger tutte quelle che appaiono come strutture sono, al contrario, eventi, ossia aperture storiche dell'essere, Vattimo si chiede se ciò non valga per l'arcistruttura della differenza. Contestare all'arcistruttura il suo carattere eventuale significa rifiutare l'impossibilità di un oltrepassamento della metafisica, dacché la differenza starebbe alla base di ogni apertura dell'essere in ogni epoca e in ogni storia. «Ma in tal caso - scriveva Vattimo - essa funge da stabilità metafisica, è solo un diverso nome dell'ontos on di Platone; e, in secondo luogo, non c'è storia se non come sempre rinnovata ripetizione della differenziazione tra essere ed ente, e conseguentemente, come ripetizione dell'oblio metafico della differenza...» (4) Questo, secondo Vattimo, è l'equivoco al quale non sempre Heidegger ha saputo sottrarsi. E' su questo difetto heideggeriano che hanno buon gioco a trovare fondamento le interpretazioni neoplatoneggianto o teologizzanti del suo pensiero. Da qui la nuova proposta interpretaaiva: radicalizzare il senso della metafisica come 'storia dell'essere' leggendo tale espressione nel suo significato più forte, quello che emerge dall'attribuire un senso oggettivo al genitivo dell'"essere". Sicché, scriveva Vattimo, «La metafisica, in questo caso, si chiamerebbe storia o destino dell'essere perché l'essere steso appartiene totalmente alla metafica e alla sua storia: la fine della metafisica, ma anche dell'oltrepassamento che Heidegger ritiene di dover preparare, equivarrebbe allora alla fine dell'essere, e anche alla fine della differenza ontologica. Ciò che accade nel pensiero di Nietzsche, e cioè che in esso "dell'essere stesso non ne è più nulla", sarebbe l'oltrepassamento della metafisica in quanto liquidazione della nozione stessa di essere. [...] In questa prospettiva, ciò che Heidegger chiama oblio della differenza ontologica non sarebbe più la dimenticanza del fatto che l'essere non è l'ente, ma la dimenticanza della differenza come problema, cioè della differenza nella sua eventualità, del perché del suo istituirsi.»
Queste considerazioni presuppongono una lettura di Nietzsche e del nichilismo in radicale opposizione a quella 'marxista' offerta da Lukàcs, come evidenziato ne Il soggetto e la maschera. Se occorre accettare fino in fondo la sentenza di morte avvenuta e constatata - "Dio è morto" - è soprattutto in chiave antiplatonica, Infatti, è solo seguendo Nietzsche e la sua via 'genealogica' che si scopre che sotto le apparenze del molteplice non vi è l'Uno ma, solo altre apparenze.. Non ha quindi alcun senso cercare un fondamento ultimo.
In questa prospettiva, è pertanto possibile un pieno recupero della tematica esistenziale di Heidegger e assegnarle una polivalenza etica. La vera questione di Sein und Zeit era quella di mettere a fuoco una nozione di essere in grado di consentire di pensare l'esistenza degli esseri umani come storicamente disposta tra nascita e morte, ovvero come totalità ermeneutica. Questa è tale proprio perché si svolge all'interno della finetezza e dell'essere-gettato nel mondo, a vivere. Heidegger pensava che solo riunendosi al pensiero di 'essere per la morte' si potesse trovare lo 'scrigno in cui sono collocati i valori: «... l'esperienza di vita delle generazioni passate, i grandi e i belli del passato con cui vogliamo stare e dialogare, le persone che abbiamo amato e che sono scomparse. Lo stesso linguaggio, in quanto cristallizzazione di atti di parola, di modi di esperienza, è collocato nello scrigno della morte. Quello scrigno, è anche, in fondo, la fonte delle poche regole che ci possono aiutare a muoverci in modo non caotico e disordinato nell'esistenza, pur sapendo che non siamo diretti in nessun luogo.» (5)

(continua)


(1) Filosofia al presente, - Garzanti 1990
(2) Il pensiero debole - Feltrinelli, Milano, 1983 (saggi di G. Vattimo, P. A. Rovatti, Umberto Eco, Gianni Carchia, Alessandro Dal Lago, Maurizio Ferraris, Leonardo Amoroso, Diego Marconi, Giampiero Comolli, Filippo Costa, Franco Crespi)
(3) oltre a quelli citati occorre ricordare Introduzione ad Heidegger - Laterza 1971 e Il soggetto e la maschera - Bompiani 1974
(4) Le avventure della differenza, - Garzanti 1980
(5) Al di là del soggetto - Feltrinelli 1981


Della realtà. Fini della filosofia - di Gianmaria Merenda
Della realtà: debole, debolissimo di Luigi Prestinenza Puglisi

Carlo Augusto Viano - L'ossessione del potere
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